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Full text of "Ariberto Acerbi, Il sistema di Jacobi. Ragione, esistenza, persona"

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Ariberto Acerbi 


Il sistema di Jacobi. 
Ragione, esistenza, persona 



Sommario 

Sommario 5 

Presentazione 7 

Nota editoriale 9 

INTRODUZIONE 11 

1. Introduzione. Il realismo esistenziale di 
Friedrich Heinrich Jacobi 13 

1. CONFRONTI 81 

2. Fa Deduzione trascendentale delle categorie. 

Kant e Jacobi a confronto 83 

3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 99 

4. Jacobi e Feibniz. Sul progetto incompiuto del 

“David Hume” 141 

5. Jacobi e l’interpretazione fichtiana della 

“Fettera a Fichte” 159 

II. TEMI 191 

6. Teoria della persona 193 

7. Teoria della ragione 217 

Conclusione 247 

Bibliografia 251 

Indice dei luoghi citati 267 

Indice dei nomi 275 

Indice analitico 277 



6 



Presentazione 


Il presente lavoro intende offrire un’introduzione al pensiero di Frie- 
drich Heinrich Jacobi, specialmente sotto il profilo della sua dottrina 
della conoscenza. Lo compongono alcuni testi inediti ed altri già 
pubblicati, ma tutti sin dall’inizio concepiti come parti di una mede- 
sima ricerca, nel modo in cui qui si presentano. Il primo capitolo, as- 
secondando la sua iniziale destinazione didattica, serve ad un primo 
approccio ai temi e alla terminologia dell’autore; nel tentare una pri- 
ma valutazione, vi si avanzano, infine, alcuni problemi che avviano lo 
sviluppo ulteriore, maggiormente tecnico, dell’indagine. Quest’ulti- 
mo è stato realizzato in alcuni studi separati, ora raccolti in due se- 
zioni: la prima sezione è dedicata al confronto del filosofo con alcuni 
dei suoi principali interlocutori: Kant, Leibniz, Fichte. La sezione se- 
guente raccoglie due studi concentratesi su due argomenti d’impor- 
tanza generale, nel cui insieme si vuole giungere ad una sintesi con- 
clusiva: la teoria della persona e della ragione. 

La nostra attenzione si concentrerà sulle opere principali da cui, 
seguendo l’indicazione espressa dell’autore, è possibile apprezzare, 
seppure in modo schematico, l’unità del suo pensiero. Quest’ultimo 
punto è, in realtà, quanto qui s’intende dimostrare. Il lettore noterà 
una certa circolarità nella trattazione: questa caratteristica è intenzio- 
nale, quand’anche non si sia sempre riuscito ad evitare delle inutili 
ripetizioni. Più direttamente, in questo lavoro, non ho puntato tanto 
ad un’esposizione dell’opera di Jacobi (da tal punto di vista, il contri- 
buto risulterà piuttosto ridotto), quanto alla progressiva delineazione 
di alcuni motivi di fondo del suo pensiero. In esso mi sembra di aver 
trovato, in effetti, al di là dei suoi stessi limiti, le indicazioni per una 
«vera filosofia», ossia per «una scienza e una sapienza che illuminino 
tutto l’uomo» (Jacobi, Su di una profezia di Lichtenberg). Ancora, 
«come le parti di un tutto che in ogni sua parte, in diverso modo, si 
ripete» ( Werke , voi. 3, Prefazione), ossia un autentico “sistema”. 



Presentazione 


Debbo un particolare ringraziamento ai professori Juan José San- 
guinei e Marco Ivaldo, per la loro amichevole e continuata disponi- 
bilità al confronto sui temi che sono oggetto di questo lavoro, non- 
ché per la loro premurosa attenzione rivolta alla sua stesura. Un rin- 
graziamento debbo ancora a quanti con le loro osservazioni e sugge- 
rimenti mi hanno aiutato nell’elaborazione e nella revisione del testo: 
i professori Steven Brock, Francisco Fernandez Labastida, Alberto 
Iacovacci, Antonio Livi, Luis Romera, Dario Sacchi, Luca Tuninetti; 
i dottori Franz Knappik, Gennaro Luise e Giacomo Samek Lodovi- 
ci. L 'editing e la pubblicazione del testo debbono molto alla paziente 
assistenza del professor Rafael Martinez e al sostegno economico del- 
la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce, 
che qui ringrazio vivamente. 

A. A. 



Nota editoriale 


Fonti 

- Capitolo 1 (Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich 
Heinrich Jacobi): una versione ridotta e in lingua spagnola si tro- 
va in F. Fernàndez Labastida-J. A. Mercado (a cura di), Philoso- 
phica: Enciclopedia filosòfica on line (www.philosophica.info). 

- Capitolo 3 ( Fichte e Jacobi interpreti dell’ “io penso” di Kant): già 
pubblicato in A. Bertinetto (a cura di), Leggere Fichte, Istituto 
italiano per gli studi filosofici, Napoli 2009, pp. 267-298. 

- Capitolo 4 ( Jacobi e Leibniz. Sul progetto incompiuto del “David 
Hume ”): in stampa su «Logos» 2010 (“Jacobi in discussione”, 
Università Federico II, Napoli, 19 novembre 2009). 

- Capitolo 5 ( Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fi- 
chte”): già pubblicato in «Acta Philosophica» 1/19 (2010), pp. 
11-36. 


Riferimenti bibliografici e abbreviazioni 

Citiamo dall’edizione critica dell’opera di Jacobi (F. H. Jacobi, Wer- 
ke, Gesamtausgabe hrsg. von K. Hammacher - W. Jaeschke, 
Meiner/Frommann-Holzboog, Hamburg/Stuttgart-Bad Canstatt, 
1998-, d’ora in poi: W), secondo le diciture e nelle traduzioni indica- 
te nel seguente prospetto. I brani riportati senz’altra indicazione 
sono tradotti dall’autore. Se non indicato diversamente, i testi citati 
senza il nome dell’autore sono sempre di Jacobi. 

- La dottrina di Spinoza, W 1/1 ( Schriften zum Spinozastreit): trad. 
it. di F. Capra e V. Verrà, Laterza, Bari 1969. 



Nota editoriale 


David Hume, W 2/1 ( Schriften zum transzendentalen Idealismus), 
David Hume ilber den Glauben etc.: trad. it. di N. Bobbio (F. H. 
Jacobi, Idealismo e Realismo), De Silva, Torino 1948. 

Sull’idealismo trascendentale, W 2/1 {ibidem), David Hume etc., 
Beylage. Ueber den Transscendentalen Idealismus : trad. it. di G. 
Sansonetti (F. H. Jacobi, Scritti kantiani), Morcelliana, Brescia 
1992. 

Lettera a Fichte, W 2/1 {ibidem), Jacobi an Fichte, W 2/1, trad. it. 
di G. Sansonetti, (F. H. Jacobi, Scritti kantiani), Morcelliana, 
Brescia 2001 (se non indicato, la traduzione è nostra). 

Sull’ impresa del criticismo, W 2/1 {ibidem), Ueber das Unterneh- 
men des Kritizismus, die Vernunft zu Verstande zu bringen etc.: 
trad. it. di G. Sansonetti (F. H. Jacobi, Scritti kantiani), Morcel- 
liana, Brescia 1992. 

Introduzione generale, W 2/1 (ibidem), Einleitung in des Verfas- 
sers Sdmtliche philosophische Schriften-, trad. it. di N. Bobbio (F. 
H. Jacobi, Idealismo e Realismo), De Silva, Torino 1948. 

Su di una profezia di Lichtenberg, W 3 {Schriften zum Streit um 
die gòttlichen Dingen und ihre Offenbarung) , Ueber eine Weissa- 
gung Lichtenbergs : trad. it di N. Bobbio e G. Sansonetti, Rosen- 
berg & Sellier, Torino 1999. 

Sulle cose divine, W 3 {ibidem), Von den gòttlichen Dinge und ih- 
rer Offenbarung : trad. it. di N. Bobbio e G. Sansonetti, Rosen- 
berg & Sellier, Torino 1999. 

Corrispondenza di Attivili, W 6/1 {Romane I. Eduard Attivili), 
Eduard Attivitts Briefsammlung : trad. it. di P. Bernardini, Gueri- 
ni, Milano 1991 (se non indicato, la traduzione è nostra). 

Woldemar, W 7/1 {Romane IL Woldemar)-. trad. it. di S. Iovino, 
Cedam, Padova 2000. 



INTRODUZIONE 



12 



1. Introduzione. Il realismo esistenziale di 
Friedrich Heinrich Jacobi 


Nel presente capitolo tentiamo una visione panoramica sull’opera di 
Jacobi. La prima parte (A) segue un percorso tematico, la seconda 
parte (B) riprende lo stesso percorso soffermandosi su alcuni testi. I 
lettori che possiedano già una sufficiente conoscenza dell’autore pos- 
sono passare senza difficoltà agli studi raccolti nelle sezioni successi- 
ve. Va, però, notato che l’intera indagine presentata in questo lavoro 
avanza a partire dalle considerazioni qui svolte, specialmente a parti- 
re dalle ipotesi interpretative proposte nel paragrafo conclusivo. In 
questo e nei prossimi capitoli, ci soffermeremo, in particolare, su 
quegli aspetti della filosofia di Jacobi, più prossimamente concernen- 
ti la sua impostazione ontologica ed epistemologica, che ci consenti- 
ranno, infine, di caratterizzarla come una sorta di “realismo esisten- 
ziale”. Saranno tralasciati, invece, altri aspetti, anch’essi importanti, 
ma che per il loro carattere specifico o per la loro difficoltà meno si 
prestano ad un’esposizione complessiva; ad esempio, la teoria della 
morale, del linguaggio e della religione 1 . 


1 Ribadiamo l’orientamento selettivo di questa introduzione rispetto alle tematiche 
esaminate nei capitoli successivi. Per un primo approccio all’autore e alla sua opera: 
cfr. R. Kuhn, “Jacobi” in Dictionnaire des philosophes, PUF, Paris 1984, pp. 1318- 
1324; M. Ivaldo, Introduzione a Jacobi, Laterza, Roma-Bari 2003; V. Verrà - M. 
Ivaldo, “F. H. Jacobi”, in Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006, voi. VI, 
pp. 5901-5905; G. di Giovanni, “Friedrich Heinrich Jacobi” in Stanford Enciclope- 
dia of Philosophy, www.plato.stanford.edu. Per una bibliografia ordinata tematica- 
mente: cfr. U. Rose, Friedrich Heinrich Jacobi. Fine Bibliographie , Metzler, Stuttgart - 
Weimar 1993; M. Ivaldo, Introduzione a Jacobi, cit., pp. 159-199. 



14 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


A. Profilo ed elementi 

1. Lineamenti essenziali 

Friedrich Heinrich Jacobi (Dusseldorf 1743 - Monaco di Baviera 
1819) compare marginalmente nella manualistica. Eppure egli fu 
presto riconosciuto dai contemporanei quale una personalità filosofi- 
che tra le più significative. E citato per lo più a proposito della di- 
scussione circa la “cosa in sé” nella filosofia di Kant e come il rap- 
presentante di una filosofia d’impronta mistica che prelude al ro- 
manticismo 2 . Da tal punto di vista, si può cogliere, in effetti, un mo- 
tivo essenziale del suo pensiero: l’apertura dell’esperienza umana alla 
realtà non sensibile. Tuttavia, Jacobi intende tutto ciò non come ap- 
pannaggio di un’intuizione intellettuale riservata al filosofo, ma come 
quell’esperienza metafisica di base ( Grunderfahrung ) presente al fon- 
do di tutto ciò che l’uomo naturalmente conosce e vive. La realtà 
della persona, ad esempio — è questo uno tra i suoi temi prediletti 
— , è immediata e sempre presente, ma non è puramente sensibile. 

Gli estremi temporali suggeriscono già che egli fece esperienza di 
uno tra i periodi più turbinosi e di maggiore concentrazione specula- 
tiva nella storia moderna. Dal suo punto di vista privilegiato — non 
esercitò mai la filosofia in maniera professionale, ma fu impegnato 
soprattutto come imprenditore e politico — , ebbe modo di coltivare 
con libertà, pur nei ritagli di tempo, fitti rapporti coi maggiori espo- 
nenti della cultura dell’epoca, come Goethe ed Hamann. Lo stile 
delle sue opere risulta fortemente improntato da tale circostanza: si 
tratta per lo più di scritti brevi ed occasionali, con una particolare 


2 Cfr. B. Magnino, La filosofia mistica di Friedrich Heinrich Jacobi, in «Giornale cri- 
tico della filosofia italiana» 12 (1931), pp. 381-398, 457-479; ibidem, 13 (1932), pp. 
57-70, 103-116; Io., Romanticismo e cristianesimo, voi 1, Morcelliana, Brescia 1962, 
pp. 149-174. Tale caratterizzazione, intesa spesso in senso deteriore, divenne presto 
uno stigma indelebile, specialmente a partire da un breve scritto polemico di Kant: 
cfr. Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie, 1796. Una 
vigorosa delimitazione di questo pregiudizio, oltre ad una chiara visione d’insieme 
della filosofia di Jacobi, si può leggere in un saggio di Benedetto Croce: Io., Consi- 
derazioni sulla filosofia del Jacobi, nei Discorsi di varia filosofia, Laterza, Bari 1945, 
pp. 24-54. 



A.Profilo ed elementi 


15 


predilezione per il genere epistolare 3 . Del resto, l’informalità dello 
stile dissimula la precisione con la quale egli, come Fichte ebbe a ri- 
conoscergli, era capace di svestire un sistema filosofico del suo appa- 
rato esteriore per coglierne l’essenziale 4 . La sua scrittura, mobile ed 
allusiva, riesce a passare rapidamente dalle formule più rarefatte ad 
immagini di grande efficacia. Tra le sue opere più note sono, peral- 
tro, da citare due romanzi, Corrispondenza di Attivili ( Attwills Brief- 
sammlung, 1792) e Woldemar (1796). In essi, specialmente nel pri- 
mo, ritenne di aver lasciato l’impronta più fedele del suo pensiero 5 . 

Kant fu l’autore con il quale il filosofo di Dusseldorf si confrontò 
più a lungo e che, pur nelle prolungate critiche che ebbe a fargli, mo- 
stra di apprezzare particolarmente; almeno, per alcune istanze di 
fondo. Nel dialogo David Hume ( David Hume iiber den Glauben, 
oder Idealismus und Realismus. Din Gespràch, 1787) e nella relativa 
appendice, “Sull’idealismo trascendentale” ( Ueber den transcenden- 
talen Idealismus), egli esamina le articolazioni portanti della Critica 
della ragion pura, presentandone una valutazione d’insieme che è ri- 
masta famosa sulla coerenza della “cosa in sé” nel sistema del critici- 
smo 6 . Nell’appendice egli lancia, per così dire, una sfida a Kant e ai 
kantiani, spingendoli a riconoscere di avere lasciato il loro presuppo- 
sto di una realtà al di là del suo fenomeno privo di un’adeguata co- 
pertura critica. Li accusa, cioè, di averla assunta, ma senza l’indica- 
zione della facoltà capace di attingerla (secondo quanto esigito dal 

3 L’epistolario occupa una parte importante delle Opere complete, pubblicate dal- 
l’autore. Un’ampia scelta si trova in Friedrich Heinrich Jacohi’s auserlesener Briefwe- 
chsel, a cura di F. Roth, Fleischer, Leipzig 1825-1827 (la sezione introduttiva contie- 
ne una breve biografia dell’autore). Diversi altre raccolte sono state pubblicate suc- 
cessivamente. L’edizione critica dell’epistolario è ancora in corso. 

4 Cfr. J. G. Fichte, Gesamtausgabe (hrsg. von R. Lauth, E. Fuchs und H. 
Gliwitzky, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Canstatt 1962-, d’ora in poi: 
Fichte, GA), III/3, 18. 

5 Cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 335 (l’autore si riferisce qui particolarmente 
alla prefazione della Corrispondenza di Attivili, che citiamo poco avanti). La compo- 
sizione di questi romanzi è assai complessa: si tratta delle prime opere di Jacobi, su 
cui egli intervenne in successive edizioni, fino alla versione sostanzialmente definiti- 
va, che corrisponde a quella che abbiamo indicato. 

6 Cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisprohlem in der Fhilosophie und Wissenschaft der 
neuren Zeit, Meiner, Hamburg 2000, Bd. Ili, pp. 16-32; B. Sandkaulen, “Das “lei- 
dige Ding an sich”. Kant-Jacobi-Fichte”, in J. Stolzenberg (a cura di), System der 
Vernunft. Kant und der Fruhidealismus (“System der Vernunft. Kant und der 
deutsche Idealismus”, Band 2), Hamburg 2007, pp. 175-201. 



16 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


loro stesso metodo), dichiarandola, anzi, contraddittoriamente, come 
inconoscibile. Li invita, quindi, a risolversi per il realismo o ad assu- 
mere le conseguenze dell’idealismo in tutta la sua portata'. Nondi- 
meno, nella prefazione alla Lettera a Fichte ( Jacobi an Fichte, 1799; 
1816), egli dichiara il proprio apprezzamento per la lodevole incoe- 
renza di Kant di fronte a Fichte, il quale, rispondendo alla sfida, ha 
finalmente realizzato la promessa, fatta ma non soddisfatta dal filoso- 
fo di Kònigsberg, di edificare sulla base della “critica” un “sistema” 
di filosofia. Kant avrebbe sacrificato alla coerenza del principio “vi- 
cinano” del suo pensiero, “l’uomo conosce solo ciò che egli stesso ha 
fatto”, la trascendenza del vero, laddove Fichte rimane fedele, inve- 
ce, al principio di autonomia in tutto il suo rigore 8 . Del resto, l’ap- 
prezzamento per la coerenza di Fichte, da parte di Jacobi, va di pari 
passo con il riconoscimento dell’esito nichilistico a cui l’idealismo ul- 
timamente conduce, cioè alla recisione dell’ultimo vincolo ontologi- 
co che ancora, in certo modo, sussisteva nella filosofia di Kant. 
Com’è noto, è proprio nella Lettera a Fichte che il problema filosofi- 
co del nichilismo viene per la prima volta alla luce 9 . 

Nel 1801 compaiono due scritti nei quali il Nostro torna ad occu- 
parsi nuovamente di Kant: Sull’impresa del criticismo ( Ueber das Un- 
ternehmen des Kritizismus, die Vernunft zu Verstande zu hringen und 
der Philosophie ueberhaupt eine neue Absicht zu geben ) e Su di una 
profezia di Lichtenberg (Ueber eine Weissagung Lichtenbergs). Qui il 
filosofo affronta un altro punto che da un lato lo avvicina e d’altro 
lato lo allontana rispetto a Kant: il rapporto d’intelletto e ragione. 
L’intelletto, secondo il fondatore del criticismo, elabora la materia 

' Ecco le famose parole: «restavo preso continuamente in questa difficoltà, che 
senza quel presupposto non potevo entrare nel sistema, e con quel presupposto non 
potevo restarvi (...) L’idealista trascendentale deve avere perciò il coraggio di affer- 
mare l’idealismo più forte che sia stato mai concepito e non temere neppure l’accusa 
di egoismo speculativo, poiché non gli è possibile considerarsi nel sistema, se vuole 
anche solo allontanare da sé tale accusa» (Sull’idealismo trascendentale, W 2/1, 109, 
112; trad. it., pp. 73, 76). 

9 In uno scritto tardo (Le cose divine e la loro rivelazione, 1811) Jacobi avvicina 
Kant a Vico circa il principio del verum factum , seppur riconosca l’originalità del 
suo sviluppo secondo l’impostazione trascendentale: cfr. ivi, W 3, 79. Si deve osser- 
vare che Jacobi figura tra i primi, con Goethe, ad aver introdotto Vico in Germania. 

9 Cfr. F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 16-22. L’origine del ter- 
mine o la generica presenza dell’argomento nella cultura dell’epoca è, invece, mate- 
ria controversa. 



A.Profilo ed elementi 


17 


della sensibilità in funzione delle categorie a priori di cui esso origi- 
nariamente dispone, ed in tal modo genera la conoscenza oggettiva. 
La ragione serve a fornire gli ambiti maggiori nei quali collocare le 
diverse direzioni del processo conoscitivo, ma per il resto non è, di 
per sé, fonte di conoscenze. L’oggetto, ovvero le “idee della 
ragione”, sono il mondo, l’anima e Dio. 

Ora, dice Jacobi, quanto al primo punto, poiché secondo Kant la 
sensibilità non ha portata realmente conoscitiva, ma manifesta sol- 
tanto le modificazioni del soggetto in relazione ad una x trascenden- 
te e sconosciuta, l’opera dell’intelletto si avvicina, perciò, all’opera 
dell’immaginazione: costruisce figure secondo un criterio di coeren- 
za formale, come nella geometria, ma senza garanzia della loro effet- 
tiva realtà 10 . A tale proposito, in queste opere Jacobi attribuisce allo 
stesso filosofo di Kònigsberg una cadenza nichilistica 11 . Quanto al se- 
condo punto — e ciò specialmente in uno dei testi conclusivi dell’o- 
pera di Jacobi, l’ Introduzione generale del 1815 ( Vorrede , zugleich 
Einleitung in des Verfassers sàmtliche philosophische Schriften ) — , 
egli afferma esser stata questa la grandezza di Kant: l’aver riconosciu- 
to che l’oggetto delle idee è ciò che più profondamente penetra e 
muove l’animo umano, è ciò che definitivamente vogliamo sapere. 
Ma se, da un lato, tale riconoscimento andrebbe nel senso di attri- 
buire, quindi, alla ragione una funzione regale, nel senso classico del- 
la sofia, poiché, d’altra parte, Kant nega portata conoscitiva alla ra- 
gione, egli ne fa, infine, una “regina” sprovvista di reali poteri, al se- 
guito del suo “ministro plenipotenziario”, l’intelletto. Jacobi sostie- 
ne, invece, la capacità della ragione di produrre la suprema sintesi 
del sapere, nel senso indicato da Kant, ma attribuendole, altresì, una 

10 Nel carattere irrimediabilmente soggettivo della sensibilità, Jacobi individua un 
presupposto indiscusso che Kant condivide con la tradizione filosofica, da cui ulti- 
mamente dipende la sua soluzione idealistica: cfr. Introduzione generale, f 2/1, 
390, 392. Per la sottolineatura del carattere essenzialmente temporale dell’immagi- 
nazione e dello schematismo dell’intelletto, l’interpretazione kantiana di Jacobi è 
confrontabile con quella di Heidegger: cfr. S. Zac, F. H. Jacobi et le problème de l’i- 
magination chezKant, «Archives de Philosophie» 49 (1986), pp. 453-482. 

11 Una critica in tal senso appare già intorno al 1791/1792, cioè prima del confron- 
to con Fichte: cfr. Epistel ùber di kantische Philosophie-, Corrispondenza di Allwill, 
Lettera nr. XV. In un’ottica retrospettiva, lo stesso Jacobi dichiara di aver già dia- 
gnosticato la problematica del nichilismo nel David Hwne (1787), in relazione alla 
filosofia teoretica di Kant: cfr. Introduzione generale, W 2/1, 382. 



18 1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 

reale intenzionalità ontologica, in ciò appellandosi piuttosto a Plato- 
ne. 

Il nome di Jacobi è, infine, legato ad un famoso dibattito che ha 
segnato profondamente il panorama filosofico tedesco al passaggio 
dairilluminismo al romanticismo: lo Spinozasstreit , ossia la contro- 
versia sull’eredità di Spinoza nella filosofia contemporanea 12 . Ne La 
dottrina di Spinoza ( Ueber die Lehre des Spinoza in Briefen an den 
Herrn Moses Mendelssohn, 1785; 2a ed., 1789), Jacobi dà conto di 
uno scambio epistolare avuto con Mendelssohn sull’ultima fase del 
pensiero di Lessing, il massimo esponente deH’illuminismo tedesco. 
Jacobi aveva trasmesso a Mendelssohn, il quale stava compilando un 
volume celebrativo dello stesso letterato recentemente scomparso, 
una conversazione intrattenuta con questi circa la validità della filo- 
sofia di Spinoza rispetto ai “concetti ortodossi della divinità”. Con 
questo, Jacobi segnalava un fatto che avrebbe denunciato la superfi- 
cialità della sintesi conciliatoria avanzata dalla metafisica razionalista 
nei confronti del cristianesimo. 

Si tratta di una critica lanciata dal filosofo al razionalismo; la pri- 
ma, in realtà, ma che egli riprenderà poi, in maniera assai più elabo- 
rata, nei confronti di Schelling e di Hegel. Questi ultimi, infatti, tra- 
sfigurano l’idealismo trascendentale in forma metafisica, assumendo 
il punto di vista di Spinoza, l’intuizione della sostanza assoluta ed 
eterna, come l’indicazione, seppur ancora approssimativa, del punto 
di partenza della speculazione. Di contro, Jacobi, oppose la propria 
concezione teistica e creazionistica, cioè il proprio riconoscimento 
dell’esistenza di un Dio personale e creatore, come l’indicazione del- 
la verità più alta ed umanamente decisiva, illustrando il proprio me- 
todo come un “salto” fuori dalle premesse che necessariamente con- 
ducono — era questa la tesi colà espressa — , dalla pretesa della filo- 
sofia come scienza assolutamente esplicativa ed autonoma al deter- 
minismo. Il “salto mortale”, così egli lo chiamava in italiano, doveva 
consistere nell’assumere come vera e vincolante per la riflessione la 
visione metafisica connaturata all’intelletto umano, nei confronti del- 

12 È questo uno dei temi jacobiani su cui è stata prodotta la più ampia letteratura. 
Per la sua ampiezza e per la sua relativa emergenza rispetto al profilo qui scelto, il 
confronto di Jacobi con Spinoza e con Schelling sarà oggetto di un nostro prossimo 
studio. 



A.Profilo ed elementi 


19 


la quale il monismo naturalistico di Spinoza costituisce invece un evi- 
dente paradosso. Tale assunzione veniva designata come “fede” 
(■ Glaube ), termine che ne connota sia l’aspetto pratico, come atto 
personale di affermazione, sia il relativo aspetto cognitivo, come sa- 
pere immediato, perciò senza prove, poiché consentaneo al primo 
contatto della ragione con l’essere. Ne Le cose divine e la loro rivela- 
zione ( Von den gòttlichen Dingen und ihrer Offenbarung, 1811 ), l’ul- 
tima grande opera di Jacobi, il filosofo ritorna su questi punti, dan- 
done l’elaborazione più articolata e matura. Tuttavia, già il primo 
confronto con Spinoza, come poi con Kant e con Fichte, poteva es- 
sere inteso come lo sviluppo di una sorta di prova per assurdo, consi- 
stente nel mostrare i paradossi cui ultimamente conduce la metodica 
inibizione della posizione naturale. 

La singolarità dell’impostazione di Jacobi così delineata è eviden- 
te se la si confronta con l’indirizzo dominante nella filosofia a lui 
contemporanea. Egli attinge alle fonti classiche, specialmente a Pla- 
tone; significativa nella sua opera la presenza della Bibbia, special- 
mente dei libri sapienziali, per quanto l’elaborazione del tema reli- 
gioso, come la dottrina cristiana della creazione e dellTncarnazione, 
non sia vincolata in lui da una precisa appartenenza confessionale (se 
non si considera in tal senso la sua prima formazione pietista), ed il 
suo richiamo alla Scrittura assuma più spesso una funzione illustrati- 
va o retorica che autoritativa 13 . 

La sua figura, largamente riconosciuta dai suoi contemporanei tra 
le più umanamente nobili e ricche, avanza oltre il “secolo dei lumi”, 
pur conservando fino alla fine non poche tracce della sua formazione 
giovanile a Ginevra, alla scuola del sensismo e deH’illuminismo fran- 
cese. Del resto, le istanze speculative lentamente maturate nella sua 

13 Sotto tale aspetto, al di là delle istanze che li accomunano nella critica dell ’Auf- 
klàrung, è avvertibile una notevole differenza tra Jacobi e Hamann, come questi non 
mancò di rilevare. Cfr. M.M. Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio 
di Jacobi, Cedam, Padova 1970; E. Brito, Philosophie moderne et Christianisme , Uit- 
geverij Peeters, Leuven-Paris-Walpole, Ma 2010, pp. 371-294. Per la comune deri- 
vazione pietista e per diversi aspetti dottrinali (come il concetto di vita, intuizione, 
cuore, senso comune), si potrebbe osservare, invece, una certa consonanza con F.C. 
Oetinger. Cfr. Id., Inquisitio in sensum communem et rationem, Frommann, Stutt- 
gart-Bad Canstatt 1964 (con una notevole introduzione di H.G. Gadamer); R. 
Osculati, Vero cristianesimo: teologia e società moderna nel pietismo luterano, Fater- 
za, Roma-Bari 1990, pp. 380-401. 



20 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


opera offrirono molti suggerimenti a quegli stessi autori dell’ideali- 
smo tedesco che sono stati oggetto delle sue più aspre critiche, Fich- 
te e Schelling. Lo scambio con quest’ultimo ha impegnato l’ultimo 
soggiorno di Jacobi a Monaco di Baviera, dove il Nostro ha rivestito 
per un certo tempo il ruolo di presidente della Accademia delle 
scienze bavarese. Negli ultimi anni, il filosofo si è dedicato alla revi- 
sione dei propri scritti e alla pubblicazione di una edizione completa, 
che venne poi terminata da alcuni allievi (F. Kòppen, F. Roth) 14 . 

Nella recensione dei volumi degli Jacobis Werke da parte di Hegel 
e di Friedrich Schlegel, che furono a suo tempo tra i critici più seve- 
ri, si possono leggere alcune tra le pagine più meditate sul contributo 
del filosofo di Dusseldorf 15 . Assai significativamente, lo stesso Schel- 
ling nell’ultima fase cosiddetta “positiva” del suo pensiero colloca la 
filosofia esistenziale di Jacobi al di là della parabola dell’idealismo, 
rivendicandone in certo modo l’eredità 16 . Particolarmente in que- 
st’ultimo, tardivo apprezzamento si può avvertire l’attualità del pen- 
satore che ci accingiamo a presentare. 

Per concludere queste linee introduttive, conviene soffermarci su 
di una pagina nella quale Jacobi presenta se stesso, ed illustra, com’è 
egli ebbe poi a far notare con speciale enfasi, le motivazioni e il me- 
todo della propria filosofia 1 '. La lettura del testo ci permetterà di ri- 
levare, quindi, dal vivo alcuni temi fondamentali e di cogliere più 
precisamente la prospettiva nella quale si dispongono i tratti della 


14 Cfr. Friedrich Heinrich Jacobi’ s Werke , cit. Oltre a tagli e spostamenti notevoli, 
diversi termini e modalità di scrittura hanno subito una revisione in accordo all’evo- 
luzione della lingua tedesca tra gli estremi temporali della produzione del filosofo: 
cfr. ivi, voi. Ili, pp. [XXXVIII-XXXIX] . 

15 Cfr. G.W.F. Hegel, “Ueber ‘Friedrich Heinrich Jacobi’s Werke’. Dritter Band”, 
in Id., Sàmtliche Werke , ed. H. Glockner, Band 6, Frommann-Holzboog, Stuttgart 
1968, pp. 313-347 (ampio spazio è dedicato a Jacobi anche nell’ Enciclopedia delle 
scienze filosofiche e nelle Lezioni di storia della filosofia: cfr. Sàmtliche Werke , From- 
mann-Holzboog, Stuttgart-Bad Canstatt, Bd. Vili (1964), pp. 164-198; (Bd. Ili, 
1965) pp. 535-551. Del resto, il suo nome ricorre spesso, e ancor più spesso è impli- 
citamente presente, in tutte le opere maggiori di Hegel); F. Schlegel, “Uber F. H. 
Jacobi: von den gòttlichen Dingen und ihrer Offenbarung”; “Uber Jacobi”, in Kriti- 
sche Ausgabe , Schòning-Thomas, Paderbom-Mùnchen-Wien-Ziirich 1975, 1/8, pp. 
441-458,585-596. 

16 Cfr. F. W. J. Schelling, “Zur Geschichte der neuren Philosophie. Miinchener 
Vorlesungen”, in Schellings Werke , Beck, Miinchen 1959, Bd. V, pp. 235-262. 

17 Cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 335, 338. 



A.Profilo ed elementi 


21 


sua opera che abbiamo appena abbozzati. Il brano è tratto dal ro- 
manzo epistolare Corrispondenza di Attivili, primo scritto del Nostro, 
ma che ha conosciuto diverse redazioni, nell’ultima delle quali, nel 
1792, si trova il passo della prefazione che leggiamo. 

«Propongo (...) al lettore di immaginare il curatore [scil., l’autore] come un 
uomo, che fin dalla più tenera gioventù e dall’infanzia stessa ha avuto il desi- 
derio che la sua anima non si consumasse nel suo sangue, e che neppure un 
semplice respiro fuggisse via. Questo desiderio aveva così poco in lui, come 
proprio fondamento, il semplice comune, istinto vitale ( Lebenstrieb ), perché 
anzi era per lui odioso il solo semplice pensiero che la sua vita presente con- 
tinuasse all’infinito. Egli amava vivere in virtù di un altro amore, e ancora 
una volta, senza questo amore gli sembrava impossibile vivere, anche un solo 
giorno (...) Render conto di questo amore ( Diese Liebe zu rechtfertigen): a 
questo scopo tendevano tutte le sue creazioni e le sue mire; e così era anche 
il desiderio solo di ottenere maggior luce sul suo oggetto (...) Ciò che egli 
provava, cercava di imprimerlo in se stesso in modo che potesse rimanere. 
Tutte le sue più importanti convinzioni poggiavano sull'intuizione immedia- 
ta (unmittelbarer Anschauung) . Tutte le sue dimostrazioni e confutazioni, 
poggiavano (come gli sembrava) parte su fatti ( Tatsachen ) non abbastanza 
osservati, parte su fatti non abbastanza confutati» 18 . 

Jacobi indica dapprima l’immortalità come il fuoco prospettico 
della propria ricerca. Ne distingue in primo luogo il concetto, oppo- 
nendola ad una successione indefinita del tempo, in cui avvertì acu- 
tamente — altrove aggiunge, sin dall’infanzia 19 — l’assurdo nichilisti- 
co nel quale la vita umana sarebbe stata gettata; più spesso distingue 
ancora la viva nozione dell’eternità, originariamente impressa nell’a- 
nimo umano, dall’immobile atemporalità che contraddistingue la 
realtà del concetto. Tale distinzioni bastano per comprendere come, 
secondo il filosofo, la vita temporale, nel suo compiuto movimento, 
dovrebbe infine attingere, non già una negazione, ma una elevazione 
(. Erhebung ), ossia una forma di vita qualitativamente distinta e supe- 
riore. Per tale spinta verticale — se ne osservi l’accento platonico — , 
egli riconosce, quindi, ironicamente, la plausibilità delle attribuzioni 
“mistiche” che egli e la sua opera avevano ricevuto. Si noti ancora, 

18 Corrispondenza di Attivili, W 6/1, 88-89; trad. it., p. 53, con qualche modifica. 
Come accade per l’altro romanzo (Woldemar), alle varie redazioni del testo corri- 
sponde una diversa intitolazione, fino a quella indicata. 

15 Cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 216 e ss. 



22 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


nel passo citato, come la spinta verso l’eterno sia connotata in termi- 
ni prettamente finalistici, non già come espressione sublimata del- 
l’impulso naturale del vivente a perpetuare la propria esistenza, cioè 
come espressione dell’impulso di auto-conservazione {Lebenstrieb ) , 
ma come il termine di un amore personale, dominante e conclusivo. 
L’intuizione dell’oggetto di tale amore, per quanto oscura, è quanto 
davvero sostiene e giustifica la spinta verso la vita. Del resto, questo 
amore non può rivolgersi ad una realtà intelligibile ed eterna, ma 
estranea, cioè impersonale, come lo spinoziano amor Dei intellectua- 
lis. In esso si realizza pienamente e trova fondamento la struttura in- 
telligibile che regge la vita umana e la realtà del mondo in cui quella 
s’inserisce: la libertà, il vero, il bene e il bello. In uno degli ultimi 
scritti, in cui il filosofo si richiama espressamente al testo che stiamo 
commentando, egli precisa infatti: 

«[Io] volevo rendermi chiara coll’intelletto una cosa, cioè la mia devozione 
naturale (eingeborne Andacht) a un Dio incognito. Se quella comprensione 
di me stesso mi avesse portato a credere che ogni convinzione dell’esistenza 
di un Dio che si può pregare — la pietà non ne conosce un altro — è pazzia, 
io avrei imparato a mio danno, sarebbe rimasto insoddisfatto il mio bisogno, 
e cioè il bisogno di trovare Dio come il primo fondamento di tutta la scienza 
e di ritrovarlo dappertutto» 20 . 

Quanto al metodo, l’intuizione immediata ( unmittelbare An- 
schauung ) è indicata come la funzione che presiede alla costituzione 
dell’esperienza ontologica fondamentale che Jacobi riconosce alla 
base e sullo sfondo di tutta la conoscenza oggettiva, mediata e rifles- 

20 Ibidem, 339; trad. it., p. 16. La filosofia di Jacobi è dunque espressamente intesa 
come un tentativo di comprensione (Rechtfertingung) di questo fatto, “la devozione 
naturale a un Dio incognito”, colto sì come il più immediato e personale, ma altresì 
come il più universale e significativo. La riflessione speculativa otterrebbetutto il suo 
rigore non già dall’estrinseca conferma di un metodo, ma dalla sua capacità con cui 
è in grado di penetrare in quel fatto, connettendolo a tutti gli altri, e di portarlo ad 
un’espressione adeguata. Il testo che abbiamo appena citato prosegue infatti un po' 
più oltre: «dalla mia prima giovinezza procurai di trovare per i miei pensieri e per le 
mie sensazioni un’espressione, che li conservasse a me stesso fedelmente e vivamen- 
te il più che fosse possibile... Tuttavia l’umanità, e l’uomo singolo, coll’uso del loro 
intelletto e della loro ragione giungono sempre al luogo che costituisce il punto cen- 
trale della mia filosofia... (...) E allora, proprio per questo, il mio modo di scrivere 
avrebbe, nonostante le sue cause occasionali e i suoi caratteri assai particolari, un si- 
gnificato storico universale, e la mia filosofia avrebbe una verità storica universale» 
(ibidem, 352; trad. it., pp. 29-30). 



A.Profilo ed elementi 


23 


siva. Si noti come l’autore dichiari che il suo procedimento dimostra- 
tivo o confutatorio è prioritariamente stabilito sulla base del rileva- 
mento di fatti ( Tatsachen ). Ciò è già indicativo di una teoria della ra- 
zionalità che non garantisce preliminarmente l’universalità dei propri 
asserti nella forma a priori del sapere, rispetto ad un’interpretazione 
intellettiva dello stesso contenuto dell’esperienza. La prima realizza- 
zione del progetto filosofico qui dichiarato trovò la forma della rap- 
presentazione narrativa nell’ Allietili, a cui appartiene il brano che ab- 
biamo citato. Come egli stesso osserva e come è stato spesso notato, 
la stessa esperienza del romanzo dette a Jacobi l’indirizzo fondamen- 
tale della propria filosofia: «porre davanti agli occhi nel modo più 
scrupoloso, l’umanità come è, spiegabile o inspiegabile che sia» 21 . 

Riassumendo, si potrebbe caratterizzare l’impostazione filosofica 
di Jacobi come una forma di realismo, sul piano gnoseologico, come 
una forma di personalismo, sul piano antropologico, e come un tei- 
smo, sul piano metafisico. La peculiarità del pensiero di Jacobi in tali 
caratterizzazioni generali sembra consistere specialmente nei suo co- 
stante riferimento all’esistenza ( das wirkliche Daseyn) come un primo 
principio, cioè come fonte a cui il pensiero deve attingere per cono- 
scere il vero ( das Wahre). In tale radicamento nell’esistente consiste, 
infatti, per il filosofo, la verità del pensiero. 

2. Nuclei concettuali: ragione ed esistenza 

a) Ragione 

Dai tratti appena indicati, si potrebbero notare delle sensibili analo- 
gie tra la filosofia di Jacobi e la filosofia di Pascal 22 . In effetti, l’autore 
francese è ricordato ripetutamente dal Nostro. Jacobi ebbe uno spe- 
ciale contatto con la filosofia francese nel suo primo periodo di studi, 
a Ginevra (1759-1762) 23 . In generale, egli ebbe un’ampia e non co- 

21 «[So entstand in seiner Sede der Entwurf zu einem Werke, welches mit Dich- 
tung gleichsam nur umgeben,] Menschheit wie sie ist, erklarlich oder unerklarlich, 
auf das gewissenhafteste vor Augen stellen solite» ( Corrispondenza di Allwill , W 
6/1, 89; trad. it., p. 54). 

22 Cfr. N. Schumacher, Friedrich Heinrich Jacobi und Blaise Pascal: Einfluss, Wir- 
kung, Weiterfiihrung , Kònigshausen & Neumann, Wiirzburg 2003. 

23 Cfr. E. Pistilli, Tra dogmatismo e scetticismo: fonti e genesi della filosofia di F. H. 



24 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


mune conoscenza della filosofia europea contemporanea, francese e 
inglese, e in genere della storia della filosofia: ne danno conto sia le 
sue opere sia il catalogo della sua biblioteca 24 . Approssimativamente 
si può inscrivere la filosofia di Jacobi nel filone di quegli autori mo- 
derni che, come Pascal, Reid, Vico e Hamann, reagiscono alla domi- 
nante impostazione cartesiana rivendicando, rispetto all’univoco cri- 
terio della certezza scientifica, una più comprensiva modalità di co- 
noscenza della verità. In epigrafe al David Hume si trova, infatti, la 
seguente citazione di Pascal: «La natura confonde i pirroniani [scil. , 
gli scettici], e la ragione confonde i dogmatici. Abbiamo una incapa- 
cità di dimostrare, che nessun dogmatismo può vincere. Abbiamo 
un’idea della verità, che nessun pirronismo può vincere» 25 . Parafra- 
sando, c’è un accesso alla realtà, al “vero”, che la ragione non può ri- 
costruire ma che deve soltanto accogliere; questo vero, d’altra parte, 
è il fondamento della “verità” degli asserti che la ragione formula 
nello sviluppo discorsivo della “scienza”. Jacobi riprende, in tale 
prospettiva, il binomio pascaliano di esprit de géométrie ed esprit de 
finesse, corrispondente alla distinzione tra due modalità differenti 
del sapere, la modalità dimostrativa o analitica e la modalità intellet- 
tiva o sintetica. Quest’ultima corrisponde specialmente all’evidenza 
dei primi principi, che sono manifesti al senso comune. 

Volendo approfondire questi punti, è da notare come egli si rial- 
lacci anche ad alcune idee di fondo del grande francese: la prossimità 
(ìeW esprit de finesse al sentimento e alla natura. Quanto al primo 
punto — è questo uno delle presentazioni più comuni nella storio- 
grafia — , esso corrisponde alla sua appartenenza alla cosiddetta filo- 


Jacobi , «Archivio di filosofia» 75/3 (2007), numero monografico. Nell’approfondi- 
mento degli autori su cui Jacobi si è formato (con particolare riguardo alle indica- 
zioni autobiografiche contenute nel David Hume), l’autrice mostra quanto la ricerca 
di un metodo filosofico alternativo a quello “matematico" fosse largamente esteso 
nella filosofia del 700. 

24 Cfr. T. Dini, Il «filo storico» della verità. La storia della filosofia secondo F. H. Ja- 
cobi, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2005; K. Wiedemann - P. P. Schneider (a 
cura di), Die Bibliothek Friedrich Heinrich Jacobis. Ein Katalog, Frommann- 
Holzboog, Stuttgart-Bad Canstatt 1989. I curatori segnalano lo stato in cui si trova- 
no i singoli libri, e la quantità di note e sottolineature lasciate dal filosofo. 

25 B. Pascal, Pense'es, nrr. 434 e 395 (ed. Brunschvicg: Id., Pensées et Opuscules, 
Hachette, Paris 1917), trad. it. di G. Auletta, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 
(Mi) 1987, pp. 270,254. 



A.Profilo ed elementi 


25 


sofia del sentimento, genericamente ascrivibile alla sua estrazione re- 
ligiosa d’impronta pietista e alla temperie protoromantica dell’epoca. 
Dove, al di qua della discussione del soggettivismo cui potrebbe es- 
sere esposta una tale impostazione, il richiamo a Pascal già dovrebbe 
suggerire la particolare pregnanza e la rilevanza epistemica con la 
quale egli può intendere la funzione del sentimento. Il secondo pun- 
to, la natura, precisa il precedente, il sentimento, indicandone il fon- 
damento ontologico, ossia il radicamento della razionalità nella stes- 
sa natura dell’uomo. In tal senso, c’è un uso consapevole e libero 
della conoscenza, che si configura come una vera opera umana, e che 
si può dire, perciò, “artificiale”. C’è poi una forma di sapere che 
spontaneamente procede, come una sorta d’ “istinto”, dalla natura 
dell’uomo, un sapere anticipante, soggiacente al sapere liberamente 
“prodotto” dall’uomo. Jacobi insiste a tal proposito sull’idea di una 
“natura razionale” ( vernùnftige Natur), come funzione egemonica 
sempre attiva e latente, radicata nella concretezza, in opposizione ad 
una razionalità isolata ed artificiale, selettiva ed esclusivamente occu- 
pata con le proprie stesse creazioni, gli enti di ragione ( gedankendin - 
ge Vernunft). 

La concretezza del sentimento, cui qui si allude, attinge, del resto, 
alle dimensioni costitutive del reale, ai dati originari della coscienza. 
Per il suo carattere immediato, per la sua funzione supremamente 
normativa, per la natura semplice e per la portata “trascendentale” 
dei suoi oggetti, Jacobi identifica il pascaliano esprit de finesse, altri- 
menti anche detto il “cuore” ( coeur , Herz), col termine generico di 
“fede” ( Glaube) 2b Di fatto, egli appare abbastanza consapevole del- 


26 Si confronti ad esempio il passo seguente delle Pensées: «Conosciamo la verità 
non solo con la ragione ma anche col cuore; ed è in questo secondo modo che cono- 
sciamo i primi principi, e inutilmente il ragionamento, che non vi ha parte, s’indu- 
stria di combatterli (...) Sappiamo di non sognare; per questo siamo impotenti a dar- 
ne le prove con la ragione, questa impotenza ci porta a concludere per la debolezza 
della nostra ragione, ma non per l’incertezza di tutte le nostre conoscenze, come 
pretenderebbero loro [gli scettici]. Infatti la conoscenza dei primi principi, come 
l’esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri, è più salda di qua- 
lunque altra che ci viene dai nostri ragionamenti. E proprio su tali conoscenze del 
cuore e dell’istinto ( connaissances du coeur et de l’instinct) la ragione deve appoggiar- 
si e su di esse fondare il suo ragionamento (...) I principi si sentono, le proposizioni 
si deducono; e tutto con certezza, sebbene questa si raggiunga per vie diverse» (nr. 
282; trad. cit., p. 218). 



26 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


l’ampia portata e della continuità storica del problema qui sotteso 
sulla natura e sulle forme della razionalità, ovvero sul peculiare statu- 
to della funzione noetica deputata all’avvertenza dei primi principi 2 '. 
In particolare, il termine “fede” ha in Jacobi primariamente una con- 
notazione filosofica, anche se può assimilare più o meno, a seconda 
del contesto, alcuni aspetti della sua valenza religiosa 28 . Il rapporto 
tra queste connotazioni e, in generale, il rapporto di filosofia e reli- 
gione, appare tuttora come uno dei punti di maggiore difficoltà nel- 
l’interpretazione del pensiero jacobiano; specialmente per la coesi- 
stenza di un atteggiamento simpatetico verso il cristianesimo insieme 
ad un atteggiamento decisamente critico nei confronti della religione 
positiva in generale (ma in particolar modo verso il cattolicesimo), 
sia sotto il profilo del dogma che dell’istituzione ecclesiastica 28 . La 
religione positiva avrebbe, infatti, per Jacobi, una funzione prope- 
deutica o figurativa del vero ideale, della cui autenticità darebbero 
garanzia le corrispondenti disposizioni morali — in ciò avvicinandosi 

27 Cfr. W. Hamilton, On thè Philosophy of Common Seme, in The Works of 
Thomas Reid, voi II, MacLachlan and Stewart, Edinburgh 1863, pp. 742-803 (spec. 
su Jacobi: pp. 793-796); A. Livi, II senso comune tra razionalismo e scetticismo: Vico, 
Reid, Jacobi, Moore, Massimo, Milano 1992. Per un’ampia contestualizzazione stor- 
ica: cfr. J.E. Kuhn, Jacobi und die Rhilosophie seiner Zeit. Ein Versuch, das uois- 
senschaftliche Eundament der Rhilosophie h istoriselo zu erórtern, Kupfenberg, Mainz 
1834. Si può notare come la polarità di un sapere immediato e del sapere dimostrati- 
vo sia stata esaminata dapprima da Platone col binomio di nous (o noesis) e dianoia-, 
Aristotele ne trattò al riguardo della conoscenza dei primi principi; peraltro impie- 
gando anch’egli seppur incidentalmente il termine “fede” ( pistis ): cfr. Arist., Top., 
126 b 15-30; De An., 428 a 22-24; D. Composta, L‘ esperienza metafisica dell’essere in 
Aristotele, Las, Roma 1997, p. 99 e ss. La problematica si è poi sviluppata nella filo- 
sofia medievale e moderna nei termini del binomio di intellectus e ratio (san Tom- 
maso), Verstand e Vernunft (Kant, Hegel), per quanto diversamente intesi e pur nel- 
l’oscillazione dell’uso di questi termini. Cfr. J. Cruz Cruz, Intelecto y razón: las coor- 
denadas del pensamento clàsico , Eunsa, Pamplona 1998. Particolarmente, Jacobi 
sembra avvicinarsi alla dottrina aristotelica del nous attraverso l’epistemologia mora- 
le sviluppata nel sesto libro nel l’Etica Nicomachea: cfr. Woldemar, W 7/1, 443 e ss. 

28 Cfr. M. M. Cottier, Eoi et surnaturel chez Jacobi, «Revue Thomiste» 62 (1954), 
62, pp. 337-373. Per la determinazione del concetto jacobiano di “fede” nell’ambito 
del protestantesimo e del pensiero tedesco moderno: cfr. C. Fabro, Dall’essere all’e- 
sistente, Marietti, Genova-Milano 2004 2 ', cap. 2 (“La spiritualità protestante e il pen- 
siero moderno, ivi, pp. 65-120); vd. specialmente, ivi, pp. 90-95 (“Fede naturale e 
fede religiosa in Jacobi”). 

2 ” Cfr. K. Hammacher, Ein bemerkswerter Einflufi franzòsischen Denkens: Friedrich 
Heinrich Jacobis (1743-1819) Auseinandersetzung mit Voltaire und Rousseau, «Revue 
Internationale de Philosophie» 32 (1978), pp. 327-347 . 



A.Profilo ed elementi 


27 


assai prossimamente a Lessing e a Kant’ 0 . Tale difficoltà non è sfug- 
gita, tra gli altri, a Friedrich Schlegel, come si è osservato, uno dei 
critici più attenti della filosofia di Jacobi, particolarmente segnalando 
l’aporia insita nella concezione di un cristianesimo ideale, per l’acci- 
dentalità con cui è così concepito l’elemento storico’ 1 . 

Volendo esplicitare adesso questa appartenenza dell’insieme di 
problemi concernenti la concezione jacobiana del Glaube al proble- 
ma classico sullo statuto e sulle forme della razionalità, potremmo 
schematizzarne i termini nel modo seguente: 


SAPERE IMMEDIATO 

SAPERE MEDIATO 

Intellezione dei primi principi 

Dimostrazione, sillogismo 

Visione di sintesi 

Analisi 

Attingimento dell’esistente 

Determinazione di forme e rapporti 

Esperienza, concretezza 

Rappresentazione, astrazione 

“Nous”, “intellectus” 

“Dianoia”, “ratio” 

“Esprit de finesse”, “coeur” 

“Esprit de géométrie” 

Senso comune 

Riflessione critica 

Ragione (Vernunft), cuore (Herz) 

Intelletto ( Verstand ) 

Fede (Glaube) 

Sapere, scienza (Wissen, Wissenschaft) 


Nota: i termini in corsivo corrispondono alla terminologia propria di Jacobi. 


In uno studio della seconda metà dell’ottocento che rappresenta 
una tra le prime e tra le più significative ricostruzioni critiche dell’o- 
pera di Jacobi, Eberhard Zirngiebl 32 riconduce la polarità preceden- 
temente illustrata di “fede” e “scienza” alla stessa esperienza biogra- 
fica del filosofo. Durante il soggiorno a Ginevra la formazione reli- 
giosa e il temperamento “visionario” di Jacobi si scontrano con la ra- 
dicalità della cultura francese ormai risoltasi per il positivismo scien- 

30 Questi punti si possono riscontrare nella Lettera a Fichte e nella prima sezione 
de Sulle cose divine, con particolare riferimento all’interpretazione antropologico- 
morale della persona di Cristo. Nell’ Enciclopedia (§§ 63, 73), Hegel rimprovera l’esi- 
guità della comprensione teologica che ne risulta, del resto trasferendo, da parte 
sua, la funzione figurativa della religione dalla morale alla stessa dogmatica. 

31 Cfr. F. Schlegel, Uber F.H. Jacobi: von den gòttlichen Fdingen und ihrer Offenba- 
rung, cit. Sulla speciale rilevanza di questo problema in relazione alle istanze “esis- 
tenziali” (storiche e personalistiche) del pensiero di Jacobi: cfr. M. Ivaldo, Filosofia 
delle cose divine. Saggio su Jacobi, Morcelliana, Brescia 1996. 

32 Cfr. E. Zirngiebl, Friedrich Fleinrich Jacobi’s Leben, Dichten und Denken, Brau- 
miiller, Wien 1867. 




28 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


tifico, per il materialismo e l’ateismo (Helvetius, La Mettrie, 
Diderot). La dottrina di Spinoza, il primo libro propriamente filosofi- 
co di Jacobi, fu allora come la prima solidificazione di questa espe- 
rienza. Il filosofo avrebbe irrigidito la “fede”, come organo della co- 
noscenza metafisica, opponendola alla “ragione”, come organo della 
conoscenza scientifica, associando indissolubilmente la scienza all’a- 
teismo. Jacobi avrebbe rappresentato in Spinoza la cristallizzazione 
più pura della scienza, esibendone l’esito ateistico e deterministico. 

La presentazione di Zirngiebl si presta facilmente all’osservazione 
della relativa arbitrarietà di ogni tentativo di spiegare l’opera di un 
autore con la sua biografia (s’intende, in maniera esclusiva). Va poi 
richiamata la straordinaria densità concettuale di quel testo (La dot- 
trina di Spinoza), seppure anch’esso, come la gran parte della produ- 
zione del filosofo, segua da vicino la traccia biografica della sua gene- 
si. A ciò basterebbe, del resto, il suo influsso decisivo nella formula- 
zione di quello stesso problema di fondo, ad un tempo teorico e stili- 
stico, che è comune a tutta l’epoca: il rapporto di vita e sapere. Ri- 
guardando il complesso dell’opera di Jacobi, possiamo, nondimeno, 
rilevare l’importanza della problematica che lo studioso tedesco ha 
sollevato sul definitivo equilibrio di Jacobi nella impostazione del 
rapporto di “fede” e “scienza”, di “intelletto” e “ragione”, ossia del 
rapporto tra i due versanti dell’unica razionalità. 

b) Esistenza 

Continuando a delineare i tratti caratteristici del pensiero di Jacobi, 
si può nuovamente segnalare l’esistenza come uno dei suoi temi di 
fondo. L’esistenza (Daseyn) costituisce, per il filosofo tedesco, una 
sorta di primo principio, sia sotto il profilo logico sia sotto il profilo 
ontologico. In quanto tale, poiché principio immediato ed originario, 
l’esistenza non è deducibile. Il pensiero discorsivo e riflessivo la 
deve, perciò, “assumere” come un dato normativo. Più precisamen- 
te, nell’opera di Jacobi il concetto di “esistenza” riceve una prima ac- 
cezione modale e gnoseologica: significa, così, l’effettività di uno sta- 
to di cose, che si riflette nella verità del giudizio che lo afferma. In un 
secondo significato, “esistenza” ha una connotazione piuttosto onto- 
logica ed antropologica: significa la modalità d’essere propria della 



A.Profilo ed elementi 


29 


soggettività finita, cioè della persona umana". In tal senso, “esisten- 
za” significa genericamente l’essere finito, connotandone la relazione 
di origine, la temporalità, il carattere operativo e la finalità; il che, in 
effetti, si riscontra specialmente nella realtà della persona umana. 

Circa la prima connotazione, non è un caso che Jacobi nel David 
Hume racconti di essersi soffermato su questo punto durante il suo 
soggiorno ginevrino, mentre cercava di render conto della sua istinti- 
va resistenza nei confronti della cosiddetta “prova ontologica” dell’e- 
sistenza di Dio 34 . L’impostazione logicista della prova si scontrava, 
com’egli qui dichiara, con il suo nativo attaccamento all’intuizione; 
non a caso, a quanto pare, non riusciva bene negli studi matematici. 
Comunque si presenti la critica a cui il filosofo sottopone l’argomen- 
to, o come si debba poi valutare il suo atteggiamento nei confronti 
del “lato formale” del sapere (specialmente, sulla portata intenziona- 
le della matematica o della logica), l’idea di fondo qui abbozzata, che 
maturerà in una sempre più profonda elaborazione, è questa: l’esi- 
stenza trascende il concetto. C’è un intervallo ontologico tra l’essere 
del pensiero, cui appartiene il concetto, e l’essere reale, cui appartie- 
ne la realtà rappresentata nello stesso concetto, per quanto adeguata 
possa essere tale rappresentazione sotto il profilo oggettivo o conte- 
nutistico. Circa la seconda connotazione “antropologica” della nozio- 
ne di esistenza, si può notare come essa aderisca all’istanza formulata 
nel passo della prefazione alla Corrispondenza di Attivili, che abbia- 
mo citato all’inizio (cfr. supra, § 1): come garantire il movimento e la 
finale inserzione del finito nell’ infinito, senza che ciò comporti il suo 
annichilimento ? 

Il problema del nichilismo, cioè la negazione dell’esistenza che Ja- 
cobi riconosce al fondo della scienza, si pone precisamente a questo 
duplice livello. La pretesa di autonomia della scienza, ossia del pen- 
siero dimostrativo, comporta la chiusura del pensiero nella dimensio- 
ne del concetto e nelle sue relazioni immanenti. Con ciò è già reciso 
il vincolo del pensiero nei confronti dell’essere. Questo è il versante 
gnoseologico del nichilismo affrontato dal filosofo nella Lettera a Fi- 
chte (1799). D’altra parte, l’odiosità dell’idea di una durata infinita 

33 Cfr. O.F. Bollnow, Die Lebensphilosophie Jacobis, Kohlhammer, Stuttgart 1966 
(1 ed. 1933), p. 74 in nota. 

34 Cfr. David Hume , W 2/1, 43 e ss. 



30 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


(nello stesso brano autobiografico che abbiamo letto) consisteva pre- 
cisamente in questo: il presentarsi come una forma di infinitizzazione 
del finito che, di necessità, comporta la sua stessa dissoluzione, ossia 
la negazione speculativa di ogni individualità, ordine e finalità uni- 
versalmente manifeste nell’esperienza. La struttura temporale dell’e- 
sistente finito è, infatti, dissolta se è prolungata indefinitivamente, 
senza un’origine e una destinazione ad essa adeguata. Una realtà in- 
definita, e perciò amorfa, non può corrispondere alle naturali aspira- 
zioni dell’uomo al bene e alla pretesa inestirpabile di una distinzione 
assoluta del bene e del male. Ma una tale concezione dell’assoluto è 
precisamente quella che, come Jacobi dimostra nella sua prima opera 
filosofica, Spinoza aveva sostenuto, e che alla fine, ne Sulle cose divi- 
ne, egli ritrova analogamente in Schelling. Questo è il versante del ni- 
chilismo nella sua portata metafisica, ossia nella positiva determina- 
zione della struttura dell’essere che esso afferma’ 3 . 


3. L’esistenza come principio fondamentale 

E necessario approfondire ora la nozione di esistenza, di cui si è anti- 
cipata l’importanza ed il duplice significato. Si è detto ch’essa svolge 
nell’opera di Jacobi una funzione fondamentale: la funzione di un 
principio nel quale il pensiero poggia e deve necessariamente pog- 
giarsi, per avere garanzia della propria verità. Di qui, si potrebbe se- 
guire in maniera unitaria lo sviluppo della filosofia del Nostro. Con- 
viene cominciare dall’articolazione dei due significati di esistenza che 


35 Cruz Cruz riconosce la visione infantile di Jacobi di un’infinità temporale, cui 
abbiamo accennato (cfr. supra, p. 21), come una prefigurazione della dottrina dell’e- 
terno ritorno di Nietzsche. Vale la pena ora riportare il passo: «In sugli otto o nove 
anni la mia profondità puerile di pensiero mi portava a certe singolari visioni (non 
so come chiamarle diversamente) che mi assediano tuttora (...) Quella cosa singolare 
era una rappresentazione di una durata infinita, affatto indipendente da ogni con- 
cetto religioso, che, all’età che ho detto, mentre riflettevo sull’eternità a parte ante , 
mi veniva improvvisamente con tale chiarezza e mi commuoveva con tale violenza, 
che io sussultavo cacciando un altro grido e cadevo in una specie di deliquio (...) Il 
pensiero dell’annientamento ( Der Gedanke der Vernichtigung ), che mi era sempre 
stato spaventevole, diveniva tale ancora di più; e parimenti io non potevo sopportare 
il pensiero di una durata eterna» (La dottrina di Spinoza, W 1/1, 13, 216; trad. it., 
pp. 64-65, 191). Cfr. J. Cruz Cruz, Razones del corazon. Jacobi entre el romanticismo 
y el clasicismo, Eunsa, Pamplona 1993, pp. 260-262. 



A.Profilo ed elementi 


31 


abbiamo già distinto, per passare alla problematica circa la rispettiva 
modalità di conoscenza (cfr. infra, § 4). 

Si può notare che lo specifico termine di “realtà” per lo più utiliz- 
zato da Jacobi, Wirklichkeit, contiene già nella sua radice verbale, 
Wirken (“agire”), una connotazione operativa. L’etimo tedesco rac- 
chiude in unità i due significati di esistenza già indicati. In tal senso 
“esistenza” si può tradurre in italiano con “effettività”, ed anche in 
italiano si può osservare tale coincidenza. L’indicazione è preziosa: il 
problema dell’essere e il problema della causalità risultano, così, 
strettamente congiunti. La causalità comporta, infatti, il venir all’es- 
sere o il divenire di qualcosa nel tempo. A tale proposito, nel delimi- 
tare la portata ontologica del concetto, egli insiste sulla relativa irrap- 
presentabilità del tempo e del movimento: un evento rappresentato, 
propriamente, non accade mai; il concetto del divenire non è a sua 
volta in divenire. Precisamente in questo punto, nella riduzione logi- 
ca dell’esistenza alla possibilità, egli individua una delle ragioni del- 
l’esito deterministico del razionalismo. 

Con tali indicazioni è già prefigurato lo sviluppo completo della 
riflessione di Jacobi, quando tali questioni, grazie anche ad un pro- 
fondo confronto con Leibniz, giungono alla loro più compiuta espli- 
citazione: la finale identificazione dell’esistenza con la vita e l’identi- 
ficazione dell’esistente con l’individuo vivente’ 6 . 

a) Esistenza e persona 

L’esistenza si predica, dunque, secondo Jacobi, in senso proprio ed 
esemplare, di un soggetto individuo che è capace di agire nel tempo. 

36 Cfr. Lettera a Fichte , W 2/1, 234-235; Sull’impresa del criticismo , W 2/1, 316- 
319. Potremmo osservare, l’esistenza di qualcosa si riconosce in base agli effetti 
ch’esso manifesta. Nel Sofista Platone associa l’idea dell’essere alla capacità di intrat- 
tenere rapporti attivi e passivi, un acquisto che si riscontra poi nella più avanzata se- 
mantica aristotelica dell’essere, che culmina nella nozione di atto (come energheia ) 
( Metaph , IX). Frege ( Der Gedanke, 1918) identifica la Wirklichkeit, intesa come la 
nota caratteristica dell’essere reale di contro all'essere del concetto, con la suscettibi- 
lità ad entrare in rapporti causali. Il non essere o il carattere ideale dell’ente rappre- 
sentato in un concetto è invece associato alla sua estraneazione dai rapporti causali 
ch’esso intrattiene con il mondo. Cfr. R. Spaemann, Uber die Bedeutung der Worte 
“ist”, “existiert” und “es gibt”, in «Philosophisches Jahrbuch» 117/1 (1010), pp. 5-19. 
Sulla nozione di esistenza nell’ontologia razionalista: cfr. M. Campo, Cristiano Wolff 
e il razionalismo precritico (1939), Olms, Hildesheim-New York 1980, p. 162 e ss. 



32 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


L’esistenza in generale è primariamente colta nel nostro stesso esse- 
re, nel nostro agire e nelle relazioni che intratteniamo col mondo e 
con gli altri. Per questa immediatezza ed esemplarità, l’essere perso- 
nale viene infine a fondare tutti i significati dell’esistenza. La persona 
appare come il ricettacolo e il paradigma delle supreme determina- 
zioni dell’essere (l’individualità e l’attività) e come primaria referenza 
all’essere (“io tocco la realtà nelle relazioni attive e passive che intrat- 
tengo con il mondo”). Non già perché la persona possa cogliere il 
proprio essere in maniera indipendente o prioritaria rispetto al mon- 
do, ma perché la realtà del mondo è contemporanea ed intrinseca- 
mente connessa, sotto il profilo conoscitivo, alla realtà della persona. 
L’autocoscienza, in tal senso ontologicamente pregnante, appare 
come la funzione che presiede alla primigenia scoperta dell’esistenza. 

La nozione di persona ha dunque, secondo Jacobi, portata tra- 
scendentale, non meramente empirica. La persona non è, cioè, una 
determinazione tra le altre dell’essere o un oggetto tra altri che si 
possa arbitrariamente considerare, ma è un’istanza propriamente 
fondativa, ossia un principio universale e necessario della conoscenza 
(“trascendentale” in senso logico o noetico). Essa, inoltre rappresen- 
ta la forma più eccellente di essere (“trascendentale” in senso ontolo- 
gico). Perciò secondo Jacobi la personalità si può predicare di Dio, 
diversamente dalla gran parte degli autori con i quali egli si confron- 
ta: Spinoza, Lessing, Fichte, Schelling, per i quali la personalità, in 
quanto irrimediabilmente segnata dalla finitezza, è come tale incom- 
patibile con la realtà dell’assoluto. 

b) Esistenza, ragione e panteismo 

Le questioni accennate emergono con particolare chiarezza ne La 
dottrina di Spinoza, dove di fatto trovano la loro prima formulazione 
teoretica. Vale la pena delineare più precisamente il contesto storico 
dove esse sorgono 3 '. Come abbiamo ricordato, l’opera riproduce nel- 
la prima parte un carteggio di Jacobi con Mendelssohn nel quale il 

3/ Per una fine ricostruzione dell’opera nella sua genesi e nel suo significato epoca- 
le: cfr. A. Pupi, Alle soglie dell’età romantica , Vita e Pensiero, Milano 1962; per una 
ampia contestualizzazione: cfr. D. Henrich, Betiveen Kant and Hegel. Lectures on 
German Idealism , Harward University Press, Cambridge (Ma)-London 2003, pp. 
85-112. 



A.Profilo ed elementi 


33 


primo dà conto di una conversazione intrattenuta con Lessing, du- 
rante la quale il celebre letterato avrebbe dichiarato ad un certo pun- 
to: «i concetti ortodossi della divinità non sono più per me; io non li 
posso gustare. Ev kcu navl[En kai pan, uno e tutto.] Non conosco 
nient’altro». Incalzato da Jacobi che gli domandava: «Allora Lei con- 
verrebbe con Spinoza?», egli avrebbe poi precisato: «Se mi devo 
chiamare secondo qualcuno, non so nessun altro» 38 . La rivelazione 
era dirompente; non tanto per il suo particolare contenuto, quanto 
per la valenza epocale che le parole di Lessing venivano ad assumere. 
La successiva risposta di Mendelssohn tradisce una certa incertezza 
nel percepire i contorni e le intenzioni del messaggio di Jacobi. Di 
fatto, si trattava di una sconfessione dell’equilibrio di compromesso 
raggiunto dall’illuminismo tedesco, di cui Lessing era il maggiore 
esponente, specialmente nel versante teologico. In sintesi, la provo- 
cazione era questa: il razionalismo doveva essere svolto conseguente- 
mente, come Spinoza, senza temere di sostenerne le inevitabili conse- 
guenze: cioè, il ripudio dell’intera visione razionale del mondo con- 
segnata dal cristianesimo. Il razionalismo non doveva più presentarsi 
come l’anima razionale della fede, cioè come un cristianesimo per i 
dotti, ma come una visione del mondo affatto alternativa, sin dai suoi 
fondamenti metafisici, come la personalità di Dio e la libertà umana, 
a cui si dovevano coerentemente opporre, senza infingimenti, il pan- 
teismo e il determinismo. 

Si badi che all’epoca l’opera di Spinoza circolava ancora in ma- 
niera pressoché clandestina 39 . Non c’era ancora uno studio veramen- 
te sistematico e completo della sua filosofia, se si esclude uno studio 
parziale dell’Etica da parte di Christian Wolff. La tesi di Jacobi là 
espressa con vigore dialettico e confermata da una conoscenza diret- 
ta e inaspettatamente profonda del filosofo olandese poteva suonare 
così: il razionalismo è compiuto in Spinoza; se ne si accetta il princi- 
pio, la determinazione della possibilità e della struttura dell’esistenza 
in un sistema della ragione, se ne devono accettare anche le spiacevo- 
li conclusioni: l’ateismo (la negazione di un Dio personale) e il fatali- 
smo (la negazione della libertà personale). Il principio en kai pan do- 

38 La dottrina di Spinoza, W 1/1, 16-17; trad. it., p. 67. 

35 Cfr. N. Merker, L’illuminismo in Germania: l’età di Lessing, Editori Riuniti, 
Roma 1989. 



34 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


veva esprimere la pretesa onnicomprensiva del razionalismo, la quale 
aveva la sua necessaria proiezione metafisica nel panteismo. Questa 
era, nell’intenzione di Jacobi, una critica che coinvolgeva la radice 
speculativa del progetto illuminista, in quanto segnato da una tale 
impostazione 40 . Per nemesi storica, l’intervento del filosofo di Dus- 
seldorf contribuì a far uscire Spinoza dalla clandestinità, e, suo mal- 
grado, ad avviarne l’estrema metamorfosi nell’idealismo trascenden- 
tale di Fichte e di Schelling, e infine di Hegel. 

Ma qual era, dunque, la soluzione alternativa che l’autore de La 
dottrina di Spinoza poteva proporre? La risposta di Jacobi consisteva 
nell’invito al famoso “salto mortale” tramite la “fede”, cioè, come si 
è già notato, l’invito ad un salto fuori dal circolo delle stesse premes- 
se ontologiche ed epistemologiche a partire dalle quali il razionali- 
smo avrebbe voluto abbracciare l’esistente. Questa proposta alterna- 
tiva, frequentemente fraintesa in senso fideistico o irrazionalistico, 
consisteva in realtà nell’appello del filosofo al proprio principio e al 
proprio metodo: rispettivamente, riconoscere la natura originaria ed 
individuale dell’esistenza, mostrando per contrasto l’assurdità meta- 
fisica ed “esistenziale” della tesi spinoziana. Il reale esistente è, infat- 
ti, sempre e soltanto l’individuo. Il pan, ossia la collezione di tutte le 
cose, ovvero anche l’“idea” dell’essere, non può essere un individuo, 
en, a meno di dissolvere l’individualità di quei termini la cui totalità 
s’intenderebbe, invece, rappresentare. Si badi, l’individualità è colta, 
da Jacobi, nella sua portata propriamente ontologica o qualitativa. 
La pretesa di dedurre l’individuo dalla totalità, ossia da un concetto 
universale dell’essere, ancorché impossibile per l’irriducibile diffe- 
renza che sussiste tra il concetto dell’essere e l’essere stesso, tra l’a- 

40 In uno scritto del 1792, ossia nel pieno sviluppo della rivoluzione francese, il fi- 
losofo ha cura di distinguere rilluminismo (e la stessa rivoluzione francese) come 
programma di riforma politica ed economica (in senso liberista e fisiocratico) e 
come rifiuto dell’assolutismo, dall’illuminismo come utopia, ossia come realizzazio- 
ne storica del razionalismo: cfr. Corrispondenza di Attivili, W 6/1, 227 in nota; 
David Duine , W 2/1, 93 e ss. Lo stesso Jacobi rivestì incarichi politici e propose, tra 
l’altro, una riforma della legislazione doganale (dei ducati di Jiilich e Berg). Sulla 
concezione giuridica e politico-economica di Jacobi: cfr. M. Ivaldo, Introduzione a 
Jacobi , cit., pp. 17-26; K. Hammacher, Die Wirtschaftspolitik des Philosophen Frie- 
drich Heinrich Jacobi, Rodopi, Amsterdam 1993. Sull’intreccio della filosofia di Jaco- 
bi con la sua concezione politica in relazione al concetto di libertà: cfr. K. Homann, 
F. H. Jacobis Philosophie der Freiheit, Alber, Freiburg-Mùnchen 1973. 



A.Profilo ed elementi 


35 


stratto e il concreto, disconosce l’intrinseca novità che ogni indivi- 
duo, ed ancor più ogni individuo vivente e personale, come tale rap- 
presenta. La via dell’astrazione rappresenta, dunque, una perdita 
nella comprensione dell’essere, poiché, conforme alla nota regola lo- 
gica, quanto essa acquista sul piano quantitativo (o estensionale) al- 
trettanto perde sul piano qualitativo (o intensionale). L’astrazione fi- 
nisce, perciò, per dimenticare, anzi per annullare, l’esistente, che, 
pure, è suo necessario presupposto e referente. Ancora, l’idea di to- 
talità dovrebbe anticipare e contenere in atto l’intero sviluppo tem- 
porale dell’esistente: il che mistifica la reale portata dell’agire, della 
libertà, e la stessa consistenza del tempo. Del resto, la realtà del tem- 
po e della libertà (due termini per Jacobi, come poi per Kierkegaard, 
strettamente congiunti), se gode di peculiare rilevanza ontologica e 
se non può essere riprodotta nella totalità immobile del concetto; se, 
dunque, può essere compresa soltanto nella stessa prospettiva “em- 
pirica” dell’esistente finito, è così nuovamente confermata la rilevan- 
za trascendentale di quest’ultima. Questa critica logico-metafisica 
della nozione di totalità abbozzata ne La dottrina di Spinoza costitui- 
rà l’intelaiatura teorica dominante in gran parte della filosofia di Ja- 
cobi. 

4. Il realismo 

Riprendendo la questione circa l’esistenza sotto il profilo gnoseologi- 
co, si potrebbe chiedere: se l’esistenza è un principio, ed è come tale 
formalmente indimostrabile, come dunque può essere conosciuta? 
Poiché, secondo Jacobi, l’esistenza è indimostrabile in base alle sue 
stesse caratteristiche ontologiche — si è accennato alla tesi circa l’ir- 
riducibile trascendenza dell’esistenza rispetto al concetto, la quale si 
oppone alla pretesa razionalistica di una sua dimostrazione, poiché 
questa dovrebbe procedere da un’istanza posta al di là dell’esistenza: 
dal pensiero — , ne risulta, forse, che l’esistenza è un’istanza irrazio- 
nale ? 41 È razionalmente legittimo ammettere qualcosa come vero, 


41 Così, ad esempio, sembra interpretare Leo Strauss in Das Erkenntnisproblem in 
der philosophischen Lehre Fr. H. Jacobis , Dissertazione sostenuta nel 1921 (dir. E. 
Cassirer) pubblicata in francese in «Revue de Métaphysique et de Morale» 99/3 
( 1994), pp. 291-311; ibidem , nr. 4, pp. 505-532. 



36 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


che pur si dichiara non essere mai comprensibile? Su questo versante 
emerge l’accennata questione sulla “fede”, che Jacobi ne La dottrina 
di Spinoza identifica come la funzione preposta al riconoscimento del 
vero. Più tardi, egli reidentificherà la “fede” con la “ragione” ( Ver - 
nunft ), introducendo, così, una delle variazioni lessicali più impor- 
tanti della sua opera che è anche una questione interpretativa tra le 
più controverse. 

a) Definizione del realismo 

Si è già notato come il tratto peculiare della filosofia di Jacobi sotto il 
profilo gnoseologico sia il realismo. Egli stesso ha detto di sé: «io 
sono realista quanto mai altri lo sono stati». E Fichte in una lettera 
aveva riconosciuto che i loro punti di vista, se mai in qualcosa pote- 
vano trovarsi o venire ad un accordo, erano senza dubbio agl’antipo- 
di per quanto riguarda le rispettive posizioni di partenza; con le sue 
parole: «lei è notoriamente un realista, ed io sono idealista trascen- 
dentale, più duro di quanto Kant non lo fosse» 42 . 

Ora, per realismo s’intende comunemente la tesi naturalmente 
implicita nella conoscenza ordinaria per cui le cose appaiono come 
sono, cioè appaiono, come si dice, nel loro essere in sé, indipenden- 
temente da quanto il soggetto possa aggiungervi. Questa tesi rimane 
largamente implicita nel corso della filosofia antica e medievale. Solo 
con Cartesio la tesi del realismo è messa radicalmente in questione; 
non per respingerla, ma per fornire ad essa un’assoluta garanzia di 
certezza 4 ’. Il moderno problema critico, cioè l’istanza di una prelimi- 
nare assicurazione della verità del pensiero, come premessa ad ogni 
discorso sull’essere, viene, infatti, normalmente fatto risalire a Carte- 
sio. La posizione cartesiana è stata da subito ampiamente discussa e 
modificata. Nondimeno, è suo il modello epistemologico che caratte- 
rizza l’indirizzo dominante della filosofia moderna. Il filosofo tede- 
sco era consapevole della singolarità della propria posizione. In un 
passo della seconda prefazione a La dottrina di Spinoza , egli dice ad 
un certo punto: 


42 Fichte, GA III/2, 391. 

43 Cfr. E. Gilson, Le réalisme methodique, Téqui, Paris 1935. 



A.Profilo ed elementi 


37 


«La decisa differenza del mio modo di vedere da quello dei filosofi miei con- 
temporanei consiste in questo: che io non sono affatto cartesiano. Come gli 
orientali nelle loro coniugazioni, io comincio dalla terza persona e non dalla 
prima, e credo che non si possa affatto posporre il sum al cogito» 44 . 

Il sum, cioè il trovarsi dell’io come esistente nel rapporto ad 
un’alterità, la terza persona, è antecedente alla percezione isolata del- 
lo stesso io, nell’atto di pensiero. Frequentemente altrove, Jacobi ri- 
pete: “senza il tu, non c’è l’io”. Questo motto, che è stato poi assunto 
dal personalismo del ‘900, ad esempio da Martin Buber, come for- 
mula esprimente il carattere costitutivo dell’intersoggettività (ma 
spesso ripreso anche in un senso generale, ad esempio da Wilhelm 
Dilthey), è impiegato da Jacobi come espressione sintetica del suo 
realismo. Il “tu” vale in tal caso come l’indice, per noi più espressivo 
e significativo, dell’alterità in generale, della realtà del mondo e degli 
altri; e dunque quella formula, rispondendo all’assioma cartesiano, 
dichiara la naturale apertura e coesistenza dell’io quale principio del 
pensiero, e dunque come condizione del cogito. 

Allargando il campo, si potrebbe osservare come l’inizio del pen- 
siero venga collocato da Jacobi nella relazione reale, operativa, che 
l’io intrattiene col mondo. Questo è il contenuto implicito del sum\ 
ciò che corrisponde alle condizioni e al pieno senso di quanto s’in- 
tende affermare con esso. Tale presupposizione è l’orizzonte e il cri- 
terio di ogni operazione dell’intelletto. L’esistenza dell’io e del mon- 
do sono date immediatamente come compresenti; la loro certezza è 
ugualmente data e vicendevolmente connessa nell’unità della co- 
scienza 45 . A tale impostazione si opporrebbe, invece, la pretesa razio- 
nalistica di dedurre uno dei due membri della relazione. Questa è, 
secondo Jacobi, la comune matrice monistica sottesa all’idealismo e 
al materialismo. L’idealismo vuole dedurre, cioè dimostrare e conce- 
pire, il mondo dall’io; il materialismo vuole invece dedurre l’io dal 
mondo. A tale proposito, nella Lettera a Fichte si legge: 


44 La dottrina di Spinoza, W 1/1, 157; trad. it, pp. 44-45. 

45 Su questo punto, si può osservare la coincidenza di Jacobi con Thomas Reid; 
particolarmente, sulla funzione implicita del giudizio di esistenza ad ogni livello del- 
la coscienza. Cfr. T. Reid, Essays on thè Intellectual Powers, in The Works of Thomas 
Reid, cit., voi 1, pp. 413-434. 



38 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


«Innegabilmente lo spirito della filosofia speculativa è quello di rendere di- 
seguale l’uguale certezza che l’uomo naturale ha di queste due proposizioni: 

10 sono, esistono le cose fuori di me; sin dall’inizio tale dev’essere stata la sua 
costante aspirazione. La filosofia speculativa ha dovuto cercare di sottomet- 
tere una proposizione all’altra, di dedurre infine perfettamente la prima dal- 
la seconda o la seconda dalla prima, in modo che, per l’onniveggente, non ci 
fosse che un solo essere o una sola verità» 46 . 

11 realismo assume, invece, come normativa l’unità e la distinzione 
originaria di pensiero ed essere, che è data al pensiero naturale e che 
consegue dalla coscienza della sua stessa finitezza. 

«“Noi abbiamo un concetto della verità, invincibile da tutto il pirronismo 
[scil., scetticismo]” (Pascal, Pensées, art. XXI). E così io asserisco e asserirò: 

Noi non ci creiamo e istruiamo noi stessi, non siamo in nessun modo a prio- 
ri, e non possiamo saper o far niente (puramente e completamente) a priori, 
niente sperimentare senza esperienza. Noi ci troviamo posti su questa terra; 
e qui, come si fanno le nostre azioni, così pure si fa la nostra conoscenza» 47 . 

In questo passo si trova chiaramente la posizione originaria del 
pensiero nell’essere che si era sopra rilevata: l’io si trova immediata- 
mente nello stesso scambio operativo che, antecedentemente ad ogni 
riflessione, intrattiene col mondo. La nozione di esperienza da cui il 
pensiero dovrebbe, quindi, procedere a posteriori nella conoscenza e 
nella direzione della prassi, è qui chiaramente connotata in tal senso 
esistenziale. Il pensiero riflessivo è preceduto dalla effettività dell’esi- 
stenza, che consiste nello stesso esserci dell’io, secondo la distensione 
temporale e operativa che questo implica. Ancora, il pensiero è in- 
stallato nell’esistenza, concresce e si modella secondo il rapporto 
operativo che il soggetto intrattiene con la realtà 48 . Di qui l’intima 
corrispondenza che Jacobi istituisce tra conoscenza e moralità, che è 
anche una delle problematiche al centro dei suoi romanzi. 

b) Fede e realismo 

Rimane da considerare l’opera cui ne La dottrina di Spinoza lo stesso 
autore aveva rimandato per una più articolata trattazione di questi 


46 Lettera a Fichte , W 2/1, 194; trad it., p. 32. 

47 La dottrina di Spinoza, W 1/1, 130; trad. it., p. 147. 

48 Cfr. ibidem, 130 e ss. 



A.Profilo ed elementi 


39 


punti: il David Hume (1787). La tesi sulla fede nella prima, chiara nel 
suo contesto, ma anche piuttosto allusiva che effettivamente svolta e 
certamente assai provocatoria, «l’elemento di ogni conoscenza e atti- 
vità umana è la fede» 49 , aveva suscitato un grande scandalo. Jacobi fu 
accusato di “cripto-papismo”, ossia di voler introdurre sotto le vesti 
di un originale ragionamento il principio di autorità, di voler sotto- 
porre il libero esercizio della ragione guadagnato dall’illuminismo al 
vincolo di una fede religiosa, dogmaticamente stabilita. Jacobi rispo- 
se iniziando il David Hume con una lunga citazione dal filosofo scoz- 
zese mostrando come anche questi, certo alieno da ogni analogo ten- 
tativo, avesse fatto uso della fede in un senso che, se non identico, 
era assai vicino a quello da lui stesso inteso 50 . 

Ne la Ricerca sull’intelletto umano, l’autore aveva rilevato come la 
garanzia della verità di alcune idee in relazione ad altre, riposi sulla 
vivacità con cui esse si presentano e sul sentimento di certezza che 
quindi ne ricaviamo. Il termine impiegato dal filosofo per designare 
la modalità con la quale alcune idee sono spontaneamente accredita- 
te rispetto ad altre è belief, “credenza”. Hume insiste sul fatto che la 
vita quotidiana è innervata dalla credenza, da una fiducia ormai con- 
solidata in un corpo di abitudini che solo rendono possibili il libero 
muoversi dell’uomo nel mondo. Lo scetticismo, ch’egli peraltro so- 
stiene circa il valore cognitivo della credenza, è sottratto al dominio 
della vita, della prassi. Lo scetticismo è, cioè, una questione che im- 
pegna i dotti in alcune ristrette circostanze. 

Ora Jacobi coglie in Hume tale importanza accordata alla creden- 
za come fiducia spontaneamente radicata nella vita quotidiana; ma, 
diversamente dal filosofo dell’empirismo, le attribuisce un netto 
spessore ontologico: 

«Certamente, in Hume l’espressione non ha quella speciale accentuazione 
che vi ho posto io; tra l’altro perché Hume lascia sempre impregiudicata la 
questione se noi percepiamo realmente le cose fuori di noi, oppure semplice- 


49 «Das Element aller menschlichen Erkenntnifi und Wirksamkeit, ist Glaube» 
( ibidem , 125). 

50 Cfr. David Hume, W 2/1, 27 e ss.; D. Hume, An Enquiry concerning Human Un- 
derstanding, Clarendon Press, Oxford 2000, (sect. 5, part 2 ), pp. 39-41. 



40 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


mente come se fossero fuori di noi. Perciò anche nel passo che dianzi le ho 
letto si dice: “il reale, o ciò che viene ritenuto come tale”» 51 . 

Qual è, dunque, il criterio proposto dal Nostro per dirimere il 
vero dal falso nel nostro sapere? Che cosa assicura che il nostro pen- 
siero sia veramente radicato nell’essere, come esso pretende? Qual è 
il fondamento oggettivo della “fede”, cioè della presunzione di cer- 
tezza nella reale esistenza di qualcosa, posto che essa non si può giu- 
stificare rinviando ad altro? Nel passo seguente l’autore comincia ad 
affrontare tali questioni. 

«Io mi domando: il realista convinto che accoglie senza dubitare le cose 
esterne sulla testimonianza dei suoi sensi, e considera questa certezza come 
un convincimento originario (urspriingliche XJeberzeugung) e non è capace di 
pensare ad altro se non che, per conoscere il mondo esterno, l’uso del suo 
intelletto deve appoggiarsi sopra un’esperienza basilare ( Grunderfahrung ) 
come questa, un realista convinto, ripeto, come deve chiamare quell’organo 
con cui egli partecipa della certezza degli oggetti esterni considerati come 
esistenti indipendentemente dalla sua rappresentazione? Null’altro ha per 
appoggiarvi il suo giudizio, se non la cosa stessa, null'altro se non il fatto che 
le cose stanno realmente di fronte a lui» 52 . 

Si noti la sottolineatura dell’aspetto originario del realismo, quale 
espressione riflessiva di una esperienza basilare, cioè di un contatto 
con l’essere che precede e costantemente sostiene lo svolgimento del 
pensiero. La presenza dell’essere non è dunque né un’ipotesi per ciò 
che sta al di là della rappresentazione, né una funzione esclusiva del- 
l’intelletto, poiché l’essere non è un genere, un’idea astratta (certo, in 
tal caso, l’idea più astratta), ma la materia di una sorta di esperienza; 
anzi, il principio e fondamento di ogni esperienza. Il rinvio del pen- 
siero ad un’immediatezza originaria significa, per il filosofo di Dus- 
seldorf, il manifestarsi di un’attività radicale inerente alla realtà stes- 
sa, l’“auto-porsi” dell’esistenza, che il pensiero può esperire e, quin- 
di, rilevare riflessivamente come un fatto. Tale manifestazione dell’e- 
sistenza è, perciò, indipendente dalla rappresentazione che l’intellet- 
to possa poi farne. Il termine che egli riconosce come il più appro- 
priato per tale manifestazione è “rivelazione” ( Offenbarung ) , che po- 


51 David Hume , W 2/1, 31-32; trad. it., p. 95. 

52 Ibidem , 32; trad. it., p. 95. 



A.Profilo ed elementi 


41 


tremmo anche tradurre con “apertura”, “presentazione”, “dispiega- 
mento” 53 . 

Si prenda ora in considerazione un passo, di poco successivo a 
quello sopra citato, dove è analizzata più da vicino la struttura di 
quella “esperienza basilare”, cioè di quella rivelazione dell’essere di 
cui si è detto. L’ipotesi ora affrontata è quella del realismo mediato, 
l’ipotesi che l’intelletto derivi la portata veritativa delle proprie rap- 
presentazioni dall’impressione di passività che avverte in alcune di 
esse, diversamente che nelle rappresentazioni libere o immaginarie; 
passività da cui sia, quindi, lecito risalire attraverso il nesso di causa- 
lità ad una corrispondente realtà esterna. Si ha qui come una confer- 
ma ed un approfondimento dei punti precedentemente indicati. 

«Io: “Anche la coscienza sorge in noi senza alcuna attività da parte nostra. 
Anche la coscienza noi non siamo in grado di respingerla, e sentiamo di esse- 
re riguardo ad essa non meno passivi che riguardo a quelle rappresentazioni 
che chiamiamo rappresentazioni delle cose esterne (...) L’oggetto influisce 
sulla percezione della coscienza altrettanto quanto la coscienza sulla perce- 
zione dell’oggetto. Io esperimento che ci sono (Ich erfahre dafi ich bin ) e che 
c’è qualcosa fuori di me nello stesso e indivisibile momento» 54 . 

5 ’ Questi punti potrebbero confrontarsi con l’impostazione guida della fenomeno- 
logia di Husserl: “alle cose stesse!”. Il passo preliminare di ogni spiegazione è la de- 
scrizione della realtà stessa, oggetto d’indagine, nei contorni essenziali con cui essa 
ci si presenta. Ma la descrizione dell’essenza di una cosa è intesa dall’autore delle 
Ideen come indipendente e filosoficamente prioritaria rispetto alla questione della 
sua esistenza. La questione dell’esistenza dev’essere perciò neutralizzata, poiché se- 
condaria e incerta rispetto all’evidenza indubitabile dell’essenza. Dove si nota con 
chiarezza la differenza del realismo ancora eventualmente rinvenibile in tale impo- 
stazione rispetto al realismo esistenziale di Jacobi. Maggiore prossimità presenta in- 
vece l’indagine posteriore di Husserl sul “mondo della vita”, nonché il rispettivo svi- 
luppo ontologico di Heidegger. 

54 David Hume , W 2/1, 37; trad. it., pp. 100-101. Il testo prosegue: «Non vi è al- 
cuna rappresentazione, alcun ragionamento (keine Vortellung, kein Schluji) che fac- 
cia da intermediario in questa duplice rivelazione. Nulla subentra nella coscienza tra 
la percezione che essa ha della realtà esterna e quella che ha della realtà interna (...) 
Io: Ella ha colto nel segno. Però io la prego di tendere ancora tutta la sua attenzione 
e di concentrare il suo essere sul momento di una percezione semplice; e allora Ella 
si accorgerà una volta per sempre e si convincerà incrollabilmente per tutta la vita 
che anche nella prima e più semplice percezione l’io e il tu, vale a dire la coscienza 
interna e l’oggetto esterno, devono essere presenti contemporaneamente neH’anima, 
entrambi nello stesso attimo, nello stesso momento indivisibile, senza prima né 
dopo, indipendentemente da qualsiasi operazione dell’intelletto ( ohne irgend eine 
Operation des Verstandes ) e senza che neppur minimamente abbia avuto inizio la 



42 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


Jacobi contesta l’assunto del realismo mediato: il criterio della 
passività, da cui si dovrebbe discernere il valore oggettivo di alcune 
rappresentazioni rispetto ad altre attribuibili invece all’attività del 
soggetto, appartiene in realtà alla stessa coscienza. L’attività di co- 
scienza e la realtà del soggetto ch’essa attesta costituiscono anch’essi 
dei fatti originariamente presenti ed indisponibili; e quindi, anch’essi 
sono dati passivamente. La soggettività non è identificabile con una 
pura attività. L’inizio del pensiero non è, d’altra parte, né la realtà 
del soggetto, isolatamente considerata, né la realtà isolata della realtà 
oggettiva, ma la loro sintesi. Non c’è, quindi, un fatto privilegiato. 
Questo sarebbe la situazione originaria del pensiero: l’inserzione del- 
l’io nell’essere. La presentazione della realtà all’io e dell’io a sé stesso 
non è, dunque, oggetto di una rappresentazione né di un’inferenza, 
ma di un’esperienza di base che presiede alla costituzione e alla veri- 
fica di ogni rappresentazione e ragionamento. 

In breve, se la sintesi di pensiero ed essere, dell’“io” e del “tu”, 
non è data naturalmente all’inizio come un principio, come ciò che è 
“immediato” e “semplice”, allora tale sintesi non è più ovvero rico- 
struibile a partire da uno dei suoi elementi. In questo punto si può 
riconoscere il significato speculativo dell’appello di Jacobi alla 
“fede” nei confronti della metafisica del razionalismo e dell’ideali- 
smo trascendentale. 


Qualora l’esposizione sin qui condotta sia stata sufficientemente 
chiara, si dovrebbe allora poter leggere senza difficoltà e, ci auguria- 
mo, con soddisfazione, il passo seguente de La dottrina di Spinoza , 
che è tra i più citati ed è certamente tra i più significativi per la defi- 
nizione di ciò che potremmo finalmente chiamare “il realismo esi- 
stenziale” di Jacobi. Lo riportiamo a sintesi e conclusione dei punti 
esaminati in questa prima sezione. 

«A me piace Spinoza, perché, più di qualunque altro filosofo, mi ha portato 
alla perfetta convinzione che certe cose non si possono spiegare: cose davan- 
ti a cui non si possono chiudere gli occhi, ma che bisogna prendere come si 
trovano (...) Lessing: - E chi non vuole spiegare? Io: - Chi non vuole spiega- 


formazione dei concetti di causa ed effetto» (ivi, 37-38; 100-1013. 



A.Profilo ed elementi 


43 


re ciò che è incomprensibile, ma vuole sapere il limite dove esso comincia, e 
conoscere solo che vi è: questi io credo che acquisti in sé lo spazio maggiore 
per la genuina verità umana. Lessing: - Parole, caro Jacobi; parole! Il limite, 
che Lei vuole porre, non si può determinare. E, d’altronde, Lei dà libero 
campo alle fantasticherie, all’assurdo, alla cecità. Io: - Io credo che quel li- 
mite si dovrebbe determinare. Io non ne voglio porre, ma trovare solo il già 
posto, e lasciarlo stare. E riguardo all’assurdo, alle fantasticherie, alla 
cecità... Lessing: - Esse allignano dovunque dominano idee confuse. Io: - 
Più ancora dove dominano idee fittizie (...) A mio giudizio è il più gran meri- 
to del filosofo scoprire l’esistenza e rivelarla... La spiegazione gli è mezzo, 
via allo scopo, prossimo, non mai ultimo scopo. Il suo scopo ultimo è quello 
che non si può spiegare: l’insolubile, l’immediato, il semplice» 55 . 


B. Lettura di alcuni testi esemplari 

Il breve itinerario che ora seguiremo passerà attraverso alcuni brani 
particolarmente significativi, nell’intento di illustrare nuovamente e, 
per quanto possibile, con le stesse parole dell’autore, i temi che ab- 
biamo dianzi presentato 56 . Come è stato osservato, la componente 

55 La dottrina di Spinoza, W 1/1, 28-29; trad. it., pp. 75-76. Per l’importanza capita- 
le del passo, ne riportiamo di seguito l’originale intero: «Ich liebe Spinoza, weil er 
mehr als irgend ein andrer Philosoph, zu der vollkommenen Ueberzeugung mich 
geleitet hat, daB sich gewisse Dinge nicht entwickeln lassen: vor denen man darum 
die Augen nicht zudrucken muB, sondern sie nehmen, so wie man sie findet (...) 
(LeBing). Und wer nicht erklàren will? (Ich). Wer nicht erklàren will was unbegrei- 
flich ist, sondern nur die Grenze wissen wo es anfàngt, und nur erkennen, daB es da 
ist: von dem glaube ich, daB er den mehresten Raum fur àchte menschliche Wah- 
rheit in sich ausgewinnt. (LeBing) Worte, lieber Jacobi, Worte! Die Grenze die Sie 
setzen wollen, làBt sich nicht bestimmen. Und an der andern Seite geben Sie der 
Tràumerey, dem Unsinne, der Blindheit freyes offenes Feld. (Ich) Ich glaube, jene 
Grenze wàre zu bestimmen. Setzen will ich keine, sondern nr die schon gesetzte 
finden, und sie lassen. Und was Unsinn, Tràumerey und Blindheit anbelangt... 
(LeBing). Die sind uberall zu Hause wo verworrene Begriffe herrschen. (Ich) Mehr 
noch, wo erlogene Begriffe herrschen (...) Nach meinem Urtheil ist das gròBeste 
Verdienst des Forschers, Daseyn zu enthullen, und zu offenbaren. . . Erklàrung ist 
ihm Mittel, Weg zum Ziele, nàchster — niemals letzter Zweck. Sein letzter Zweck 
ist, was sich nicht erklàren làBt: das Unauflòsliche, Unmittelbare, Einfache». 

56 Indichiamo di seguito alcune tra le principali traduzioni, che sono peraltro tutte 
introdotte da notevoli saggi dei rispettivi curatori: cfr. F.H. Jacobi, Idealismo e reali- 
smo, a cura di N. Bobbio, De Silva, Torino 1948; Io., Scritti kantiani, a cura di G. 
Sansonetti, Morcelliana, Brescia 1999; Oeuvres philosophiques de F.H. Jacobi, a cura 
di J.J. Anstett, Aubier-Montaigne, Paris 1946; Id., The Main Philosophical Writings 
and thè Novel ‘Allwill’ , a cura di G. di Giovanni, Me Gill-Queens’ University Press, 
Montreale 6 Kingston-London-Buffalo 1994. Le due raccolte seguenti sono assai 



44 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


autobiografica è assai importante nell’opera di Jacobi, e lo è altret- 
tanto per la sua interpretazione. Per favorire l’approccio del lettore 
ai testi, faremo, come nelle pagine precedenti, citazioni abbastanza 
ampie. Come si vede nel seguente sommario, la sequenza dei testi 
che prenderemo in considerazione corrisponde allo sviluppo crono- 
logico dell’opera del filosofo. La divisione dei brani del David Hume 
in due parti è nostra ed è funzionale allo sviluppo della nostra espo- 
sizione. 

1. Esistenza e causalità: David Hume, [“la parte”] (1787). 

2. L’impossibilità dell’esistenza: La dottrina di Spinoza, 2“ ediz., Appendice 
VII (1789). 

3. Vita e ragione: David Hume, [“2a parte”]. 

4. Una prova per assurdo: Lettera a Fichte (1799). 

5. La ricerca di una sintesi di intelletto e ragione: Introduzione generale 
(1815). 

1. Esistenza e causalità: “David Hume” (la parte) 

Il dialogo David Hume è datato 1787, lo stesso anno in cui apparve 
la seconda edizione della Critica della ragion pura di Kant 5 '. Di fatto, 
Jacobi prende qui posizione sulla stessa problematica di fondo: la 
deduzione trascendentale delle categorie, ossia la giustificazione del- 
le supreme nozioni ontologiche (tempo, spazio, sostanza, causalità, 
relazione etc.), attraverso la ricostruzione della loro genesi gnoseolo- 
gica. L’antecedente sembra anch’esso analogo: la critica di Hume 
alla validità oggettiva del nesso causale. Com’è noto, Hume dimostrò 
l’impossibilità di derivare l’universalità e necessità attribuita nelle 
scienze (metafisica e fisica) alla relazione causale a partire dall’espe- 
rienza, empiristicamente intesa. Ne riconobbe, quindi, l’origine nella 

utili per il confronto con i contemporanei: Id., Scritti e testimonianze, a cura di V. 
Verrà, Loescher, Torino 1966; W. Jaeschke, a cura di, Transzendentalphilosophie 
und Spekulation. Der Streit um die Gestalt einer Ersten Philosophie (1799-1807), 2: 
Quellenband, Meiner, Hamburg 1993. 

5/ Nell’appendice al testo, Jacobi sottolinea l’importanza di ritenere e confrontare 
le due edizioni dell’opera di Kant: cfr. Sull’idealismo trascendentale, W 2/1, 103 in 
nota. Per uno studio e un commento dettagliato del David Hume : cfr. L. Guillermit, 
Le réalisme de Jacobi. Dialogue sur l’idéalisme et le réalisme, Publications de l’Uni- 
versité, Aix-en-Provence. 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


45 


tendenza innata dell’immaginazione ad anticipare rapporti tra istan- 
ze successive normalmente correlate. Kant accettò il punto di vista 
del filosofo scozzese, ripiegando per l’identificazione della causalità 
con una funzione soggettiva di sintesi. D’altra parte, egli l’attribuì 
non all’immaginazione ma all’intelletto, volendone così preservarne 
il carattere universale e necessario; precisamente, come regola che 
l’intelletto invariabilmente osserva nella costituzione della struttura 
razionale dell’esperienza. 

Jacobi intervenne in tale questione, cercando sì di garantire alla 
causalità un fondamento empirico, ma cercando di garantire alla 
stessa esperienza una portata ontologica. Come vedremo, secondo 
l’autore del dialogo, la reale portata della causalità è congiunta alla 
reale consistenza della libertà umana. Infatti, se la nozione di causali- 
tà non avesse valore reale, come introduzione di novità nell’essere, la 
convinzione di libertà sarebbe illusoria. D’altra parte, l’impossibilità 
di ridurre l’agire ad un rapporto concettuale, conferma in maniera 
particolarmente evidente la generale trascendenza dell’esistenza sul 
pensiero. 

Lo scambio tra i due interlocutori che fa da guida del dialogo 
(per l’“Io” nel dialogo, supponiamo lo stesso autore), giunge ad un 
certo punto a riproporre il problema di Hume nei termini seguenti: 

«Lui: Mendelsohn nelle sue Ore del mattino fonda il concetto di causa ed ef- 
fetto sulla percezione di una successione costante ed immediata, vale a dire 
sull’esperienza e suU’induzione. Ma questa successione, a voler analizzare 
opportunamente la cosa, si riduce ad una semplice aspettativa di casi simili; 
questa aspettativa, a sua volta, ad un collegamento che si forma per la forza 
dell’abitudine nell’immaginazione: ed ecco che in tal modo David Hume 
avrebbe vinto. Io mi domando: siamo proprio costretti a concedergli questa 
vittoria?» 58 . 

Il problema di partenza sembra, dunque, lo stesso di quello di 
Kant: il superamento dello scetticismo empirista rispetto ad una no- 
zione, qual è la causalità, la cui validità rimane comunque indubbia 
sul piano del senso comune. Kant affronta questo problema poiché 
tale scetticismo si oppone alla validità oggettiva ch’egli preliminar- 
mente attribuisce agli enunciati della fisica newtoniana. La prospetti- 


58 David Hume , W 2/1, 38-39, trad.it., p. 102. 



46 1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 

va con cui Kant affronta il problema è, dunque, una prospettiva epi- 
stemica: si tratta di giustificare la validità del sapere scientifico. Jaco- 
bi, come accennato, colloca la problematica della causalità nel più 
ampio solco di problemi connessi al rapporto di concetto ed esisten- 
za. Come leggiamo nella risposta alla questione al suo interlocutore, 
egli dichiara di essersi lasciato avvolgere dal problema di Hume, ma 
di esserne uscito vittorioso. Per spiegarne il modo, egli risale molto 
in là rispetto alla questione immediatamente proposta. La modalità 
narrativa che l’autore ora utilizza serve a presentare in maniera appa- 
rentemente rapsodica i diversi punti la cui finale intersezione è stata 
per lui decisiva nella soluzione del problema. 

«Per quanto io ricordo, mi è sempre rimasto impresso che non potevo ac- 
contentarmi di un concetto il cui oggetto, o interno o esterno, non mi fosse 
dato intuitivamente (anschaulich) nella sensazione o nel sentimento. Nella 
mia mente l’oggettiva verità e la realtà ( Wirklichkeit ) erano tutt’uno, così 
come la rappresentazione chiara della realtà e la conoscenza. Rimanevo cie- 
co ed insensibile per ogni dimostrazione che non potesse farmisi vera per 
questa via, proposizione per proposizione, e per ogni spiegazione che non si 
lasciasse mettere a raffronto intuitivamente ( intuitiv ) con nessun oggetto e 
non risalisse essa stessa all’origine» 59 . 

E così indicata Lorigine più remota del problema della causalità, 
così come si presentava agli occhi del filosofo. L’inclinazione della 
sua mente lo spingeva a risalire oltre la presunta autosufficienza delle 
“idee chiare e distinte”. L’astratto per essere veramente inteso si 
deve risolvere nel concreto, così come l’universale nell’individuo. Si 
potrebbe sospettare che Jacobi si avvicini così all’empirismo più di 
quanto egli non dichiari. Così sarebbe se la realtà fosse univocamen- 
te identica per Jacobi, come per Hume (e per Berkeley), con il puro 
contenuto percettivo. Ma, come si è notato dianzi, il riferimento al 
concreto è colto dal filosofo aldilà di un’ottica meramente gnoseolo- 
gica, come un’istanza trascendentale: cioè come sede dell’esistenza in 
cui consiste la verità del pensiero. In tal senso, la nozione di imme- 
diatezza non basta a garantire la connotazione propriamente esisten- 
ziale del conoscere, così come Jacobi la intende. Peraltro, il concreto 
si estende per lui oltre l’essere materiale, allo stesso essere dell’io. In 


59 Ibidem, 39; trad. it., p. 103. 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


47 


generale, l’essere appartiene all’indivicluo sostanziale; l’universale e il 
pensiero discorsivo devono essere ultimamente riferiti ad un’istanza 
immediatamente accessibile all’intuizione (a ciò, potremmo dire, che 
Aristotele chiama il “questo”, tode ti, come espressione della “so- 
stanza prima”, di contro al carattere derivato, “secondo”, della sua 
rappresentazione ideale'’ 0 ). Ciò non comporta che egli rifiuti la relati- 
va autonomia delle discipline che lavorano nell’ambito formale, 
come la logica e la matematica. Soltanto, come pare, egli le affronta 
dal punto di vista della loro portata ontologica, riconoscendone, ap- 
punto, il carattere astratto e perciò derivato. Lo si vede meglio dal 
seguito, in cui l’impostazione così delineata è applicata alla genesi 
delle figure geometriche fondamentali. 

«Così ho considerato il punto matematico, la linea matematica e la superficie 
come dei meri vaneggiamenti, o per dirla con Voltaire comme de mauvaises 
plaisanteries , sino a che la spiegazione non mi fu data seguendo l’ordine in- 
verso, vale a dire non più prima del corpo, ma dopo: la superficie come l’e- 
stremità, la fine, il limite del corpo; la linea come l’estremità della superficie: 
il punto come l’estremità della linea. Né mi riuscì ad intendere la natura del 
circolo sono a che non compresi che esso aveva origine dal movimento di 
una linea, di cui l’una delle estremità è fissa e l’altra mobile» 61 . 

Si badi, l’attenzione non è posta sulla validità dei rapporti istituiti 
tra le figure dalla geometria, ma sull’origine dei concetti che la geo- 
metria assume in maniera postulatoria, come nei postulati di Euclide, 
pur senza farsi carico del problema della loro portata ontologica. Il 
corpo è così indicato come l’ultimo referente cui il pensiero si ap- 
poggia nella costituzione del concetto di estensione e delle fonda- 
mentali dimensioni spaziali, da cui l’immaginazione autonomamente 
procede alla costruzione delle figure nelle loro varie relazioni. Il mo- 
vimento reale è poi indicato come origine dei movimenti ideali che 
presiedono alla sovrapposizione e alla costruzione delle figure più 
complesse 62 . Il movimento come tale, osserverà più avanti il Nostro, 

60 Cfr. Arist., Cat. 5, 3b lOss. 

61 David Diurne , W 2/1, ibidem. 

62 Lo stesso Hume aveva criticato la validità delle dimostrazioni matematiche poi- 
ché non si troverebbe da nessuna parte nell’esperienza una figura dotata di quella 
purezza con cui la geometria se la rappresenta. Come appare da altri luoghi in cui è 
toccato il problema della matematica, Jacobi sembra piuttosto insistere sulla garan- 
zia del riferimento dell’astratto al concreto, in relazione alla pretesa di autonomia as- 



48 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


non esiste nelle figure matematiche, poiché queste, non appena con- 
cepite, sono già attualmente determinate in tutte le loro possibili 
proprietà e relazioni, che sono incluse nella stessa definizione delle 
figure, e perciò accadono fuori dal tempo. Il movimento esiste, piut- 
tosto, nell’atto di pensiero che successivamente scopre tali relazioni, 
tracciandole neH’immaginazione e nella concatenazione dei passaggi 
logici che le lega; pensiero, che in quanto atto sviluppantesi nel tem- 
po, è, dunque, anch’esso un movimento reale. 

Nel suo racconto Jacobi prosegue riportando come la difficoltà di 
comprensione incontrata a tale riguardo gli avesse procurato una 
scarsa considerazione presso i suoi docenti e compagni di studio 63 . 
L’incomprensione, in realtà, manifesta come il giovane affrontasse la 
matematica da un punto di vista filosofico, e da un punto di vista fi- 
losofico che voleva essere alternativo a quello del razionalismo. Vie- 
ne quindi presentata a tratti commossi la figura dello scienziato Le 
Sage, che comprese il problema e il talento del giovane e lo avviò allo 
studio della filosofia. 

Ecco un autoritratto del giovane filosofo a Ginevra, che si potreb- 
be anche confermare con testimonianze più tarde: «un giovane foco- 
so ma d’animo altrettanto mite, pieno di timidezza e di sfiducia in se 
stesso, e nello stesso tempo pieno di entusiasmo per ogni più alto va- 
lore dello spirito...» 64 . Il soggiorno giovanile a Ginevra (1759-1762) 

soluta del sapere formale. Chiarificante a tale proposito il passo seguente de La dot- 
trina di Spinoza-, «La linea, il punto e il piano sono astratti dal corpo (...), e quindi la 
matematica presuppone la rappresentazione del corpo, ed inoltre anche la rappre- 
sentazione del movimento, senza la quale non si può pensare la costruzione di un 
circolo e in genere di una figura. Va da sé, che non sia poi più necessaria nessuna 
esperienza per la formazione di proposizioni semplicemente identiche, perché l’i- 
dentità in senso puro è un concetto affatto soggettivo (etti durchaus subjectiver Be- 
griff). All’oggetto fuori dell’intelletto non può convenire il predicato aggettivo “lo 
stesso”, ma esso è semplicemente quello che è. Ma che proposizioni identiche deb- 
bano portar con sé l’universalità e la necessità, ciò è appunto così evidente come la 
loro indipendenza dall’esperienza» (La dottrina di Spinoza, W 1/1, 130 in nota; trad. 
it., p. 147 in nota). 

63 Tale incomprensione delle sue qualità intellettuali, specialmente da parte del pa- 
dre, fu il motivo iniziale per il quale Jacobi fu avviato alla professione commerciale e 
non potè dedicarsi agli studi se non in maniera parziale o dilettantesca. Cfr. F. Roth, 
“Nachricht von dem Leben Friedrich Heinrich Jacobi’s”, in Friedrich Heinrich Jaco- 
hi’s auserlesener Briefwechsel, (a cura dello stesso F. Roth), Fleischer, Leipzig 1825, 
Bd. I, p. VII e ss. 

61 David Hume , W 2/1, 41; trad. it., p. 105. 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


49 


è poi ricordato da Jacob i come uno dei periodi più felici e stimolanti 
della sua vita: «Così trascorsero due dei più felici e certamente dei 
più fecondi anni della mia vita» 6 ’. 

Ritornato in Germania, egli ebbe notizia di un concorso indetto 
nel 1763 dall’Accademia di Berlino sull’evidenza nelle scienze meta- 
fisiche. L’argomento attrasse subito la sua attenzione; si può infatti 
notare come esso corrisponda alle problematiche che andavano già 
agitandosi nella sua mente. Lo scritto di Mendelssohn, che fu vinci- 
tore del concorso, conteneva una esposizione della prova a priori 
dell’esistenza di Dio. Dalla perplessità che ricavò dalla coerenza con 
cui la prova vi era esposta, quando pur non gli pareva convincente, 
sembra di capire che Jacobi non fosse ancora risalito, dal primo pro- 
blema da lui sollevato circa l’origine della matematica, al problema 
più generale che oscuramente lo muoveva sui limiti ontologici del sa- 
pere oggettivo o concettuale. Il passo decisivo dev’essere stato pro- 
prio questo. L’argomento a priori dell’esistenza di Dio appare, infat- 
ti, come il paradigma di un’impostazione per cui il rapporto con l’es- 
sere non è originario ma è mediato dal pensiero. 

«Il mio ritorno in Germania capitò proprio nel momento in cui l’Accademia 
di Berlino aveva posto in discussione il tema sull’evidenza nelle scienze me- 
tafisiche. Nessun problema avrebbe potuto eccitare in più alto grado la mia 
attenzione. Lo scritto premiato non soddisfaceva l’aspettativa che aveva su- 
scitato in me il nome dell’autore, filosofo allora di gran fama [Mendelsohn] . 
Tanto più grande fu la mia sorpresa quando io nella seconda memoria [di 
Kant], che aveva ricevuto soltanto una segnalazione, trovai indicazioni e 
schiarimenti che non potevano cadere più opportuni per venire incontro alle 
mie esigenze» 66 . 

Questa perplessità spinse Jacobi ad approfondire le fonti della 
prova a priori, risalendo fino alla formulazione datane da Cartesio 
passando quindi all’esposizione di Spinoza. Fu proprio questa l’oc- 
casione, come egli qui dichiara, che diede inizio al suo studio appro- 
fondito del pensatore olandese, che avrà poi il suo frutto ne La dot- 
trina di Spinoza (1785). 

Il dialogo riporta poi una dichiarazione che può illustrare il meto- 
do adottato da Jacobi, e in generale può render conto del modo in 

65 Ibidem , 42; trad. it., p. 106. 

66 Ibidem, 42; trad. it., pp. 106-107. 



50 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


cui egli entrava in polemica, com’egli in effetti polemizzò vivacemen- 
te, con molti autori. Ma solo con Schelling l’acuta penetrazione dei 
problemi e la garbata ironia che gli erano caratteristici toccò punte di 
asprezza. Ma è significativo che gli avversari di Jacobi, infine lo stes- 
so Schelling, per lo più riconobbero il peso dei suoi interventi. 

«Quando m’imbattevo in tesi che mi parevano infondate o erronee, ma era- 
no esposte da un così buon cervello che l’esposizione stessa faceva prova 
della maturità e della completezza con cui era stata trattata la questione, io 
mi comportavo in questo modo: non mi bastava sapere che la mia opinione, 
opposta a quella, era fondata sopra una riflessione altrettanto matura, per 
concludere, in base al fatto che due verità non possono reciprocamente con- 
traddirsi, che la tesi dell’altro, in contraddizione con l’opinione da me assun- 
ta come vera, fosse senz’altro falsa. Avevo bisogno di ben altro per la mia 
tranquillità. Quello che mi premeva non era già di condurre all’assurdo la 
tesi opposta, ma anzi di renderla ragionevole. Dovevo insomma scoprire il 
fondamento dell’errore, come quel buon cervello l’avesse potuto accettare; 
in tal modo dovevo essere in grado di entrare nel modo di pensare dell’altro 
in guisa tale da poterlo seguir nel suo errore e simpatizzare con la sua con- 
vinzione» 67 . 

Questa dichiarazione corrisponde, in effetti, alla modalità con cui 
Jacobi ha letto le opere degli autori che ha criticato, come Spinoza e 
Fichte: egli distinse esplicitamente tra la critica teorica e la critica 
morale rivolta all’autore, e tra la verità e la coerenza di una dottri- 
na 68 . Infine, nell’interpretazione dei testi cercò di ricostruirne il pro- 
filo speculativo essenziale, anche aldilà delle sue espressioni letterali 
o delle conclusioni che l’autore stesso ne aveva tratto (il che ha pre- 
stato il fianco a qualche critica sulla legittimità di questo metodo per 
il suo aspetto intellettualistico, come espressione di “deduttivismo”, 
Konsequenzerei) . In ogni caso l’autore dichiara qui ciò che in effetti 
si può confermare con la lettura dei suoi scritti, che cioè la sua inter- 
pretazione degli autori è motivata da uno studio più profondo di 
quanto bastasse per guadagnare una mera conferma o confutazione. 

Il racconto viene ora ad una tappa fondamentale: la lettura de 
Unnico argomento per la prova dell’ esistenza di Dio (1761) di Kant. Il 
testo anticipa già la critica che il filosofo di Kònigsberg farà all’argo- 


67 Ibidem, 43; trad. it., pp. 107-108. 

68 Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 216, 224. 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


51 


mento a priori nella Critica della ragion pura (1781; 1788), che chia- 
merà qui “argomento ontologico”. L’attenzione del Nostro si soffer- 
ma particolarmente sulla nozione dell’esistenza in generale, che è 
premessa da Kant alla sua trattazione. Questa nozione, nonché sug- 
gerire la soluzione al problema che egli stava affrontando, cioè la 
preliminare comprensione della nozione di esistenza, intercettò la 
più profonda e complessiva disposizione del pensiero di Jacobi: «du- 
rante la lettura la mia gioia aumentò sino a farmi battere forte il cuo- 
re (...) questa volta c’era di mezzo un interesse personale troppo 
vivo» 69 . Leggiamo il passo di Kant riportato da Jacobi in nota: 

«L’esistenza non è un predicato o una determinazione di un qualche cosa, 
ma è la posizione assoluta di una cosa, e si distingue da qualsiasi altro predi- 
cato che in quanto tale viene solo e sempre posto in relazione con un’altra 
cosa (...) La possibilità interna presuppone in ogni caso un’esistenza. Se non 
ci fosse nessun dato materiale da pensare, non potrebbe neppur essere pen- 
sata una possibilità interna. Se fosse eliminata ogni esistenza, nulla di assolu- 
to sarebbe posto né quindi sarebbe dato in generale; non vi sarebbe nessun 
dato materiale pensabile, e quindi svanirebbe anche ogni possibilità 
interna» 70 . 

Per possibilità interna qui s’intende la non contraddizione tra il 
soggetto e il predicato. Questa non basta a che lo stesso soggetto, col 
predicato che gli viene correttamente attribuito, esista effettivamen- 
te. L’esistenza non è un predicato come altri che determinino le ca- 
ratteristiche di un oggetto per il pensiero (penso x, penso come pos- 
sibile che x è y), ma corrisponde all’affermazione di tale oggetto con 
tutte le sue caratteristiche come una realtà (x, così e così determina- 
to, esiste; “x è y” non è un ipotesi coerente ma è un fatto). La copula 
“è” non connette soltanto il soggetto al predicato ma “pone” altresì 
tale rapporto nell’essere. Ora, aggiunge Kant, perché la relazione di 
possibilità e non contraddizione tra due termini si possa verificare, 
bisogna che questi termini mi siano in certo modo dati. L’argomento 
kantiano serve a Jacobi per giungere ad una conclusione essenziale: 
la possibilità logica, cioè le relazioni di coerenza tra concetti istituite 

65 David Hume , W 2/1, 47; trad. it., p. 110. 

70 Ibidem , 46 in nota; trad. it., p. 157 in nota: cfr. I. Kant, “Der einzig mogliche Be- 
weisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes”, in Kant’s gesammelte 
Schriften (d’ora in poi: Ak.) II, 70-77. 



52 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


dall’intelletto, riposano su di un dato materiale che l’intelletto deve 
assumere dall’esperienza, senza poter anticipare. La possibilità è fon- 
data sulla realtà, e non viceversa. L’argomentazione a priori, che fa 
uso costitutivo della possibilità, come insieme di relazioni coerenti, è 
così ricondotto all’a posteriori. Questa conclusione viene ora riporta- 
ta nel solco del problema aperto della causalità. 

La filosofia di Cartesio, di Spinoza e di Leibniz concordava nell’i- 
dentificare la nozione di causa con la nozione di ragione esplicativa, 
secondo il noto lemma: “causa sive ratio” 11 . La causa è ciò che rende 
ragione di un evento. Come si legge nel David Hume e come è varia- 
mente ribadito nelle opere successive, c’è un ambiguità in questa im- 
postazione che dev’essere dipanata, poiché essa esemplifica un’inso- 
stenibile identificazione di pensiero ed essere, di possibilità a priori e 
di realtà a posteriori' 2 . L’ambiguità viene più precisamente indicata 
nella relativa assimilabilità dei concetti di causa e ragione al concetto 
di condizione. Sia la causa ( Ursache ) di un evento sia il fondamento 
( Grund ), come principio di una spiegazione, sono condizioni dei ri- 
spettivi termini: l’effetto e il dato che viene spiegato. 

In schema: 


CONDIZIONATO CONDIZIONE 

effetto 

causa (Ursache) 

fatto — ) 

■ ragione, fondamento (Grund) 


Tuttavia, non è necessario che il fondamento, il principio che ci fa 
capire la ragione per cui qualcosa è o non è in un determinato modo 
(la forma), sia anche la causa dell’essere di questa stessa cosa (l’esi- 
stenza). A tale proposito, egli fa l’esempio della spiegazione geome- 
trica: le leggi geometriche che presiedono alla figura del triangolo o 
di un cerchio, e che perciò la spiegano, non sono perciò stesso le 
cause del triangolo o del cerchio, almeno nello stesso senso in cui 
normalmente s’intende la nozione di causa, cioè come causa efficien- 
te. Nelle relazioni tra le parti della figura e tra la figura e le leggi che 


71 Cfr. C. Giacon, La causalità nel razionalismo moderno, Bocca, Milano-Roma 
1954. 

' 2 Cfr. David Hume, W 2/1, 49 e ss; La dottrina di Spinoza, W 1/1, 255-256 (che 
più oltre riportiamo per esteso: cfr. infra, p. 56); Sulle cose divine, W 3, 131-132. 




B.Lettura di alcuni testi esemplari 


53 


presiedono alla sua costruzione non si dà un processo causale, tem- 
poralmente articolato, ma c’è una perfetta contemporaneità di condi- 
zione e condizionato. Anzi, in tale relazione il tempo non si dà affat- 
to. Il processo da un termine all’altro è solo negli atti successivi di 
pensiero del geometra che deve risalire dalla figura alle sue leggi. 

«Si rappresenti un cerchio, e faccia di questa rappresentazione un concetto 
chiaro. Quando il concetto sia esattamente determinato, e non contenga più 
nulla di estraneo, il tutto che Ella si rappresenta avrà un’unità ideale; e tutte 
le parti, connesse necessariamente le une alle altre, deriveranno da questa 
unità. Parlando di una connessione necessaria della successione, e credendo 
di rappresentarci nel tempo lo stesso elemento unificante, null’altro abbiamo 
veramente in mente se non appunto un rapporto, come accade nel concetto 
del cerchio: un rapporto, in cui tutte le parti sono già realmente unite in un 
tutto e sono tutte insieme presenti nello stesso tempo» 73 . 

Gli elementi costitutivi della figura concorrono alla sua identità: 
non potrebbe altrimenti la figura presentarsi come si presenta. Nel 
modello di spiegazione geometrica, che percorre la via analitica della 
causalità formale, non trova spazio ciò che caratterizza tipicamente 
l’esistenza, il movimento e la temporalità, e perciò la causalità come 
principio di novità nell’essere. La causalità non è, dunque, univoca- 
mente riducibile ad una relazione concettuale, quanto piuttosto ad 
un dato di esperienza che trascende e fonda il relativo concetto. 

Jacobi indica poi più precisamente l’esperienza dell’agire come 
fonte e modello della nostra comprensione della causalità. Per dimo- 
strare l’esistenza della causalità bisogna attingere ad un principio 
realmente produttivo, quindi ad una forza viva, spontaneamente atti- 
va. Non basta una causa meccanica, poiché una serie di cause mecca- 
nicamente connesse trasmette un’azione generata da qualche parte; 
quindi richiede, infine, una causa originariamente produttiva 74 . Non 
basta riconoscere l’accadere di un effetto, ma, per riconoscerlo dav- 
vero come tale, cioè come causato, dobbiamo poterlo sorprendere 

73 David Hume, W 2/1, 50-51; trad. it., p. 112. Il passo prosegue: «Diamo libero 
corso alla successione, al divenire oggettivo, come se essa si risolvesse da se stessa in 
concetto così come si presenta da se stessa dinanzi agli occhi: ora appunto questo, 
cioè l’elemento mediatore dell’evento, il fondamento dell’accadere, l’elemento inter- 
no del tempo, in breve, il principium generationis, è proprio ciò che doveva essere 
spiegato» (ivi). 

74 Cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 163. 



54 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


nel suo scaturire dalla propria causa. Il che in effetti avviene nell’e- 
sperienza del nostro stesso agire 75 . 

Anche Hume aveva considerato l’importanza dell’esperienza del- 
l’agire descrivendola nei termini della correlazione tra il sentimento 
della nostra forza nel superare un ostacolo e l’esito di tale tentativo. 
Soltanto, egli aveva sottoposto questa esperienza al dubbio circa il 
nesso logico tra tali “fatti”, da lui assunti come ontologicamente ed 
epistemicamente indipendenti; nesso in cui, a suo avviso, avrebbe 
dovuto consistere la relazione di causalità. Ad una tale obiezione, Ja- 
cobi risponde appellandosi all’evidenza dell’intero fatto della causali- 
tà nell’esperienza, il cui rigetto, motivato da un’eccessiva pretesa 
analitica, ovvero da una lettura astratta, meccanica, della stessa espe- 
rienza dell’agire, condurrebbe Hume all’aporia dell’idealismo. Per 
mostrare l’originarietà di tale evidenza, egli ricostruisce l’origine del 
concetto di causalità a partire dal linguaggio e dalla mentalità dei po- 
poli primitivi. I termini del linguaggio ordinario, egli osserva, veico- 
lano ancora l’esperienza concreta sulla base della quale è sorta ogni 
ulteriore significazione astratta o metaforica: perciò essi, per quanto 
vaghi od oscuri, hanno una ricchezza semantica che in questa va lar- 
gamente persa. La mentalità primitiva, egli nota, è nativamente ani- 
mista: essa tende ad attribuire agli oggetti e agli eventi della natura le 
stesse caratteristiche che l’uomo sperimenta in se stesso. La natura 
non appare ad essa come una macchina, secondo l’immagine scienti- 
fica del mondo, ma come un essere vivente. 

«Gli antichi popoli e i popoli selvaggi d’oggi non hanno avuto e non hanno 
un concetto della causalità quale è sorto prima e dopo presso i popoli civili. 
Quelli hanno ovunque di mira gli oggetti viventi, e nulla sanno di una forza 
che non si sia prodotta da sé. Per essi ogni causa è una forza viva, attiva e 
personale, che si rivela da se stessa; ogni effetto è un atto» 76 . 

Si noti che il procedimento critico di Jacobi intende recuperare 
tale atteggiamento spontaneo dell’intelligenza, rinvenendovi un pun- 
to di vista più alto rispetto a quello esibito dalle scienze. Il modello e 
la fonte delle nozioni ontologiche fondamentali, come la causalità e 

75 Un interessante approfondimento a tale proposito si può leggere in: E. Pistilli, 
Friedrich Heinrich Jacobi e Marne de Biran sull’origine del concetto di causa, «Annua- 
rio filosofico» 22 (2006), pp. 199-224. 

76 David Hume, W 2/1, 54; trad. it., p. 115. 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


55 


la sostanza, si trova nell’esperienza immediata che l’uomo fa del pro- 
prio essere, precisamente nell’esperienza dell’agire e della propria 
identità personale. Tali nozioni, colte così in concreto, sono quindi 
astratte ed estese analogicamente al resto della natura. La pretesa di 
una loro autonoma spiegazione o giustificazione conclude invece in 
un radicale scetticismo da cui non è possibile risalire, nonché all’evi- 
denza, allo stesso significato con cui esse comunemente s’intendono 
e come originariamente si presentano alla coscienza. La conclusione 
è dunque che «la causalità riposa sopra un fatto, la cui validità non 
può esser negata se non si vuol cadere nell’abisso dell’idealismo»". 

I punti esaminati si trovano poi elaborati nel seguito del dialogo, 
dove, seguendo in certo modo lo stesso percorso della Critica di 
Kant, il problema humiano della causalità conduce ad una fondazio- 
ne di tutte le altre categorie. Lo vedremo più avanti. Passiamo ora ad 
un testo, l’appendice VII a ha dottrina di Spinoza, nel quale le mag- 
giori questioni speculative toccate nel David Hume, come il rapporto 
di causa e fondamento, sono riprese ed esaminate in maniera siste- 
matica. 

2. L’impossibilità dell’esistenza: Appendice VII a “La dottrina di 
Spinoza”, 2 a ed. (1789) 

La settima appendice alla seconda edizione de La dottrina di Spinoza 
(1789) è stata indicata dall’autore quale una delle più felici sintesi del 
suo pensiero 78 . La problematica dell’opera, l’esame della coerenza e 
delle aporie della filosofia di Spinoza, vi è proseguita ma viene anche 
portata ad un più alto grado di universalità e chiarezza. Più precisa- 
mente, l’appendice dovrebbe approfondire il senso di alcuni passi 
dell’opera, che sono qui riportati in apertura. Segnaliamo subito il 
passo citato, a nostro avviso, più importante, poiché esprime in sin- 
tesi il problema esaminato nell’appendice e ne anticipa la soluzione. 

«Lessing persistè in questo: che egli voleva che tutto gli fosse spiegato in 
modo naturale, ed io: che non vi poteva essere una filosofia naturale del so- 

" Ibidem , 56; trad. it., p. 118. 

78 Non a caso una delle più pregevoli recenti analisi del pensiero di Jacobi si con- 
centra pressoché esclusivamente su di essa: cfr. B. Sandkaulen, Grand und Ursache, 
Fink, Mùnchen 2000. 



56 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


prannaturale, e che pure evidentemente tutti e due (naturale e soprannatura- 
le) esistevano»' 9 . 

Per soprannaturale qui s’intende, epistemicamente, ciò che tra- 
scende il piano di applicazione delle nostre capacità di spiegazione 
razionale 80 . Per naturale s’intende, invece, ciò che soddisfa l’istanza 
generale di scientificità: la comprensione della necessità dell’essere e 
dell’“esser così” di qualcosa 81 . Lessing circoscriveva l’ambito della fi- 
losofia al sapere scientifico. La tesi di fondo dell’appendice è già 
espressa; del resto, corrisponde alla tesi di fondo sviluppata nell’inte- 
ro testo cui essa appartiene. Le possibilità di spiegazione hanno ter- 
mine in un principio che, in quanto non è deducibile da una necessi- 
tà, sia una causa antecedente sia un fondamento logico, non si può 
giustificare, ma si deve assumere così come si presenta. L’interesse 
della stessa appendice consiste nella più precisa argomentazione di 
questo assunto. 

Da un lato, vi è sviluppata la prova per assurdo su cui ci siamo già 
soffermati: l’impostazione razionalistica pretende ad una spiegazione 
esaustiva dell’esistente, ma finisce per dissolvere ciò che deve spiega- 
re; è il caso di Spinoza. D’altro lato, con movenza tipicamente kan- 
tiana (si pensi in particolare alla “Dialettica trascendentale”), la radi- 
ce di tale errore è individuato dal filosofo di Dusseldorf nella stessa 
costituzione dell’essere finito. E così elaborata un’analisi delle facoltà 
che presiedono alla conoscenza umana, per stabilirne, conforme al- 
l’intento del criticismo, i limiti. Tuttavia, diversamente da Kant, i li- 
miti della possibilità di spiegazione non coincidono, per Jacobi, con i 
limiti della conoscenza. D’altra parte, egli risale oltre la costituzione 
delle facoltà conoscitive al loro radicamento nella struttura e nella 
concreta situazione dell’essere vivente 82 . 


79 La dottrina di Spinoza, W 1/1, 247; trad. it., p. 221. 

80 Esso non corrisponde quindi esattamente al concetto teologico di “soprannatu- 
rale”, secondo la fede cattolica, poiché questa fa riferimento all’ordine ontologico 
della grazia. 

81 Cfr. Arist., An. Post., 2, 71b lOss. 

82 Da tal punto di vista, si potrebbe confermare l’opinione generale di Fichte e di 
Hegel, secondo cui il punto di vista di Jacobi è superiore al punto di vista di Kant. 
Jacobi retrocede infatti oltre il limite stabilito da Kant nella spiegazione della cono- 
scenza rispetto alla struttura formale delle facoltà, per il resto ritenuto inesplicabile, 
fino all’inerenza esistenziale di queste ad un soggetto vivente e storico. 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


57 


Prendiamo il testo dal passo che si riallaccia alla questione appe- 
na esaminata nel David Hume : la distinzione di causa e fondamento. 
Spinoza, è qui detto, volle purificare da ogni residuo empirico i con- 
cetti che si riferiscono al movimento. Solo così poteva giungere ad 
una visione compiuta dell’ordine naturale. 

«Una volta che Spinoza ebbe elevato a concetti razionali (Vernuftbegriffe) i 
concetti empirici (Erfahrungsbegriffe) del movimento, delle cose particolari 
della generazione e della successione; nello stesso tempo egli li vide purifica- 
ti da ogni empirismo ( Empirischen ), e per la ferma convinzione che tutto do- 
vesse essere considerato soltanto secundum modum quo a rebus aeternis fluit , 
potè considerare i concetti di tempo, misura e numero, come modi unilate- 
rali di rappresentazione separati da quel modus , e quindi come essenze del- 
l’immaginazione di cui la ragione non abbia bisogno di aver notizia, o le 
debba prima riformare e ridurre al vero {vere consideratimi) (...)». 

Quest’errore nasce, 

«poiché si confonde il concetto della causa col concetto di fondamento; e 
così si toglie a quello il suo carattere, e lo si riduce nella speculazione a 
un’essenza semplicemente logica ( blos logischen Wesen). Già altrove esami- 
nai questo metodo, e credo di aver spiegato abbastanza che il concetto della 
causa in quanto si distingue dal concetto di fondamento, è un concetto di 
esperienza, che noi dobbiamo alla coscienza della nostra causalità e della no- 
stra passività, e che non si può derivare dal concetto semplicemente ideale 
{blos idealischen Begriffe) del principio, come non si può risolvere in esso» 83 . 

Troviamo così chiaramente espresso il problema di fondo che 
avevamo delineato nella prima sezione: la pretesa di una comprensio- 
ne esaustiva dell’essere implica la contraddittoria assimilazione delle 
note distintive dell’attualità dell’essere, come la generazione e il tem- 
po, nella dimensione a-temporale del concetto. La successione pen- 
sata non accade nella successione, ma esibisce la relazione tra i suoi 
termini come un fatto o come un’idea; più precisamente, come una 
regola. Il passo successivo dell’assunto idealista di Spinoza è di ripor- 
tare la comprensione naturale del mondo, in quanto animato da pro- 
cessi reali di generazione e produzione che comportano l’introduzio- 
ne successiva di novità, ad un punto di vista particolare, ancora em- 
pirico sul tutto; cioè, ad un sapere ingenuo o insufficiente. La visione 

83 La dottrina di Spinoza, W 1/1, 253, 255-256; trad. it., pp. 227, 229. 



58 1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 

del tutto coincide con la determinazione del vincolo tra i suoi ele- 
menti; precisamente, come la visione del triangolo, da parte del geo- 
metra, implica l’esplicitazione del rapporto tra tutti i suoi elementi 84 . 
Qui si nota con chiarezza lo scarto nella concezione dell’empiria, ri- 
spetto all’idealismo ma altresì rispetto all’empirismo. L’esperienza 
naturale del tempo e l’esperienza della causalità, a quella intimamen- 
te congiunta, hanno valore trascendentale o fondativo, come attingi- 
mento dell’essere nel suo intrinseco carattere di novità. 

Jacobi passa, quindi, ad esporre la propria posizione. L’essere 
temporale ha un’origine che la ragione può riconoscere, e con ciò 
può giungere ad una certa conoscenza filosofica del tutto. Ma, se il 
tempo stesso non dev’essere dissolto come tale, tale origine trascen- 
de l’ambito in cui è possibile applicare, secondo l’istanza del sapere 
scientifico, il principio di ragion sufficiente. L’essere condizionato, 
che è costituito da un insieme indefinito di termini mutuamente de- 
terminati secondo necessità, richiede infine un principio incondizio- 
nato. Ora, l’incondizionato, se è veramente tale, non è determinabile 
a sua volta in funzione di una condizione determinante. Infatti, se 
così fosse, sarebbe anch’esso membro della stessa serie che dovrebbe 
invece “produrre”. Per poterla produrre e dominare la deve trascen- 
dere. L’esistenza dell’incondizionato ed il rapporto tra l’incondizio- 
nato e il condizionato è, dunque, un fatto manifesto alla ragione, ma 
non è ulteriormente deducibile. 

In schema: 


(condizionato —> condizionato) — » incondizionato 


Non: condizionato incondizionato 


Da un lato, la ragione comprende la necessità logica di ricondurre 
il condizionato ad un incondizionato. Ma, in quanto essa apprende 
tale necessità ed il significato dello stesso incondizionato, apprende, 
altresì, che tale relazione non è affatto necessaria e simmetrica sul 
piano reale. 


84 Cfr. Sulle cose divine , W 3, 13 1 e ss. 




B.Lettura di alcuni testi esemplari 


59 


«Io prendo l’uomo intero, senza scomporlo, e trovo che la sua coscienza è 
composta di due rappresentazioni originali: la rappresentazione del condi- 
zionato e quella dell’incondizionato. Tutte due sono indivisibilmente con- 
nesse l’una coll’altra, pure in modo che la rappresentazione del condizionato 
suppone la rappresentazione dell’incondizionato e può esser data soltanto in 
questa (....) [Sjiccome tutto ciò che è fuori della connessione del condizio- 
nato, del naturalmente mediato, è anche fuori della sfera della nostra cono- 
scenza chiara, e non può esser compreso mediante concetti; cosi il sopranna- 
turale non può esser ammesso da noi in nessun altro modo, se non come a 
noi dato; cioè, come fatto: esso è. Questo soprannaturale, quest’essenza di 
tutte le essenze, tutte le lingue la chiamano: il Dio» 85 . 

Si badi, l’apertura naturale della ragione comprende entrambi i 
termini, l’incondizionato e il condizionato. Ma l’approfondimento ri- 
flessivo di tale apertura trova un limite insuperabile nella concezione 
del rapporto tra essi, in quanto non è dominabile secondo necessità. 
Non è questo un limite soggettivo, contingente oppure arbitraria- 
mente stabilito, come appariva dalla risposta di Lessing nel dialogo 
che abbiamo sopra esaminato; ma è un limite inerente alla stessa na- 
tura dell’oggetto. Un esemplificazione quanto mai pertinente è quel- 
la poi indicata dal filosofo nella concezione della libertà. La stessa li- 
bertà non soddisfa per essenza le pretese di un sapere esaustivo; di- 
nanzi ad essa la ragione si trova nuovamente di fronte ad un fatto in- 
deducibile. Ora, è proprio l’esperienza della libertà, colta nel suo 
aspetto radicale di risposta ed iniziativa della persona, il medio in cui 
possiamo qualificare, e con ciò, in certo senso, spiegare l’incompren- 
sibilità del rapporto di incondizionato e condizionato; più precisa- 
mente, del rapporto tra Dio e il mondo. Solo grazie a tale qualifica- 
zione personale, del resto, l’incondizionato corrisponde “a ciò che 
tutte le lingue chiamano Dio”. 

«Noi possediamo, nonostante la nostra finitezza e la schiavitù della nostra 
natura, o almeno sembra che possediamo, mediante la coscienza della nostra 


85 La dottrina di Spinoza, W 1/1, 260-261; trad. it., pp. 232-234. Abbiamo omesso il 
seguente passaggio: «Voler scoprire le condizioni dell’incondizionato, voler trovare 
una possibilità dell’assolutamente necessario e volerlo costruire ( construiren ), per 
poterlo concepire (begreifen), ciò sembra che dovrebbe subito apparire un’impresa 
assurda. Eppure è appunto questo che prendiamo a fare, quando ci sforziamo di sta- 
bilire un’esistenza concepibile a noi, cioè semplicemente naturale, della natura» 
(ivi). 



60 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


attività spontanea nell’esercizio della nostra volontà, un analogo (ein Analo- 
gon ) del soprannaturale, cioè dell’essenza che non agisce meccanica- 
mente» 86 . 

Naturalmente, tale argomento presuppone una certa definizione 
della libertà, che è già in certo modo sostanziata dalla sua applicazio- 
ne sul piano morale e religioso, in cui maggiormente risalta il suo va- 
lore e la sua natura personale. Una concezione oggettiva o intellet- 
tualista della stessa (come contingenza, spontaneità o mera autono- 
mia) — poco più oltre Jacobi si riferisce implicitamente a Leibniz — , 
ritornerebbe alle difficoltà già esaminate precedentemente 87 . 

Come abbiamo detto, il testo che stiamo esaminando presenta, 
per esplicita ammissione di Jacobi, una sintesi particolarmente pre- 
gnante del suo pensiero, specialmente per quanto concerne la teoria 
della conoscenza. Sulla base dei punti precedenti, e riguardandoli 
alla luce della loro sistemazione posteriore, possiamo indicare già 
qualche elemento che andremo poi ad approfondire. La ragione apre 
la visione sull’incondizionato, Dio e la libertà. L’intelletto è invece 
una funzione cognitiva subordinata che insiste sulle mediazioni (cau- 
sali e logiche) insite al mondo. La ragione, per così dire, “contiene” 
l’opera mediatrice dell’intelletto, offrendogli la base d’appoggio fon- 
damentale, senza della quale esso mancherebbe di un principio, anzi 
della stessa materia a cui applicarsi. Con ciò Jacobi non oppone sem- 
plicemente queste due funzioni, l’intelletto e la ragione, a tutto favo- 
re della ragione, ma intende delimitarne le due sfere e segnalare la 
suprema capacità sintetica della ragione. Si ricordi la citazione inizia- 
le: «non vi poteva essere una filosofia naturale del soprannaturale, e 
che pure evidentemente tutti e due (naturale e soprannaturale) esi- 
stevano» 88 . Ancora, in una delle formule conclusive: «al soprannatu- 
rale era stato posto a base il naturale, e tuttavia questo doveva esser 
concepito sotto quello» 89 . Approssimativamente possiamo, dunque, 

86 Ibidem, 262; trad. it., p. 235. 

8/ Si ricordi ad esempio al calcolo delle possibilità razionali a priori che, secondo 
Leibniz nella Teodicea, presiede all’evento della creazione. La volontà di Dio sareb- 
be vincolata dalla determinazione intellettuale dell’insieme delle possibilità più coe- 
rente, da cui segue l’immediato passaggio, se esso è poi veramente tale, dalla possi- 
bilità all’essere. 

88 La dottrina di Spinoza, W 1/1, 247; trad. it., p. 221. 

89 Ibidem, 264; trad. it., p. 236. 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


61 


dire che la ragione è per Jacob i la funzione deputata alla conoscenza 
metafisica (l’ambito che egli denominava il “soprannaturale”), 
mentre l’intelletto è la funzione deputata alla conoscenza scientifica 
(l’ambito del “naturale”) 90 . 

In schema: 


Intelletto ( Verstand ): ambito “naturale”: 
condizionato —> condizionato (natura, necessità). 

Scienza dimostrativa: analisi delle relazioni formali e quantitative 

Ragione ( Vernunft ): ambito “soprannaturale”: 

(condizionato — > condizionato) -» incondizionato (libertà, Dio). 

Filosofia: sintesi del sapere: subordinazione del “naturale” al “soprannaturale” 


Una più precisa determinazione dei rispettivi ambiti si può ricava- 
re, per contrasto, dal modo in cui Jacobi descrive particolarmente la 
sfera d’azione dell’intelletto. Leggiamo adesso un passo da una lunga 
nota a pie’ di pagina. Si tratta di un testo assai importante; l’autore la 
riprende, infatti, separatamente nella Lettera a Fichte. 

«Noi concepiamo una cosa, quando la possiamo derivare dalla sue cause 
prossime, ossia conosciamo per ordine le sue condizioni immediate: ciò che 
noi concepiamo e possiamo derivare a questo modo, ci presenta una connes- 
sione meccanica. Così noi concepiamo, per esempio, un circolo, se sappiamo 
dimostrarci chiaramente il meccanismo della sua formazione, ossia la sua fi- 
sica (...) La costruzione di un concetto in genere è l’apriori di tutte le costru- 
zioni; e la condizione della sua costruzione dimostra nello stresso tempo con 
piena certezza che noi non possiamo concepire ciò che non siamo in grado 
di costruire» 91 . 

L’intelletto corrisponde, secondo Jacobi, alla sfera di ciò che è 
scientificamente concepibile, ossia a ciò che è determinabile secondo 
relazioni logiche o causali di necessità. Come altrove il filosofo preci- 
sa, l’intelletto scientifico intesse le relazioni tra le cose, mirando ad 

90 Un’analoga distinzione si poteva leggere già nella prefazione alla prima edizione 
del David Rame (W 2/1, 9-10). Qui Jacobi assegna ad una funzione subordinata 
della razionalità la determinazione delle relazioni formali d’identità e differenza. A 
quest’ambito antepone una funzione sovraordinata che assicuri la realtà degli stessi 
termini delle relazioni. È necessario anteporre all’analisi formale una sintesi origin- 
aria come suo presupposto e fondamento. 

91 La dottrina di Spinoza, W 1/1, 258 in nota; trad. it., p. 231 in nota. 




62 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


una progressiva riduzione della complessità, sia reale, attraverso il re- 
perimento di leggi sempre più comprensive, sia logica, attraverso 
astrazioni sempre più estese. La sfera di applicazione privilegiata del- 
l’intelletto è, in tal senso, la matematica, poiché in essa gli oggetti 
sono omogenei ed interamente costituiti da relazioni. Perciò Jacobi 
definitivamente identifica l’ambito dell’intelletto all’ambito della 
concettualità fisica e matematica. L’estensione dell’intelletto trova 
però un limite in ciò che, per il suo carattere irriducibilmente diffe- 
renziato e per la sua fattualità, resiste ad una riduzione: la qualità e 
l’esistenza. Il passo sopra citato prosegue infatti: 

«Perciò delle qualità, come tali, non abbiamo nessun concetto, ma solo in- 
tuizioni o sentimenti. Anche della nostra esistenza abbiamo solo soltanto un 
sentimento, ma nessun concetto. Concetti propriamente detti abbiamo sol- 
tanto della figura, del numero, della posizione, del movimento e delle forme 
del pensiero. Quando diciamo di aver indagato una qualità, con ciò diciamo 
nient’altro se non che l’abbiamo ridotta alla figura, al numero, alla posizio- 
ne, al movimento, e risolta in essi; quindi oggettivamente abbiamo distrutto 
la qualità» 92 . 

Nella prima parte dell’Appendice VII è sviluppata come una con- 
ferma storica dell’ipotesi qui adombrata, identificando nel meccani- 
cismo l’esito necessario di ciò cui l’intelletto naturalmente conduce, 
se abbandonato a se stesso. Da tale profilo dell’intelletto, si com- 
prende meglio la funzione propria della ragione. Possiamo dire, in- 
terpretando, che la ragione apre la prima visione del mondo all’inter- 
no della quale l’intelletto scientifico può lavorare nel suo sviluppo 
discorsivo. La ragione delimita la sfera di comprensibilità dell’intel- 
letto e ne garantisce il riferimento ontologico. Tale delimitazione ci 
avvia ad approfondire la struttura della ragione. A tale riguardo, 
possiamo, nondimeno, già, anticipare una difficoltà sulla coerenza 
ovvero sull’adeguata elaborazione di una concettualità “empirica” 
eppure filosofica (abbracciarne, ad esempio, le nozioni di esistenza, 
di qualità, di tempo e causalità), che Jacobi sembra implicitamente 
assumere, che pure non è soggetta alle restrizioni che egli prevede 
per la concettualità astratta dell’intelletto in generale. Nella soluzio- 
ne di tale problema sembra procedere la concezione delle categorie 


92 Ibidem. 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


63 


esposta nel David Hume e la più tarda ricerca di una sintesi di intel- 
letto e ragione. 

3. Ragione e vita: “David Hume” (2a parte) 

Riprendiamo la lettura del David Hume nel punto in cui l’avevamo 
lasciato: «la causalità riposa sopra un fatto, la cui validità non può es- 
ser negata se non si vuol cadere nell’abisso dell’idealismo» 93 . Tale fat- 
to, come abbiamo visto, era rappresentato dall’esperienza della liber- 
tà. Un’obiezione sospinge ora la discussione ad un terreno più avan- 
zato: la comprensione non già soltanto del fatto, ma del valore logico 
necessario, costitutivo, della causalità. L’obiezione procede dall’os- 
servazione che un fatto come che sia non può dare, di per sé, garan- 
zia del valore universale di ciò che in esso si attesta. Si tratta dunque 
di dimostrare in che modo la causalità innerva la struttura degli enti 
in generale e quindi la nostra concezione di essi. 

In queste pagine si può avvertire più da vicino il confronto tra Ja- 
cobi e Kant, con particolare riferimento alla “Deduzione trascenden- 
tale delle categorie” nella Critica della ragion pura. Si tratta, in effetti, 
della medesima problematica: l’interpretazione della struttura intelli- 
gibile dell’esperienza. Come vedremo, all’apriorismo di Kant, secon- 
do il quale i concetti supremi del pensiero, le categorie appunto, 
sono radicate nelle autonome funzioni di sintesi dell’intelletto, Jacobi 
oppone il proprio realismo esistenziale, secondo il quale le categorie 
corrispondono alla stessa struttura ontologica dell’essere vivente fini- 
to. Anche Jacobi sottolinea il ruolo primario delle categorie rispetto 
all’esperienza, precisamente come “il prius di ogni esperienza”; ma 
tale priorità non implica, per lui, separazione. La struttura intelligibi- 
le del concreto empirico, se deve avere valore veritativo, dev’essere 
rilevata all’interno di esso. Vediamo come l’autore interpreta l’istan- 
za contenuta nell’obiezione che abbiamo sopra riassunta. 

«Si tratta di vedere se a lei basta, per chiamare un concetto, che il suo ogget- 
to si ritrovi in tutte le singole cose a guisa di un predicato universale, in 
modo che la rappresentazione di questo predicato debba esser comune a 
tutti gli esseri finiti dotati di ragione, e stia alla base di ogni loro esperienza. 

Se le basta ciò, credo di poterle far toccare con mano che il concetto di cau- 


93 David Hume , W 2/1, 56; trad. it., p. 118. 



64 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


salità è un concetto necessario, un concetto fondamentale, e che la legge del- 
la connessione causale è una legge fondamentale che domina necessariamen- 
te l’intera sfera della natura» 94 . 

L’oggetto della ricerca è così chiaramente stabilito: si tratta di co- 
gliere la funzione costitutiva, e con ciò necessaria, della causalità per 
tutti gli enti che accadono nell’esperienza. La controparte logica di 
tale risultato è che tale concetto è allora un concetto necessario. Per 
entrambi questi aspetti, l’indagine mira dunque ad una comprensio- 
ne trascendentale delle categorie: da un lato, in quanto si tratta di co- 
glierle come determinazioni costitutive degli enti (assimilandosi in 
certo modo in tal senso al “trascendentale” nel senso oggettivo clas- 
sico); d’altro lato, in quanto si tratta di coglierle come concetti che 
strutturano in maniera necessaria l’esperienza (“trascendentale” in 
senso moderno, soggettivo). I concetti esaminati sono in particolare, 
secondo la successione in cui essi sono derivati: l’estensione, la so- 
stanzialità, la temporalità. 

1. Estensione 

«Alla coscienza dell’uomo (mi permetto di aggiungere, alla coscienza di ogni 
essere finito) è necessaria, oltre alla cosa che sente, anche una cosa reale, che 
viene sentita. Noi dobbiamo distinguerci da qualche cosa. Eccovi dunque 
due cose reali l’una fuori dell’altra, o, in una parola, un dualismo. Là dove 
due esseri creati, l'uno estraneo all'altro, stanno reciprocamente di fronte in 

94 Ibidem , 57 ; trad. it., pp. 118-119. L’autore dichiara di essersi ispirato per la sua 
concezione realistica delle categorie ad alcuni passaggi dell 'Ethica di Spinoza: 
«Questa deduzione dei concetti e principi apriori o universali e necessari mi fu for- 
nita, almeno nelle sue linee principali dall’Etica di Spinoza (...) La contrappongo alla 
deduzione kantiana delle categorie, in base alla quale questi concetti e giudizi de- 
rivano da un intelletto puro in se stesso perfetto, he si limita a tramsettere alla 
natura il meccanismo del suo pensiero, solo in se stesso fondato, e e pertanto compie 
un mero gioco logico, che non soddisfa per nulla l’intelletto umano, anzi lo dileggia, 
come accade in Hume» (David Hume, W 2/1, 61 in nota; trad. it., p. 159). Jacobi si 
riferisce in particolare alla concezione delle “notiones communes” ossia delle pro- 
prietà fondamentali dei corpi, che per il filosofo olandese si distinguevano per la 
loro adeguatezza rispetto alla conoscenza universale o astratta. Cfr. “Ethica” in 
Spinoza Opera , Bd. Il, Winters, Heidelberg 1925, prop. XL, schol. I, p. 120 e ss. Più 
oltre, egli ricondurrà tale adeguatezza al fondo materialistico della stessa concezione 
spinoziana e in generale alla perfetta disponibilità delle nozioni logiche, matem- 
atiche e fisiche (sensibilia communio ) rispetto alla capacità d’intuizione e mani- 
polazione dell’immaginazione e dell’intelletto: cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 
248, 250; Sulle cose divine, W 3, 78, 121. 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


65 


tale rapporto che l’uno opera sull’altro, qui c’è un essere esteso (...) e, ben 
s’intende, non soltanto idealmente, ma effettivamente (nicht blos idealisch 
sondern ivirklich)» 5 . 

Il punto di partenza è assunto nella stessa situazione della co- 
scienza nella sua prima apertura al mondo. Questa situazione implica 
la distinzione e connessione del soggetto con una realtà ad esso ester- 
na. La relazione conoscitiva è, infatti, subito caratterizzata come una 
relazione reale, di tipo causale, il che comporta la distinzione reale 
tra due termini correlati. L’estensione non è dunque, in tale prospet- 
tiva, un principio soggettivo o un oggetto della coscienza, che debba 
esser eventualmente giustificato nella sua validità reale, ma è valida 
necessariamente in quanto rappresenta una condizione della stessa 
coscienza. 

2. Sostanzialità 

«Noi sentiamo che gli elementi molteplici del nostro essere si ricollegano 
tutti in una unità pura, che chiamiamo il nostro Io. Quello che in un essere è 
inseparabile, costituisce la sua individualità, o ne fa una totalità reale (...) 
L’arte umana non è in grado di produrre individui né una qualsiasi totalità 
reale. Può soltanto riunirli, in modo che scaturisca dalle parti il tutto, ma 
non già in modo da derivare le parti dal tutto. Del resto, la unità a cui l’arte 
dà vita, è un’unità puramente ideale; non risiede nella stessa cosa prodotta, 
ma al di fuori di essa, nella finalità e nell’intendimento dell’artista» 96 . 

La molteplicità dell’estensione, prima rilevata, è ora raccolta in ri- 
ferimento ad un principio di unità. L’analisi prosegue sempre sul ter- 
reno della coscienza. L’autocoscienza presenta l’essere del soggetto 
come una sintesi della molteplicità, non arbitraria o accidentale ma 
essenziale. L’unità espressa nell’autocoscienza, l’io, non corrisponde 
ad un criterio soggettivo di sintesi, come l’io trascendentale di Kant, 
ma ad un principio reale. L’unità caratteristica del vivente, dapprima 
rilevata nella stessa autocoscienza, serve ora da modello per concepi- 
re in generale l’individualità significata nella categoria di sostanza. La 
molteplicità materiale e funzionale del vivente appartiene all’unità di 
una medesima realtà, deriva in certo modo da essa. Nel corpo viven- 
te, infatti, le parti si corrispondono intrinsecamente. Nell’artefatto 

95 Ibidem , 57; trad. it., p. 119. 

96 Ibidem, 58; trad. it., pp. 119-120. 



66 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


invece, l’unità non è originaria ma è derivata, per aggiunzione. L’uni- 
tà interna della sostanza si distingue, dunque, dalla unità relativa di 
quanto può essere prodotto. 

3. Temporalità 

«La conseguenza immediata dell’impenetrabilità, quando due esseri si tocca- 
no, si chiama resistenza. Dove vi è contatto, ci è anche impenetrabilità da 
entrambe le parti, e quindi vi è anche una resistenza. Diciamo: azione e rea- 
zione. La resistenza nello spazio, cioè l’azione e la reazione, è la fonte della 
successione; e quindi del tempo che è la rappresentazione della 
successione» 97 . 

La cognizione del tempo è così ricondotta alla struttura elementa- 
re del movimento, cioè della causalità, come questa si dà nell’espe- 
rienza soggettiva. La successione richiede un’alterità, e questa dà 
prova della propria reale esistenza nell’attiva resistenza che la nostra 
azione trova appena deve dispiegarsi nello spazio. Il tempo è dunque 
concepito, reciprocamente con lo spazio, come una relazione costitu- 
tiva inerente ad un universo di sostanze intrinsecamente attive. E no- 
tevole che Fichte abbia sviluppato poi diversi aspetti della deduzione 
delle categorie qui abbozzata, come riconosce Jacobi nei suoi appun- 
ti di lettura sulla Dottrina della scienza e com’è, in effetti, riconosci- 
bile in diversi luoghi dell’opera di Fichte 98 . 

Il testo prosegue tirando le somme della precedente trattazione 
sulle categorie: se queste debbono avere validità conoscitiva, debbo- 
no allora essere rilevate nello stesso tessuto dell’esperienza. Esse co- 
stituiscono sì, il prius dell’esperienza, cioè la struttura intelligibile 
dell’esperienza sensibile, come voleva Kant; ma non potrebbero es- 
serlo se esse fossero originariamente indipendenti dallo stesso conte- 
nuto dell’esperienza sensibile. In tal caso, la conoscenza che ne risul- 
ta sarebbe inevitabilmente soggettiva. A questo punto la critica di Ja- 
cobi a Kant si concentra sulla stessa concezione della sensibilità, cioè 
alla base della sistematica della Critica della ragion pura : egli rivendi- 
ca la portata intenzionale della sensibilità, poiché se mancasse questo 

97 Ibidem, 59; trad. it., p. 120. 

98 Cfr. Fichte, Wissensfatslehre ‘nova methodo , GA IV/2 (ed. Halle), 221; I. 
Radrizzani, La confrontation entre jacobi et Fichte a la lumiere des Denkbucher, 
«Archives de Philosophie» 62/3 (1999), pp. 473-473. 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


67 


basilare contatto con la realtà, il soggetto rimarrebbe per sempre 
chiuso in se stesso (“come un’ostrica”); tale contatto non potrebbe 
essere ripristinato da una funzione superiore, come l’intelletto, ché, 
anzi esso rimarrebbe condizionato da tale iniziale chiusura (parafra- 
sando Kant, l’intelletto rimarrebbe non solo vuoto ma anch’esso cie- 
co). Più profondamente, «con tali sensi e con tale intelletto», dice Ja- 
cobi, «io non so proprio come vivere». 

Si noti come il problema conoscitivo sia a questo punto riguarda- 
to e verificato alla luce di un’istanza non già semplicemente logica, 
ma ontologica, nel peculiare senso esistenziale in cui il filosofo di 
Dusseldorf la intende. Si tratta di una sorta di prova per assurdo, ma 
non per autocontraddizione logica, cioè in relazione al contenuto 
della tesi proposta ( dictum ), ma pragmatica, cioè in relazione allo 
stesso soggetto che la sostiene. Il fenomenismo che sembra salvare il 
soggetto dalla costrizione della necessità, poiché ne fa un’istanza as- 
soluta in rapporto alla relatività di tutti i fenomeni, finisce, in realtà, 
per avvolgere lo stesso soggetto. 

In questo passo appare già chiaramente la problematizzazione del 
nichilismo sviluppata poi, come vedremo, in maniera ben più recisa 
nella Lettera a Fichte. 

«Io sono ogni cosa, e fuori di me propriamente parlando non vi è nulla. Ep- 
pure io, per tutto quello che sono, non sono alla fine che una vuota illusione 
di qualche cosa, la forma di una forma, nient’altro che un fantasma come 
tutte le altre apparenze che chiamo cose, come la natura tutta, il suo ordine, 
le sue leggi. Proprio un tale sistema deve essere esaltato ad alta e unanime 
voce come se si trattasse della salvezza da lungo attesa, che doveva giungere 
nel mondo?» 99 . 

Questo per la pars denstruens. La pars construens, come accenna- 
to, consiste in una teoria della sensibilità capace di articolare questa 
in maniera armonica, non estrinseca, con la ragione. I sensi debbono 
poter garantire il primo, fondamentale contatto con la realtà; ma è la 
ragione a dover discernere in questo dato originario, l’essere come 
tale. 

L’argomentazione di Jacobi procede in tal maniera: la ragione, se 
deve avere capacità conoscitiva, non solo si deve articolare con i sen- 


99 David Hume , W 2/1, 61; trad. it., p. 122. 



68 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


si, ma deve avere essa stessa una struttura simile alla sensibilità. Ora, 
la struttura della sensibilità è composta da un elemento passivo, la 
sensazione, la quale garantisce il materiale di conoscenza, ed una 
funzione invece attiva, che “legge ed interpreta” il dato. Viene in tal 
modo esclusa dalla conoscenza umana una pura passività ed una 
pura attività. Tutto ciò, inoltre, si radica nella stessa struttura del- 
l’uomo come essere sì razionale ma, anche, corporeo, sensibile. In 
sintesi, «la spontaneità dell’uomo corrisponde alla sua ricettività». 

La prova della tesi è fornita, ancora una volta, da un esame lingui- 
stico: l’osservazione della ricorrenza nel linguaggio ordinario (nel te- 
desco del 700, ma verificabile anche oggi e per altre lingue) di Sititi, 
“senso”, e di diversi termini composti per significare funzioni cono- 
scitive non già contrarie, ma evidentemente travalicanti l’ambito pu- 
ramente sensibile. Ad esempio, insensatezza ( Unsinn ), la profondità 
0 Tiefsinn ), e altri. Potremmo aggiungere, la sensibilità per l’arte, il 
senso morale, etc.; si usa dire una “persona sensibile”, etc.: tutti que- 
sti termini alludono ad una penetrazione intelligente della realtà, ma 
non per la via dell’astrazione, né per esclusione del contributo dei 
sensi. 

L’accesso alla realtà si deve, dunque, ad un intimo collegamento 
di ragione e senso. In tal modo, la ragione non rimane estranea ma, 
per così dire, “circola” all’interno della stessa vita sensibile. Un’ulte- 
riore verifica della tesi procede dall’esame da un fenomeno di base: 
lo stato di veglia. Lo stato di veglia come tale, testimonia dell’unità 
non accidentale di vita e coscienza, perciò, nell’uomo, di vita e ragio- 
ne. La vita desta suppone una presenza intelligente del soggetto a se 
stesso e nell’azione con cui esso viene in contatto con il mondo. Ora, 
lo stato di veglia si basa sul contatto elementare con la realtà garanti- 
to dai sensi, senza il quale la ragione potrebbe per ipotesi procedere 
autonomamente nella figurazione di un mondo possibile; ma tutto 
ciò non sarebbe sostanzialmente diverso da un sogno. La ragione in 
tale differenza immediata tra la veglia e il sogno attinge il senso del 
reale. 

La conclusione viene poi riportata in termini generali al rapporto 
tra rappresentazione e realtà. In generale, la funzione del giudizio 
presuppone alla costruzione ed espressione del suo contenuto pro- 
posizionale (ad esempio, “questo tavolo è marrone”) una verifica 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


69 


della portata ontologica delle rappresentazioni di cui esso si compo- 
ne (“tavolo”, “questo tavolo”, “marrone”). Ci dev’essere, perciò, una 
funzione capace di attraversare l’ambito della rappresentazione. Al- 
trimenti, la verifica sarebbe solo immanente, per derivazione e coe- 
renza con altri giudizi e così via all’infinito, senza poter giungere mai 
ad un’istanza che, per così dire, verifichi se stessa. Le rappresentazio- 
ni (concetti e proposizioni), come tali, significano delle descrizioni o 
dei predicati universali, che debbono infine inerire ad un soggetto 
concreto che dia prova immediata del proprio essere e del proprio 
esser così qualificato. 

In sintesi, ogni mediazione concettuale o discorsiva deve appog- 
giarsi su di una rivelazione originaria della realtà. Ma questa dev’es- 
sere accessibile ad una funzione sì razionale, in quanto attinge un 
elemento intelligibile, ma non astrattiva, bensì insistente sul princi- 
pio di ogni concretezza, l’essere. In tal senso, la ragione dev’essere 
capace di una sorta di “percezione” della realtà in quanto tale. 

«Nella percezione della realtà deve esservi qualcosa che non si trova nelle 
mere rappresentazioni, altrimenti non si potrebbero distinguere luna dalle 
altre. Ma questa distinzione riguarda proprio la realtà. In conclusione nella 
mera rappresentazione non può rivelarsi la realtà stessa, l’oggettività (Also 
kann in der biofi Vorstellung das Wirkliche selbst, die Objectivitàt, nie darge- 
stellt werden)(...) Io voglio dire che le rappresentazioni non possono mai ri- 
velare la realtà in quanto tale. Esse contengono soltanto le proprietà delle 
cose reali, non la realtà stessa» 100 . 

Il principio appena formulato non è inteso garantire una cono- 
scenza esaustiva della realtà, nel suo contenuto oggettivo (“essere” in 
senso essenziale ed estensivo), quanto l’assicurazione delle condizio- 
ni necessarie di ogni conoscenza, perché riferentesi agli aspetti tra- 
scendentali della realtà (“essere” in senso esistenziale). L’essere in 
quanto è un principio, si deve manifestare da sé. Ciò vale, aggiunge 
Jacobi, anche per le altre dimensioni trascendentali del reale, come la 
coscienza, la vita, la verità, le quali, come egli qui sottolinea, sono in- 
timamente interconnesse. 

La realtà non può essere rivelata se non dalla percezione immediata, allo 
stesso modo che la coscienza non può esser rivelata che dalla coscienza, la 


100 Ibidem , 69; trad. it., p. 128. 



70 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


verità dalla verità. La percezione della realtà e il sentimento della verità, la 
coscienza e la vita, sono la medesima e identica cosa» 101 . 

Come vedremo più avanti, l’idea di una rivelazione immediata 
come principio manifestatesi ad una funzione intuitiva, piacque mol- 
to a Fichte e a Schelling, che svilupparono di qui la loro dottrina del- 
l’intuizione intellettuale 102 . D’altra parte, essi ne restrinsero l’ambito 
di applicazione, cioè la struttura di vita, coscienza e ragione, attri- 
buendo la vita (come realtà automanifestantesi, intrinsecamente ri- 
flessa ed attiva) alla sola ragione. 

4. Una prova per assurdo: La “Lettera a Fichte” (1799) 

In una lettera del 1799 dapprima inviata a Fichte e poi pubblicata 
con degli allegati Jacobi doveva rispondere ad una sollecitazione 
proveniente dallo stesso autore della Dottrina della scienza per un 
giudizio complessivo sulla propria opera 10 ’. Tale richiesta si era poi 
trasformata in un’accorata petizione ad intervenire nell’accusa di 
ateismo che un suo articolo del 1798 aveva sollevato e che lo costrin- 
se a lasciare la sua cattedra a Jena (cfr. Sul fondamento della nostra 
fede in un governo divino del mondo). Jacobi vi si sentiva, altresì, co- 
stretto dal fatto che lo stesso Fichte ed il suo giovane collaboratore, 
Schelling, non perdevano occasione per citare l’opera del Nostro per 
rilevare concordanze di fondo, pur essendo consapevoli della diversi- 
tà delle loro impostazioni. 

A questa genesi complessa corrisponde l’articolata finalità del 
breve scritto: esso doveva difendere Fichte dall’accusa di ateismo ed 
esprimere un giudizio generale sulla sua opera. Inoltre, per far ciò Ja- 
cobi approfitta dell’occasione polemica per esporre in maniera sinte- 
tica il proprio pensiero, almeno nei suoi punti fondamentali. Vi è 
poi, sottotraccia, una motivazione ulteriore: confermare il proprio 
giudizio sulla filosofia di Kant formulato dodici anni prima ( Sull’i - 

101 Ibidem. 

102 Cfr. infra , capitolo 3, § 2. 

103 Ci occuperemo in maniera speciale della Lettera a Fichte nel capitolo 5. Perciò, 
anticipiamo qui soltanto alcuni aspetti generali. Per l’analisi dettagliata di questo te- 
sto ci permettiamo di rinviare all’introduzione e al commento che accompagna la 
nostra traduzione (Introduzione di M. Ivaldo, traduzione e commento di A. Acerbi): 
cfr. F.H. Jacobi, Lettera a Fichte (1799), Bompiani, Milano (in corso di stampa). 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


71 


c lealismo trascendentale, 1787), attraverso la dimostrazione della coe- 
renza di Fichte con le sue premesse kantiane. La linea della critica a 
Fichte sviluppata corrisponde, infatti, alla critica che Jacobi rivolge 
nel David Hume al concetto kantiano di ragion pura. Ma se là l’idea- 
lismo trascendentale era criticato per i suoi possibili esiti dissolutori 
del senso del reale, per l’incerto statuto della cosa in sé nella Critica 
della ragion pura, ora, dinanzi ad un idealismo che fa interamente a 
meno di questo concetto, esso è direttamente stigmatizzato di nichili- 
smo. E questo infatti, come abbiamo già ricordato, il primo testo in 
cui il termine appare associato alla problematica filosofica generale 
ch’esso, particolarmente a partire da Nietzsche, sottintende. 

L’idealismo di Fichte consiste, secondo Jacobi, nella completa ri- 
duzione della cosa in sé, alla sua forma a priori, senza più il residuo 
legame ad essa che ancora sussisteva in Kant. La cosa è ora intera- 
mente appropriata e con ciò risolta nella sua rappresentazione. La 
ragione, se è una funzione percettiva (precisamente, come “intuizio- 
ne intellettuale”), in quanto è veramente pura, percepisce soltanto se 
stessa. 

«La ragion pura è un percepire ( Vernehmen ) che è solo un autopercepire, 
ossia la ragion pura percepisce solo se stessa. 11 filosofare della ragion pura 
dev’essere pertanto un processo chimico in virtù del quale tutto quanto è 
fuori di essa viene annientatati, lasciando sussistere essa soltanto» 104 . 

La realtà è dunque ridotta alla sua immanenza nell’attività rappre- 
sentativa-costruttiva del soggetto. Ma ecco il passaggio successivo, 
precisamente come nel destino del fenomenismo già precedentemen- 
te disegnato nel David Hume : «Uno spirito così puro che, in tale pu- 
rezza, non può nemmeno esistere ma solo produrre tutto». Il princi- 
pio generale che presiede a tale operazione è il seguente: «L’uomo 
infatti conosce solo concependo ( begreift : “concettualizza”) e conce- 
pisce solo in quanto, tramutando la cosa in semplice forma, riduce la 
forma a cosa e la cosa (come per sé sussistente) a nulla» 105 . 

L’esito di questo principio è dunque da un lato il “nichilismo”, 
come dissoluzione della consistenza veritativa della realtà manifesta 
nell’esperienza; d’altro lato, il soggetto è dissolto nella sua consisten- 

104 Lettera a Fichte, W 2/1, 201; trad. it., p. 41. 

105 Ibidem. 



72 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


za ontologica di persona, per ridursi alla funzione universale del pen- 
siero, ad un io trascendentale, la cui contraddittorietà Jacobi esprime 
nella formula equivalente di una “personalità impersonale”, di una 
“egoità senza sé”. 

La parte centrale della Lettera a Fichte è occupata da un’esposi- 
zione positiva del concetto di ragione che il Nostro oppone all’ideali- 
smo. La ragione è nuovamente caratterizzata come una funzione per- 
cettiva, ma riferentesi ad una verità materiale, trascendente l’ambito 
immanente della propria attività. In tal senso essa non attinge sem- 
plicemente la “verità” ( die Wahrheit), ossia la forma soggettiva di 
ogni sapere, ma il “vero” ( das Wahre), ossia il suo reale contenuto. 
La fondazione del sapere non si trova dunque, secondo Jacobi, come 
per Fichte, nella riflessione sulla struttura del sapere ma in un’istanza 
che trascende lo stesso sapere. 

«Io concepisco il vero come qualcosa che è prima (vor) e fuori (aujier) del 
sapere, come ciò che unicamente dà valore al sapere e alla facoltà del sapere, 
alla ragione. Il percepire presuppone il percepibile, la ragione il vero: è la fa- 
coltà di presupporre il vero. Una ragione che non presupponesse il vero sa- 
rebbe un assurdo» 106 . 

Si badi, la ragione presuppone sì il vero in senso strutturale: è, 
cioè, questa, oggettivamente, la sua situazione fondamentale: «la ra- 
gione ha il vero prima ( vor ) di sé». Ma è anche questo il contenuto e 
lo scopo della sua funzione cognitiva, il rilevare riflessivamente tale 
antecedenza fondativa del vero: essa è «la facoltà della presupposi- 
zione del vero {das Vermògen der Voraussetzung des Wahren)». 

Di nuovo, il riferimento al vero da parte della ragione non assicu- 
ra l’intero contenuto informativo della conoscenza, un dispiegamen- 
to immediato della realtà davanti a noi senza alcuna fatica (questo 
era l’essenziale della critica rivolta da Kant a Jacobi, e che sarà nuo- 
vamente ripreso da Hegel), ma assicura, invece, il riferimento fonda- 
mentale del pensiero all’essere. Tale riferimento non ha natura con- 
cettuale e discorsiva ed è perciò indicato in una sorta di affezione o 
sentimento del reale: il presentimento {Ahndung). 

«Essa [la ragione nel “presentimento”] s’indirizza esclusivamente a quanto è 
celato nei fenomeni, al loro significato, all’essere (auf das unter den Erschei- 


106 Ibidem, 208; trad. it., p. 51. 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


73 


nungen Verborgene, auf ih re Bedeutung gerichtet; auf das Seyn) che offre solo 
una parvenza di sé ma che deve trasparire nelle apparenze se queste non 
debbono essere puri fantasmi, apparenze di nulla» 10 '. 

Come risulta dagli sviluppi successivi, è questa funzione percetti- 
va della ragione ad assicurare la distinzione assoluta, irriducibile, tra 
l’essere e il non essere, tra la veglia e il sogno, perciò la verifica della 
portata veritativa delle formazioni logiche. Ed è precisamente tale 
funzione da cui, secondo Jacobi, dipende l’affermazione del reali- 
smo. 

5. La ricerca di una sintesi di intelletto e ragione: “Introduzione 
generale” (1815) 

a) L’ultimo confronto con Kant 

La nuova, definitiva Introduzione di Jacobi al David Hume nell’am- 
bito dell’edizione completa delle sue opere (1815) è l’occasione per 
un rendiconto generale. Interessante è il contesto: che cioè, per deli- 
neare i tratti essenziali della propria filosofia, come si erano andati 
fino ad allora configurando, egli si riallacci ai temi del David Hume e 
al confronto colà istituito con Kant. Di qui si può notare ancora l’im- 
portanza affatto speciale che l’autore della Critica della ragion pura 
riveste nel complesso della riflessione jacobiana. Di fatto, la lunga in- 
troduzione è un confronto prolungato della posizione del filosofo, 
ormai giunta alla sua più matura e consapevole espressione, con la 
posizione del fondatore del criticismo; più precisamente, è una nuo- 
va, più organica formulazione di quella critica all’idealismo trascen- 
dentale in cui consisteva un motivo fondamentale della sua filosofia. 

Ecco un primo punto iniziale, in cui Jacobi riformula in maniera 
particolarmente efficace il nucleo della sua critica. 

«Non doveva esser vero che esistesse un sapere di prima mano, il quale fosse 
la sola condizione del sapere di seconda mano (la scienza), un sapere che 
non avesse bisogno di prove, e che, anzi, costituisse il presupposto necessa- 


107 Ibidem. 



74 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


rio, il fondamento, la guida continua e radicale del sapere fondato su 

prove» 108 . 

Si noti l’insistenza sul profilo epistemologico del Glaube : esso 
deve garantire un sapere originario (“di prima mano”), e ciò come 
implicazione logica del pensiero: “presupposto necessario”, “fonda- 
mento”. Più profondamente, egli rileva la caratteristica non esclusi- 
vamente logica ma operativa del fondamento: esso non sta semplice- 
mente all’inizio, come una premessa, ma essa, o meglio il suo conte- 
nuto, accompagna ogni passo del sapere, come un’istanza sempre in 
certo modo presente: come “guida costante”. La ragione assiste dal- 
l’alto, “illumina”, l’intelletto nella costruzione della “scienza”. Preci- 
samente questa sintesi di intelletto e ragione rappresenta uno dei 
temi principali, se non forse la novità più notevole presente nell’inte- 
ra Introduzione generale. 

In tal modo Jacobi cerca di rispondere alle critiche che aveva rice- 
vuto a tale riguardo, ad esempio da parte di Kant, di Fichte e di He- 
gel, circa l’estrinsecità con cui egli avrebbe concepito il loro rapporto 
e al carattere per così dire “aristocratico” del suo pensiero, quasi che 
la sublimità delle visioni della ragione potesse dispensare dalla neces- 
sità della scienza, e per ciò che lo riguardava direttamente, di dare 
forma sistematica al proprio pensiero. Nella tematizzazione di questo 
problema sembra aver avuto una parte importante anche un autore 
che per molti versi si avvicinava alla posizione di Jacobi, e che aveva 
tentato una riformulazione sistematica del criticismo in chiave antro- 
pologica, Jacob Fries (t 1843). 

b) Il rapporto di intelletto e ragione 

Pur nella generale coerenza che Jacobi attribuisce allo svolgimento 
del proprio pensiero, alla fine egli riconosce un’ambiguità che più di 
altre egli si sente ora nella necessità di chiarire: 1) il rapporto logico 
di intelletto e ragione, cioè l’ambiguità del loro significato; 2) il loro 
rapporto funzionale, cioè l’integrazione delle rispettive operazioni. 
Quanto al primo punto, l’ambiguità del significato di ragione ed in- 

108 «[...] ein Wissen ohne Beweise, welches dem Wissen aus Beweisen nothwendig 
vorausgehe, es begriinde, es fortwàhrend und durchaus beherrsche» (Introduzione 
generale , W 2/1, 375; trad. it., pp. 5-6). 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


75 


telletto, è da ricordare che, se c’è una correzione costante dei testi 
nell’edizione finale delle opere da parte dello stesso Jacobi, questa 
concerne proprio l’uso di questi termini. 

«Quello che l’autore si trova a ridire nel dialogo Idealismo e realismo, consi- 
derato come lavoro giovanile, consiste nel fatto che in esso non è svolta la di- 
stinzione con quella acutezza e quella precisione che si riscontra negli scritti 
posteriori. Sino a che questa distinzione non fu chiarita, egli rimase da se 
stesso impigliato nella duplice accezione della parola “ragione”, che dovette 
prima di ogni altra cosa necessariamente eliminare per raggiungere il pro- 
prio scopo; né potè dare un sostegno propriamente filosofico alla sua dottri- 
na fondamentale, secondo la quale la forza della fede si eleva al di sopra del- 
la facoltà della scienza dimostrativa» 109 . 

Come si vede, l’urgenza di far chiarezza nell’uso dei termini deri- 
va dal fatto che la loro ambiguità, infine una lacunosa definizione 
della ragione, inficia la comprensione della valenza propriamente fi- 
losofica, o più precisamente epistemologica del Glaube. Più avanti 
egli si affretta infatti a mostrare la finale coincidenza di ragione e 
“fede”, come tra la facoltà e la rispettiva operazione. 

«Seguendo i filosofi a lui contemporanei, chiamava “ragione” ciò che non è 
ragione, vale a dire la pura e semplice facoltà dei concetti, dei giudizi e dei 
sillogismi (...) Ma quello che la ragione è realmente e veramente, cioè la fa- 
coltà che presuppone il vero, il buono e il bello in sé, con la piena sicurezza 
che questo presupposto abbia una validità oggettiva, egli attribuiva il nome 
di fede, considerata come una facoltà superiore alla ragione: il che diede oc- 
casione al perpetuarsi d’infelici errori» 110 . 

L’inciampo ingenerato dalla mancata distinzione dei termini è che 
se il Glaube poteva essere sì superiore alla ragione nella sua funzione 
rappresentativa e discorsiva, cioè come intelletto ( Verstand ), ma non 
poteva esserlo nei confronti della ragione nella sua funzione intuitiva 
e principiale, cioè come Vernunft, precisamente perché Glaube e 
Vernunft da questo punto di vista coincidevano del tutto. 

Quanto al secondo punto, la sintesi operativa di intelletto e ragio- 
ne, nell ’ Introduzione generale troviamo affermato, almeno quanto 
mai prima così decisamente, la loro mutua dipendenza. Anzi, di con- 


109 Ibidem, W 2/1, 377; trad. it., p. 8. 

110 Ibidem, 378; trad. it., p. 10. 



76 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


tro alla precedentemente piuttosto insistita funzione indipendente ed 
egemonica della ragione, egli sottolinea adesso la necessità per la ra- 
gione di articolarsi con rintelletto per garantire il proprio stesso con- 
tenuto. Non è questa una novità in senso assoluto; già nella Lettera a 
Fichte , si poteva vedere il disegno di una tale articolazione; nell’Ap- 
pendice VII alla Dottrina di Spinoza e nel secondo scritto allegato 
alla stessa Lettera a Fichte, Jacobi individuava la singolare posizione 
della coscienza al punto di intersezione degli estremi del reale, in 
corrispondenza alle due diverse funzioni della ragione: il condiziona- 
to e l’incondizionato, il temporale e l’eterno, natura e libertà, e così 
via 111 . In tal senso vi si legge: 

«Al di sopra dell’intelletto e della volontà illuminati dalla ragione (der Ver- 
nunft erleuchteten Verstande und Willen), non vi è nulla nell’uomo: neppure 
la ragione stessa. Infatti la coscienza della ragione e delle sue rivelazioni è 
possibile soltanto in un intelletto. Con questa coscienza un’anima vivente di- 
venta un essere razionale, cioè un essere umano» 112 . 

La coscienza umana è riguardata come questa sintesi, dove il 
lume supremo della ragione per poter essere scorto deve essere in 
certo modo recepito ed assimilato dall’intelletto (e dalla volontà). Si 
badi, tale congiunzione con l’intelletto è dichiarata come essenziale 
alla ragione perché il suo contenuto e la sua attività possano essere 
manifestati ad una coscienza finita, com’è quella umana. Infatti, l’in- 
telletto, come funzione delle relazioni, è necessario per poter discer- 
nere il materiale offerto dalle due funzioni percettive: la prima, la 
sensibilità; la seconda, appunto, la ragione. Lo stesso materiale intel- 
ligibile, il contenuto della ragione, se ne deve poter essere appropria- 
to dev’esser analizzato ed elaborato daH’intelletto. 

La domanda che ora si può porre, anche in vista della successiva 
indagine, è la seguente: la sintesi di intelletto e ragione sostenuta nel 
rendiconto generale del proprio pensiero, V Introduzione generale del 
1815, costituisce una novità, una dichiarazione d’intenti o risponde 
all’effettivo contenuto della filosofia di Jacobi? E se sì, in che misura 
essa è coerente ed effettivamente svolta? 


111 Cfr. Lettera a Fichte , W 2/1, 232 in nota. 

112 Introduzione generale, W 2/1, 378; trad. it., p. 9. 



B.Lettura di alcuni testi esemplari 


77 


Come si è già visto, non si tratta di una novità assoluta, almeno 
quanto alla necessità di una sintesi, seppure risulti nuova l’afferma- 
zione di una dipendenza della ragione jacobiamente intesa, cioè 
come originariamente offerente, nei confronti dell’intelletto. In ogni 
caso, la sintesi d’intelletto e ragione, perciò di concetto e intuizione, 
sostenuta ora da Jacobi, per quanto non contraddittoria, sembra tut- 
tavia piuttosto dichiarata che svolta. Infatti, data la costante, marcata 
contrapposizione con cui Jacobi descrive le caratteristiche intenzio- 
nali dell’intelletto e della ragione, non risulta infine chiaro in che 
modo tali funzioni possano ricomporsi nell’unitaria costituzione del 
sapere. Ancora, nella sua opera è sì talora accennata, ma non è mai 
definitivamente chiarita e sembra anzi, in generale, piuttosto com- 
promessa la possibilità di un lavoro dell’intelletto, ossia di una con- 
cettualità non già meramente costruttiva ma rivelativa, perciò capace 
d’interpretare positivamente il dato così della sensibilità come della 
ragione. Pure, precisamente in tal senso sembrava procedere l’inda- 
gine sulle categorie svolta nel David Hume m . Del resto, se, come Ja- 
cobi ammette, l’intelletto è l’organo dell’autocoscienza, quella lacuna 
investe direttamente la consapevolezza e la coerenza metodologica 
della sua filosofia. L’ambito dell’intelletto, il “fenomeno”, parrebbe 
infine per Jacobi piuttosto trasceso che davvero assimilato, quale me- 
dio essenziale nella conoscenza del vero. 

Conclusione 

Dalla esposizione fatta si può trarre, seppure rapidamente, una pri- 
ma valutazione. A tale proposito, vale la pena considerare alcune tra 
le critiche più significative, quella di Hegel e quella di Cassirer (a), 
ed alcune tra le lacune più comunemente rilevate nella letteratura: 
l’asistematicità (b), il carattere occasionale e prevalentemente pole- 
mico del suo pensiero (c), l’unilaterale svalutazione della conoscenza 
astrattiva, ciò che Jacobi chiamava “il sapere” (c). 

a) E. Cassirer (f 1945) nella sua storia della filosofia moderna so- 
stiene che l’importanza di Jacobi sia consistita piuttosto nella sua 

113 Di particolare interesse a tale riguardo il confronto dell’ultimo Schelling, della 
filosofia positiva, con questi punti, in un rinnovato confronto con Jacobi: cfr. C. 
Ciancio, Il dialogo polemico tra Schelling e Jacobi, Edizioni di Filosofia, Torino 1975. 



78 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


opera di animatore, come suscitatore di problemi nuovi, di critiche 
acute, come quelle rivolte a Kant, che non per la validità delle sue so- 
luzioni. Jacobi avrebbe suscitato delle potenze più grandi di lui. La 
filosofia della fede, contrapposta ai paradossi del razionalismo, sa- 
rebbe infine una filosofia fideistica, perciò l’evasione piuttosto che la 
risposta ad un problema. Analogamente Hegel, pur correggendo in 
vari aspetti la sua prima, decisa critica formulata in Fede e ragione 
(1803), l’essere cioè la filosofia di Jacobi una sorta peculiare di fidei- 
smo e di soggettivismo, nelle più tarde Lezioni di storia della filosofia 
(pubblicate postume, 1833 -), conferma la sua critica del Glaube, al- 
meno per l’uso indiscriminato che Jacobi ne avrebbe fatto per assicu- 
rare in maniera immediata la realtà di ogni contenuto di pensiero, in- 
dipendentemente da ogni mediazione razionale 114 . 

A tali critiche, si potrebbe rispondere facendo osservare il signifi- 
cato e la funzione specifica del Glaube, come l’abbiamo rilevata: l’es- 
sere cioè questa l’operazione propria della ragione in relazione ai 
suoi oggetti. Essa assicura non già l’intero contenuto di ogni oggetto 
del sapere, in tal modo sostituendosi all’opera dell’intelletto, ma i 
principi e le dimensioni strutturali dell’esperienza umana. Ora, la 
forza della tesi di Jacobi risulta, dal quadro presentato, nella connes- 
sione di questa tesi epistemica ad una precisa ontologia in cui emerge 
la differenza qualitativa tra concetto ed esistenza. È cioè lo stesso 
contenuto ontologico dei principi, in quanto l’esistenza è un dato 
originario, irriducibile al concetto, a richiedere una modalità di co- 
noscenza peculiare e differente: una conoscenza di carattere non già 
discorsivo ma intuitivo. 

b) Mancanza di sistematicità. Se per “sistema” s’intende ciò che 
serve a chiarire e giustificare un corpo di idee nell’unità di una dot- 
trina relativamente coerente nei suoi principi di fondo, sembra si 
possa dire che in Jacobi si trova un sistema, per quanto egli abbia 
contestato il “sistematismo” della sua epoca e per quanto la sua for- 
ma espressiva privilegiata sia quella occasionale e rapsodica della let- 
tera o del breve saggio. Se per “sistema” invece s’intende l’adeguato 

114 Cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der 
neuren Zeit , cit., Bd. Ili, p. 16; G. W. F. Hegel, “Vorlesungen iiber di Geschichte 
der Philosophie”, in Sàmtliche Werke, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Can- 
statt, Bd. Ili, 1965, pp. 535-551 



Conclusione 


79 


sviluppo logico di una tesi, pur in sé relativamente chiara e giustifica- 
ta, e la definitiva ed espressa coerenza di tutti i principi o di tutte le 
implicazioni di una tesi in una determinata teoria, nonché la coerente 
ed esplicita giustificazione della sua metodologia (di quella espressa 
e di quella di fatto praticata), risulta invece che il pensiero di Jacob i è 
in larga misura asistematico. 

c) Aspetto occasionale e polemico. E la filosofia di Jacobi sbilancia- 
ta sulla pars denstruens, senza una chiara pars construensì Certamen- 
te il contesto prevalente dell’opera di Jacobi è quello polemico: ha 
dottrina di Spinoza : critica del razionalismo, David Hume : critica di 
Kant; Lettera a Fichte : critica di Kant e di Fichte; Sulle cose divine e 
la loro rivelazione : critica di Schelling. Nondimeno il nucleo di que- 
ste opere, è anche la proposta di un pensiero originale e intenzional- 
mente alternativo. Naturalmente, tutto dipende da come quest’ulti- 
mo è apprezzato e, come è il caso dell’interpretazione del Glaube, se 
è riconosciuto il rango propriamente speculativo dei suoi concetti e 
delle sue tesi fondamentali. 

d) La svalutazione del “sapere” . Una critica ricorrente è l’unilate- 
rialità del punto di vista di Jacobi sulla natura del sapere astrattivo o 
concettuale e perciò la difficoltà di reperire nella sua opera una sin- 
tesi soddisfacente di intelletto e ragione. Da questo punto dipende 
anche la valutazione della sua dottrina del concetto e della scienza. Si 
potrebbe ad esempio osservare come la sua concezione formalistica 
del concetto presenti diversi aspetti nominalistici, che si potrebbero 
forse ascrivere alla sua giovanile frequentazione deH’empirismo fran- 
cese (ad esempio, Bonnet 115 ) o all’influsso di Hume. Non a caso la 
sua enfasi sulla funzione costruttivistica dell’intelletto gli rende addi- 
rittura possibile l’accordarsi con Fichte sulla natura idealistica della 
scienza. Tali difficoltà sembrano, in effetti, decisive per la coerenza 
del suo realismo. Nondimeno, come si può riconoscere nella conce- 
zione delle categorie presentata nel David Hume e come si può av- 
vertire nell’elaborazione finale dei suoi romanzi sotto il profilo mora- 


115 E. Herms insiste su questo punto fino a leggere l’intera filosofia di Jacobi in 
questi termini, il che risulta quanto meno unilaterale (del resto la sua analisi non 
avanza oltre la prima produzione del filosofo): cfr. Id., Selbsterkenntnis und Meta- 
physik in den philophischen Hauptschriften Friedrich Heinrich Jacobis, «Archiv fiir 
Geschichte der Philosophie» 58 (1976), pp. 123-163. 



80 


1. Introduzione. Il realismo esistenziale di Friedrich Heinrich Jacobi 


le, Jacobi sente infine l’esigenza di una sintesi tra la componente in- 
tuitiva e la componente formale della conoscenza, che tenta di risol- 
vere nel modo illustrato nell’ultima sintesi del suo pensiero, l’Intro- 
duzione generale del 1815. Ed è, forse, nel senso qui indicato che do- 
vrebbe andare uno sviluppo del suo pensiero, in accordo con la pro- 
fondità e la sorprendente attualità delle sue istanze. 



I. CONFRONTI 


Kant, Fichte, Leibniz 



82 



2. La Deduzione trascendentale delle categorie. 
Kant e Jacob i a confronto 


In questo capitolo intendiamo soffermarci sull’ontologia kantiana 
elaborata nella Deduzione trascendentale delle categorie. Com’è 
noto, la specificità di questa è nel ricondurre le forme supreme del- 
l’essere e della predicazione all’io come loro principio 116 . Tale impo- 
stazione corrisponde all’istanza del necessario radicamento del sape- 
re nella prospettiva dell’essere umano, perciò all’istanza di un appro- 
fondimento riflessivo della nozione di esperienza. Poiché quest 'ulti- 
ma include in maniera essenziale l’attività del soggetto, c’è, dunque, 
un’intima corrispondenza tra la struttura dell’essere e l’essere dello 
stesso soggetto conoscente. Se quest’intuizione attinge profonda- 
mente, come sembra, all’essenza e al concreto dinamismo del cono- 
scere, vorremmo esaminare in quale misura Kant ne abbia tratto tut- 
te le conseguenze, con particolare riguardo a una questione che, nel 
corso della sua ricerca, più di ogni altra l’ha impegnato: la fondazio- 
ne critica della metafisica. 

In tale prospettiva, risulta interessante il confronto con la tradi- 
zione nella quale il filosofo di Kònigsberg si è formato e dalla quale 
ha poi voluto distaccarsi, la tradizione leibniziana, cercando di valu- 
tare la portata dello scarto introdotto da Kant, precisamente nella 
deduzione delle categorie. A tale proposito, considereremo l’opera 
di Jacobi il quale, nel David Hume (1787), al confrontarsi con il nu- 

116 Cfr. H.J. de Vleeschauwer, La déduction trascendentale dans l’oeuvre de Kant , 
tomi II, III, De sikkel, Antwerpen 1936-1937; P.F. Strawson, The Bounds of dense. 
An Essay on Kant’s Critique of Pure Reason, Methuen, London 1966; W. Becker, 
Selbstbewufltsein und Erfahrung. Zur Kants transzendentaler Deduktion und ihrer ar- 
gumentativer Rekonstruktion , Alber, Freiburg/Miinchen 1984; D. Sacchi, Necessità 
e oggettività nell Analitica kantiana. Saggio sulla Deduzione trascendentale delle cat- 
egorie , Vita e Pensiero, Milano 1995; W. Care, “Die transzendentale Deduktion in 
der zweiten Auflage”, in G. Mohr-M. Willaschek (a cura di), Kooperativer Ram- 
mentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft , Akademie Verlag, Berlin 1998, pp. 189- 
216; A. Melnick, Kant’s Theory of thè Self Routledge, New York 2009. 



84 


2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


eleo portante della Critica della ragion pura, si riporta direttamente a 
Leibniz 117 . 

1. Assunzioni preliminari 

Nel delimitare la ricerca alle categorie di sostanza e causalità, assu- 
miamo questa ipotesi iniziale: la giustificazione della validità episte- 
mica delle categorie, la deduzione, non è indipendente dall’interpre- 
tazione del loro significato ontologico. 

Ora, la soluzione proposta da Kant nella Deduzione delle catego- 
rie consiste nella loro riconduzione alla struttura della coscienza. 
L’io è, perciò, l’ultima istanza giudicativa per decidere della validità 
delle categorie, come determinazioni universali e necessarie dell’e- 
sperienza. In primo luogo, negativamente, l’unità da esso significata 
esclude la possibilità del caos assoluto. La coscienza si comprende 
solo in relazione a un oggetto in certo modo definito. Positivamente, 
le categorie risultano come le regole in cui si articola il campo di co- 
scienza per preservare la propria unità. 

E stata notata da subito l’ambigua funzione fondativa dell’io in 
tale procedimento: l’io è presupposto come principio del conoscere, 
in quanto soggetto, sicché la struttura dell’oggetto deve in certo 
modo corrispondergli; d’altra parte, la pretesa che l’io sia, dunque, 
criterio positivo di determinazione delle categorie risulta frustrata, in 
quanto, da un lato, queste sono presupposte da Kant nel loro signifi- 
cato e nella loro funzione costitutiva, ma non dimostrate come tali 
dall’io o in relazione alla struttura dell’io (Fichte, Hegel); d’altro 
lato, esse sono giustificate non già in relazione alla struttura intelligi- 
bile dell’esperienza, comprendente sia i rapporti tra gli elementi og- 
gettivi di questa sia lo stesso rapporto del soggetto all’oggetto, ma in 
relazione a un principio, l’io trascendentale, che, in quanto autorefe - 


117 Cfr. G. Baum, Vernunft und Erkenntnis. Die Philosophie F. H. Jacobis , Bouvier, 
Bonn 1969; K. HAMMACHER,“‘Die Vernunft hat also nicht nur Vorstellungen, son- 
dern wirkliche Dinge zu Gegenstànde’. Zur nachkantischen Leibniz-Rezeption, vor- 
nehmlich bei F. H. Jacobi”, in A. Heinekamp (a cura di), Beitràge zur Wirkungs-und 
Rezeptionsgeschichte von G. W. Leibniz , Steiner, Wiesbaden 1986, pp. 213-224; W. 
Metz, “Die Objektivitat des Wissens. Jacobis Kritik an Kants theoretischer Philoso- 
phie”, in W. Jaeschke-B. Sandkaulen (a cura di), Friedrich Heinrich ]acobi. Ein 
Wendepunkt der geistigen Bildung derZeit, Meiner, Hamburg 2004, pp. 3-18. 



2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


85 


renziale e in sé affatto indeterminato, non implica anzi esclude un 
rapporto oggettivo e intenzionale definito (Jacobi). 

Si potrebbe rispondere che Kant non ha preteso affatto a una tale 
dimostrazione, in quanto l’io è da lui assunto come un criterio, non 
come un assioma, e che non c’è per lui un passaggio discorsivo tra 
l’io e le categorie poiché è precisamente la sintesi di queste a costitui- 
re lo stesso campo di coscienza descritto dall’io. Una tale risposta 
sembra indurre a una interpretazione del procedimento kantiano in 
chiave fenomenologica. C’è una corrispondenza originaria e recipro- 
ca tra l’io e le categorie, in quanto queste sono rilevate per analisi 
come le condizioni dell’esperienza di cui l’io è il soggetto. L’autoco- 
scienza è dunque vincolata alle categorie, poiché l’io non comprende 
altrimenti se stesso e il suo rapporto con il mondo. In tal senso si po- 
trebbe leggere la kantiana confutazione dell’idealismo. 

Se questa interpretazione è corretta, lasciando da parte la valuta- 
zione della misura in cui la deduzione sarebbe in tal modo soddisfat- 
ta, vi sono, tuttavia, alcuni aspetti fondanti dell’impianto trascenden- 
tale che obbligano ad alcune restrizioni, le quali comportano, come 
sembra, alcune difficoltà. L’autocomprensione dell’io nell’esperienza 
esclude in ogni caso la possibilità che le categorie si predichino del- 
l’io quale loro soggetto logico. L’io, in quanto principio o soggetto 
dell’esperienza, non è determinabile a sua volta come un oggetto di 
esperienza 118 . S’intende qui per “esperienza” il processo che dalla 
sensazione e dai principi logici dell’intelletto termina all’immagine 
(comune o scientifica) che abbiamo del mondo. L’io conoscente, in 
quanto tale, non è dunque sostanza e non è un principio causale, 
temporalmente e spazialmente determinato. 

Se questa conclusione rappresenta un paradosso per il senso co- 
mune, essa obbliga a precisare in che modo quella tesi, l’autocom- 
prensione dell’io nell’esperienza, dovrebbe essere interpretata nel 
complesso della dottrina kantiana; infine, essa obbliga a precisare la 
stessa nozione di esperienza. Se, infatti, quella negazione (il non esse- 


118 «Il soggetto delle categorie non può dunque, per il fatto che egli le pensa, con- 
seguire un concetto di se stesso come oggetto delle categorie; perché, per pensarle, 
deve porre a fondamento la sua autocoscienza pura» ( Critica della ragion pura (d’ora 
in poi: KrV), Ak. 3, B 422; trad. it. di G. Gentile-G. Lombardo Radice-V. Mathieu, 
Laterza, Roma-Bari 1995, p. 274). 



86 


2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


re l’io conoscente descrivibile nei termini della sostanza e della cau- 
salità nello spazio-tempo) vale per l’io come soggetto (come io tra- 
scendentale) ma non per l’io come oggetto (come io empirico), risul- 
ta difficile intendere in che senso si possa allora dire che, secondo 
l’interpretazione dianzi avanzata, nella riflessione sull’esperienza e 
nella determinazione delle categorie, l’io riconosca se stesso e la sua 
relazione con il mondo. Il se stesso e la relazione col mondo, in 
quanto articolati secondo le categorie, sarebbero oggetti, non pro- 
prietà dell’io pensante. D’altra parte, se la determinazione secondo le 
categorie si oppone alla condizione di soggettività, risulta difficile 
giustificare la corrispondenza tra l’io soggetto e l’io oggetto, postula- 
ta dalla stessa nozione di autocoscienza. La nozione di “io empirico” 
risulterebbe, in tal senso, contraddittoria. 

2. L’io e le categorie 

Potremmo avanzare una prima ipotesi per questa difficoltà, confor- 
me al principio metodologico cui ci siamo richiamati. Il significato e 
l’appartenenza delle categorie all’io sono concepiti da Kant in modo 
esclusivamente epistemico, così che l’io è sottratto alla possibilità di 
comprendersi nell’esperienza, ma solo aldilà o all’origine di essa, 
come soggetto pensante. Tale impostazione determina i termini e il 
senso della deduzione: essa deve giustificare la relazione logica tra 
due elementi eterogenei, ma ugualmente costitutivi della rappresen- 
tazione, il materiale sensibile e i concetti a priori. L’io è quindi ri- 
guardato inizialmente non già come un membro, ma come l’ambito 
soggettivo universale in cui tale sintesi accade. Si potrebbe osservare 
inoltre che la descrizione delle categorie, presentata da Kant, le asse- 
gna univocamente all’ambito oggettivo, dove quest’ultimo corrispon- 
de alla realtà della natura. L’ontologia esposta nella Critica della ra- 
gion pura doveva, infatti, giustificare filosoficamente la fisica newto- 
niana. E evidente che, da una tale prospettiva, una determinazione 
dell’io secondo le categorie incorre in una sorta di naturalismo; che 
Kant sembra, infatti, pronto a concedere per l’io empirico, ma nella 
prospettiva di salvarne la soggettività sul piano trascendentale del 
pensiero e della coscienza morale. La scomodità di questa soluzione 
impone di verificare se i termini del problema, la nozione delle cate- 



2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


87 


gorie e della soggettività, siano stati definiti da Kant in maniera sod- 
disfacente. 

Nondimeno, se per il filosofo sono proprio le categorie a descri- 
vere l’ambito dell’essere di cui si può fare esperienza, è dunque per 
lui la soggettività dell’io sottratta ad una caratterizzazione empirica e, 
quindi, ad una individuazione esistenziale? E forse l’io espresso 
nell’“io penso” soltanto una condizione logica della rappresentazio- 
ne e l’io reale soltanto un fenomeno? 

Per quanto una tale soluzione ricorra spesso, come nei “Paralogi- 
smi della ragion pura”, Kant appare tuttavia lontano dall’affermarla 
con rotonda certezza 119 . In diversi passaggi, per quanto oscuri e allu- 
sivi, egli ammette che il soggetto dell’“io penso” attinge la propria 
esistenza in una percezione ancora indeterminata: l’esistenza è data 
antecedentemente alla sua determinazione secondo le categorie. L’e- 
sistenza dell’io è data al manifestarsi di un’attività spontanea: la stes- 
sa attività dell’intelligenza operante nella rappresentazione di ogni 
oggetto. Se si ritiene che la realtà dell’io sia data in questa forma, po- 
tremmo allora chiederci in che modo essa corrisponda al dato impli- 
cito nella nozione ordinaria dell’io. Assumiamo che quest’ultima si- 
gnifichi, nell’uso comune che se ne fa, l’auto-identificazione implici- 
tamente o esplicitamente espressa dallo stesso soggetto parlante nel- 
l’attestare il proprio esserci (“eccomi!”) o nel descrivere, attribuen- 
dosi, ogni ambito della propria attività (“io ho detto”, “ho visto”, 
“sono andato”). Il che sembra implicare tutte le categorie, anche se- 
condo una loro interpretazione esclusivamente empirica: l’io parlan- 
te individua in maniera ostensiva se stesso, determinandosi in manie- 
ra spazio-temporale, in funzione di effetti, le azioni, di cui dichiara di 
essere responsabile a titolo di causa. 

Si potrebbe rispondere che l’io come intelligenza manifesta 
“qualcosa” dell’io, il suo vertice luminoso e attivo. Di esso non si 
possono predicare le forme dell’oggettività, senza incorrere in una 
contraddizione e in un circolo. Del resto, si può notare che l’identifi- 

119 E tuttavia, nel capitolo sui Paralogismi è rilevabile la stessa oscillazione di Kant 
fra la referenzialità dell’io e la sua interpretazione meramente logica o funzionale. La 
presupposizione necessaria dell’io vi è infatti attribuita all’unità del pensiero in atto, 
ma è altresì presupposta la sua inerenza ad un reale soggetto. Di quest’ultimo, però, 
non riesce a rendere coerentemente conto senza cadere nei paradossi del fenomeni- 
smo trascendentale. Cfr. infra , capitolo 3. 



88 2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 

cazione dell’io come intelligenza con l’io nella sua accezione ordina- 
ria è fuorviante; come, peraltro, fuorviarne risulta la designazione di 
una funzione, l’intelligenza, con il pronome personale “io”. 

Tuttavia, come garantire la relazione dei due termini, se l’“io pen- 
so”, quale rappresentante dell’attività dell’intelligenza, deve essere 
una realtà e “qualcosa” dell’io quale suo reale soggetto? 

3. La realtà dell’io 

Riprendiamo il problema delineato cercando di svilupparne l’istanza 
di fondo appena menzionata (l’inerenza dell’ “io penso” all’io empiri- 
co), e tentiamo di darne una soluzione alternativa alla soluzione idea- 
listica (la sussunzione dell’io empirico nell’io trascendentale), se- 
guendo le stesse indicazioni di Kant. 

L’attività dell’intelligenza non si può determinare come un ogget- 
to, né come una sostanza determinata nello spazio né come un’attivi- 
tà svolgentesi nel tempo secondo rapporti causali. Ma l’intelligenza, 
nel manifestarsi a se stessa rivela, altresì, il sussistere della realtà indi- 
vidua che, qualificata poi secondo tali caratteristiche sensibili, essa 
attesta quale il proprio stesso reale soggetto. 

Nel § 25 dell’ “Analitica trascendentale” leggiamo: 

«Io ho coscienza di me stesso , nella sintesi trascendentale del molteplice del- 
le rappresentazioni in generale, e perciò nell’unità sintetica originaria del- 
l’appercezione, non come io apparisco a me, né come io sono in me stesso, 
ma solo che sono (nur dajl ich bin )». 

Prosegue in nota: 

«“L’io penso” esprime l’atto di determinare la mia esistenza. L’esistenza 
dunque con ciò è già data (Das Dasein ist dadurch also schon gegeben ) (...) Io 
mi rappresento solo la spontaneità del pensiero, cioè del determinare, e la 
mia esistenza rimane sempre determinabile soltanto sensibilmente, cioè 
come l’esistenza in un fenomeno. Pure questa spontaneità fa che io mi dica 
intelligenza (dajl ich micio Intelligenz nenne)» 120 . 

L’esistenza data alla coscienza nell’esercizio del pensiero, antece- 
dentemente alla sua determinazione predicativa, è immediatamente 
riconosciuta nella sua appartenenza al soggetto (come mia). La posi- 


120 KrV , B 157-158; trad. cit., p. 124, sottolineature nostre. 



2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


89 


zione assoluta dell’io, come esistenza individuale “auto-manifestante- 
si” e “auto-appartenentesi”, è presupposta come riferimento e condi- 
zione di ogni ulteriore attribuzione riflessiva, come intelligenza, ed 
empirica, come realtà sensibile (o “fenomeno”). Potremmo notare 
che la realtà che essa presenta coincide con l’io scrivente di Kant e 
con l’io del lettore cui egli si rivolge, quale dato presupposto e pre- 
messa necessaria della sua argomentazione. 

Ora, che cosa impedisce di qualificare questo dato esistenziale se- 
condo le categorie? Il significato che queste hanno e l’applicazione 
che esse ottengono nel complesso della dottrina kantiana. Infatti, in 
tale contesto, determinare l’io secondo le categorie significa l’opera- 
zione costruttiva con cui l’intelligenza articola il materiale di espe- 
rienza, la sensazione, secondo un piano coerente. Poiché le categorie 
si applicano in ogni caso al dato soggettivo della sensazione — è il 
presupposto che Kant condivide con Hume, al confutarne lo scettici- 
smo — , esse non significano, perciò, una modalità dell’esistenza, sia 
ad esempio per la sostanza, la sussistenza, sia per la causalità, la pro- 
duzione di una novità. Esse significano, invece, le condizioni logiche 
necessarie per ordinare l’insieme del dato nell’unità della rappresen- 
tazione, secondo relazioni univoche, cioè non arbitrarie e reversibili. 
L’attività spontanea spetta all’io pensante, ossia all’attività rappre- 
sentativa; l’individuazione e la determinazione dell’ordine delle so- 
stanze nelle loro reciproche relazioni spaziali e temporali spettano al- 
l’oggetto costituito dall’io pensante, ossia alla rappresentazione. 

La determinazione dell’io esistente secondo le categorie non cor- 
risponde perciò a una identificazione, tale per cui, ad esempio, Tes- 
ser sostanza si predichi assolutamente della sua realtà, quale sua le- 
gittima interpretazione, ma piuttosto a una sua divisione e proiezio- 
ne. L’esser sostanza si predica soltanto dell’io costituito come ogget- 
to e fenomeno dall’io pensante. Del resto, la sostanza, unitamente a 
tale qualificazione derivativa di effetto o prodotto, almeno quale og- 
getto della rappresentazione, è connotata altresì da Kant nei termini 
temporali e spaziali della permanenza e della relatività. La nota carat- 
teristica della soggettività, l’unità intrinseca e l’attività spontanea — 
dunque, si badi, l’autentica sostanzialità e causalità — , è, invece, at- 
tribuita in modo esclusivo all’io pensante. Ma l’io pensante, l’intelli- 
genza, non s’identifica in modo assoluto con l’io esistente, se la dot- 



90 


2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


trina kantiana esposta nei passi sopra citati non deve ricevere un’in- 
terpretazione idealistica. Ne risulta che la realtà dell’io esistente sfug- 
ge a ogni qualificazione, o che non si sa come assicurare sul fonda- 
mento della sua identità l’uguale appartenenza e la reciproca opposi- 
zione dei diversi aspetti in cui esso ci si manifesta; infine, l’aspetto 
sensibile e l’aspetto intellettuale, la determinatezza e l’autodetermi- 
nazione, l’aspetto passivo e l’aspetto attivo. 

L’aporia sembra dipendere dalla caratterizzazione iniziale delle 
categorie assunta da Kant, sia (1) sotto il profilo epistemico (o inten- 
zionale) sia (2) sotto il profilo ontologico (od oggettivo). L’opposi- 
zione si attesta innanzitutto sul piano della struttura intenzionale 
(soggetto/oggetto). Ma, poiché la stessa struttura intenzionale è de- 
scritta da Kant in funzione di termini ontologici come “unità” e “at- 
tività”, “determinazione” e “determinatezza”, al fondo dell’opposi- 
zione intenzionale in cui l’io ci si sdoppia si trova, in realtà, un’oppo- 
sizione di natura piuttosto ontologica. Se s’interpretano le qualifica- 
zioni ontologiche della soggettività trascendentale in corrispondenza 
analogica con le categorie, come “meta-categorie” o “proprietà tra- 
scendentali”, risulta, dunque, una divisione interna all’io. L’unità 
spontaneamente attiva dell’io penso si oppone all’unità relativa e fat- 
tuale dell’io empirico, come sostanza. 

In schema: 


Opposizione intenzionale 

Opposizione ontologica 

soggettività vs. oggettività 

soggettività — » “metacategorie”: unità 
intrinseca, attività spontanea 

oggettività — > categorie: sostanza, 
causa, spazio-tempo 

categorie — » relatività, determinatezza, 
passività 

soggettività vs. categorie 

(soggettività — > “metacategorie”) vs. categorie 


Tornando all’analisi del passo precedentemente citato, il presup- 
posto dell’io esistente doveva fondare l’appartenenza di questi aspet- 
ti a un medesimo soggetto. La successiva identificazione rispetto a 
ciascuno di essi presuppone che l’io debba possedersi, antecedente- 
mente, nell’unità di entrambi. L’auto-identificazione discorsiva pre- 
suppone, infatti, la stessa identità reale e operativa del soggetto. Ma 




2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


91 


ciò richiede che si trovi il modo in cui quelle note possano coesistere, 
venendo a costituire la totalità dell’io. E dunque possibile una carat- 
terizzazione delle categorie tale per cui queste possono predicarsi 
senza contraddizione dell’io esistente? 

4. Aporetica 

Riteniamo la posizione assoluta dell’io esistente come riferimento 
della nostra considerazione. Essa non appare come la mera presenta- 
zione di un oggetto o di un dato di fatto; altrimenti, l’io pensante 
non potrebbe identificarvisi. Del resto, insistiamo, esso non coincide, 
per Kant, con l’atto del pensiero, ma con il soggetto manifestato in 
esso. L’identificazione dell’io esistente con l’essere sensibile presup- 
pone che l’io esistente, già soggetto del pensiero, s’individui altresì in 
esso. 

Assumiamo ora questa ipotesi generale: l’identificazione cosciente 
dell’io è vincolata all’esercizio dell’attività. L’attività procede infatti 
dal soggetto, perciò lo manifesta nella sua unità e nella sua potenza. 
Quanto è semplicemente dato in maniera passiva, come un fatto, ri- 
sulta esterno al soggetto. La percezione, se non deve riferire soltanto 
l’accadere di un evento esterno, deve appartenere essenzialmente alla 
stessa attività ch’essa attesta. Del resto, la percezione in generale si 
distingue dall’accadere di un evento per l’attiva riproduzione del 
dato nell’unità della coscienza. Qualora, dunque, le forme dell’ogget- 
tività sensibile, le categorie, fossero univocamente contrassegnate 
dalla passività, o fattualità, non potrebbero mai venire a qualificare 
l’identità dell’io. 

Ma, si possono pensare le categorie nei termini dell’attività? Il 
nodo della difficoltà riscontrata in Kant non consiste, forse, nella 
esclusiva ascrizione all’intelletto dell’attività e nell’esclusiva caratte- 
rizzazione passiva della sensibilità 121 ? In sintesi, la realtà determinata 

121 Ancoriamo questa ipotesi all’impostazione iniziale della Deduzione: «Il molte- 
plice delle rappresentazioni può esser dato in una intuizione che è puramente sensi- 
bile, ossia non è altro che recettività; e la forma di questa intuizione può trovarsi a 
priori nella nostra facoltà rappresentativa (...) Ma l’unificazione di un molteplice in 
generale non può mai venire in noi dai sensi, e nemmeno perciò essere contenuta 
immediatamente nella pura forma dell’intuizione sensibile; perché essa è un atto 
della spontaneità dell’attività rappresentativa; e poiché questa occorre chiamarla in- 



92 


2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


dalle categorie, l’io esistente, deve potersi cogliere immediatamente 
sotto le qualificazioni che a queste corrispondono, se deve potersele 
in qualche modo attribuire. Il dato esistenziale attestato dall’autoco- 
scienza deve essere, perciò, originariamente determinato. Si deve tro- 
vare, quindi, il modo in cui la determinazione secondo le categorie 
non contraddica la realtà soggettiva e operativa dell’io. S’intende, 
tale determinazione deve ricevere un’interpretazione adeguata sia 
sotto il profilo formale (epistemico) sia sotto il profilo contenutistico 

(ontologico), respingendo un’interpretazione univocamente oggetti- 

• 122 

va e passiva . 


5. Ipotesi di soluzione: la struttura dell’io vivente 

Per cercare una soluzione nella direzione appena delineata, ritenia- 
mo opportuno analizzare il modello di deduzione delle categorie 
presentato da Jacobi nel David Hume con esplicito riferimento alla 
dottrina kantiana. 

Per Jacobi, la soggettività è esemplarmente descritta dall’essere 
vivente. In esso, l’essere coincide con l’attività e con la percezione. 
L’unità del vivente, così costituita, è originaria. La molteplicità mate- 
riale che lo costituisce è, infatti, raccolta e articolata da un principio 
formale attivo e percettivo ad esso immanente: l’anima. L’essere iner- 

telletto per distinguerla dalla sensibilità, cosi ogni unificazione (...) è un’operazione 
dell’intelletto, che possiamo designare colla denominazione generale di sintesi» 
(KrV, B 129-130; trad. cit., p. 109). Diverse sfumature si potrebbero desumere da al- 
tre opere (cfr. A. Nuzzo, Leben and Leib in Kant and Hegel, «Hegel-Jahrbuch» 
2007, pp. 97-101), ma che non sembrano incidere tanto da indurre una riformula- 
zione sistematica della dottrina qui espressa. 

122 Per un confronto nella linea indicata: cfr. W. Dilthey, Erfahren und Tdenken, in 
Gesammelte Schriften , Bd. 5, Teubner, Stuttgart 1957, pp. 74-89; H. Jonas, The phe- 
nomenon of life: toward a philosophical biology, University of Chicago Press, Chica- 
go 1982; J. McDowell, Mind and ivorld , Harward University Press, Cambridge 
(MA) 1995. L’autore americano introduce la nozione di vita come principio di 
sintesi tra l’ordine sensibile e l’ordine intellettuale; ma la sua tesi non sembra suffi- 
cientemente chiarita nel contesto della dottrina kantiana alla quale egli si riferisce, 
né l’impostazione del problema, anche nella sua produzione più recente (cfr. Id., 
Having thè World in View , Harward University Press, Cambridge Ma-London 
2009), sembra emergere oltre il piano gnoseologico; rimanendo entro il quale, esso e 
l’intera problematica soggiacente del realismo e dellidealismo, non sembra risolu- 
bile. Le difficoltà di Kant intorno alla concezione dell’io, che abbiamo osservato, ci 
sembrano provarlo in maniera paradigmatica. 



2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


93 


te o l’essere artificiale è, invece, derivato e la sua unità è relativa (a 
un altro essere o a una coscienza esterna). La forma che lo caratteriz- 
za è prodotta dalle relazioni causali che esso intrattiene o che gli è 
conferita dall’uso cui esso si presta. In tale prospettiva, la realtà del- 
l’io, come essere vivente, come “anima”, rappresenta il paradigma 
delle categorie. In esso si rinviene, infatti, la prima nozione e la pri- 
ma sintesi di esse. La sostanzialità e la causalità, caratteristiche del vi- 
vente in generale, vi si manifestano, infatti, in maniera immediata ed 
esemplare. L’esistenza dell’io appare, dunque, originariamente quali- 
ficata secondo le determinazioni delle categorie. L’esperienza dell’io, 
in tal senso, è, anzi, il fondamento risolutivo del loro significato e il 
criterio della loro applicazione 123 . Concretamente, le forme proprie 
della vita personale, l’unità vissuta dell’io e l’esercizio della libertà, 
rappresentano le matrici fenomenologiche rispettivamente della cate- 
goria di sostanza e di causalità. 

È, forse, questa un’indebita proiezione soggettiva, esposta al pan- 
psichismo? No, in ogni caso, in quanto si ritiene che la struttura del- 
la vita, di cui le categorie sono la concreta articolazione, identifichi il 
senso esemplare dell’essere, che trova nell’io la sua espressione privi- 
legiata ma non esclusiva. Un tale procedimento compromette la vali- 
dità universale e necessaria delle categorie? Per rispondere a questa 
domanda bisogna esaminare in che modo Jacobi interpreta la dedu- 
zione delle categorie, cioè la dimostrazione della funzione costitutiva 
di esse rispetto all’esperienza. 

Il primo anello di questa deduzione è dato dall’assioma dell’iden- 
tificazione intensiva dell’essere con l’essere vivente. Per la fissazione 
di questo assioma è decisiva l’individuazione esistenziale dell’io, di 
cui le categorie costituiscono l’immediata e concreta determinazione. 
Il secondo passaggio consiste nella esplicitazione del significato di 


123 «tQJuelle [idee] che ho di me stesso, e, di conseguenza dell’essere, della sostan- 
za, dell’azione, dell’identità, e di molto altro, provengono da un’esperienza interna» 
(G. W. Leibniz, Discours de Metaphysique , in Philosophische Schriften, Akademie 
Verlag, Berlin 1990, VI Reihe, 4 Band, Teil B, p. 1572; trad. it. di M. Mugnai-E. 
Pasini, (Scritti filosofici di G. W. Leibniz ), Utet, Torino 2000, voi. I, p. 291). «[L]e 
idee intellettuali o di riflessione sono ricavate dal nostro spirito: e io vorrei sapere 
come potremmo aver l’idea dell’essere, se non fossimo degli esseri noi stessi, e non 
trovassimo così l’essere in noi» (Id, Nouveaux Essais sur l’Entendement humain , in 
ibidem, VI Reihe, 6 Band, pp. 85-86; , voi. II, p. 62). 



94 2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 

esperienza che ne risulta: l’esperienza è una funzione dell’agire attra- 
verso la quale il soggetto esiste e viene in contatto con il mondo. Poi- 
ché quest’agire non si comprende altrimenti che nello scambio cau- 
sale reciproco tra molteplici sostanze nello spazio e nel tempo, le no- 
zioni universali di queste, le categorie, rappresentano le condizioni 
strutturali dell’esistenza e dell’esperienza. Un terzo passaggio è rap- 
presentato dalla definizione di un concetto di razionalità capace di 
render conto del modo in cui il soggetto può concepirsi come sog- 
getto di esperienza, nel senso definito. 

Se la ragione deve attingere la situazione del soggetto nel mondo, 
essa deve in certo modo partecipare della stessa struttura della vita. 
Ora, la vita è definita dall’attività e dalla percezione. La ragione deve 
dunque emergere in questo plesso. La soluzione è offerta a Jacobi da 
una determinazione della struttura della percezione capace a sua vol- 
ta di corrispondere alle esigenze della razionalità. Due caratteristiche 
appaiono a questo proposito essenziali: 1. la percezione è una rela- 
zione condeterminata dall’attività e dalla passività del soggetto nei 
confronti dell’oggetto; 2. la percezione attinge immediatamente la 
realtà del proprio oggetto: la percezione è intenzionale. Ecco un pas- 
so esemplare: 

«O deve considerare il principio della ragione come tutt’uno col principio 
della vita oppure è costretto a fare della ragione un semplice accidente d’un 
certo organismo ( Organisation ). Per quel che mi riguarda, considero il prin- 
cipio della ragione tutt’uno con quello della vita, e non credo ad un’irrazio- 
nale intimo ed assoluto. Attribuiamo la ragione ad un uomo in grado mag- 
giore che ad un altro, in base al maggiore grado di virtù rappresentativa che 
egli manifesta. Ora la virtù rappresentativa si rivela soltanto reagendo, e cor- 
risponde esattamente alla facoltà di ricevere dagli oggetti impressioni più o 
meno complete. In altre parole: la spontaneità dell’uomo corrisponde alla 

• • • v 124 

sua ricettività» . 

Come si vede, Jacobi concepisce la ragione come una sorta di per- 
cezione, e interpreta la struttura di questa in termini “biologici”, 
come riproduzione a un più alto livello dello scambio funzionale di 
attività e passività che caratterizza il rapporto tra il vivente e l’am- 
biente circostante. Tutto ciò non implica un riduzionismo sensista, 
poiché Jacobi attribuisce al “sensorio” della ragione il rilevamento 


124 David Hume , W 2/1, 65-66; trad. it., p. 124. 



2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


95 


degli aspetti strutturali della realtà e della stessa esperienza, che per 
lui vengono a corrispondersi direttamente. 

A tale proposito, il filosofo assegna a un’esperienza ontologica di 
base ( Grunderfahrung ) la determinazione del “prius di ogni esperien- 
za”: l’avvertenza della realtà in quanto tale e la sintesi degli elementi 
e dei rapporti che ne costituiscono la struttura: tra gli altri, l’ordine 
delle categorie. La percezione della ragione, così determinata, condi- 
ziona e accompagna la discriminazione degli oggetti nell’esperienza 
sensibile e di ogni oggettivazione dell’intelletto. 

Tornando all’inizio, il dato della ragione, che, come abbiamo det- 
to, costituisce “il prius di ogni esperienza”, ossia l’ambito del tra- 
scendentale, trova, secondo Jacobi,, un’esemplificazione primaria 
nell’esperienza della soggettività. L’esperienza dell’io esistente, in 
quanto è comprensiva del rapporto operativo dell’io col mondo, è il 
piano critico e la base fenomenologica su cui è possibile articolare 
qualsiasi discorso sull’essere. L’autocoscienza è infine la matrice del- 
la sostanzialità; la libertà è la matrice della causalità. 

Ma come assicurare la portata oggettiva di tale concezione? Per 
illustrare questo punto bisogna evidenziare come la genesi fenome- 
nologica delle categorie, secondo Jacobi, poggi a sua volta su di 
un’ontologia. Più precisamente, le categorie articolano la compren- 
sione universale dell’ente finito che ha il suo riferimento immediato e 
fondamentale nell’io. In tal senso, le categorie riflettono la struttura 
dell’esistente, che è il dato originario e la condizione della stessa 
esperienza. Le categorie rappresentano, dunque, dei giudizi costi- 
tuenti il riferimento di ogni predicazione. 

Il procedimento indicato si potrebbe riassumere nei seguenti pas- 
saggi. 

1) Le categorie descrivono la struttura necessaria dell’ente finito. 
Se esiste la molteplicità, come di fatto esiste, essa si deve articolare 
nei termini della sostanza e della causalità nello spazio e nel tempo. 
L’esistenza finita non è, cioè, pensabile altrimenti che nelle determi- 
nazioni fondamentali in cui essa ci si presenta. L’ipotesi monistica 
(spinoziana) vale come un argomento per absurdum riconducibile a 
un’iniziale evasione dall’esistente, nel mezzo omogeneo e intempora- 
le del pensiero. 



96 


2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


«Là dove vi son più cose singole in relazione le une con le altre, vi debba es- 
sere e l’azione e la reazione, e la successione delle determinazioni; perché al- 
trimenti non vi sarebbero più molte cose singole, ma soltanto un’unica cosa 
singola; e viceversa, ove vi fosse soltanto un’unica cosa singola, non vi sarebbe 
né azione e reazione, né successione»' 75 . 

2) Solo in riferimento alla eminente sostanzialità e causalità del vi- 
vente, l’esistenza e l’insieme delle relazioni attive e passive che costi- 
tuiscono la concreta realtà dell’ente finito risultano definitivamente 
spiegate. 

«Il molteplice soltanto nella vita può compenetrarsi e unificarsi. Dove cessa 
l’unità, l’individualità reale ( reale Individualitàt) , cessa pure ogni esistenza 
(Daseyn) (...) Tutte le cose veramente reali ( ivahrhaft ivirkliche Dinge) sono 
individui e cose singole e, come tali, esseri viventi, principia perceptiva et ac- 
tiva l'uno esterno all’altro» 126 . 

3) La struttura del vivente offre il modello d’integrazione delle ca- 
tegorie (cfr. 2). Tale integrazione trova luogo nell’essere dell’io. La 
più compiuta realizzazione delle caratteristiche del vivente, perciò 
dell’ente finito, si trova infatti in esso. In un testo posteriore trovia- 
mo una sintesi assai efficace: 

«Quell’io, che chiamiamo il nostro sé, è un duplice parto del tutto e del nul- 
la: la propria anima soltanto un fenomeno. . . Ma un fenomeno che si appros- 
sima all’essenziale (eitte der Wesenheit sich ndhernde Erscheinung )! Sponta- 
neità e vita vi si rivelano immediatamente. Perciò, il puro sentimento e la so- 
stanza dell’anima sono per noi il paradigma ( Urbild ) dell’essere di ogni 

127 

cosa» . 

In tale prospettiva c’è, dunque, una determinazione reciproca tra 
le categorie: l’unità che definisce la sostanzialità corrisponde all’eser- 
cizio spontaneo dell’attività, ossia alla causalità in senso proprio. E, 
per la determinazione ulteriore di queste note nell’unità vissuta del- 

125 Ibidem, 60; trad. it., p. 121, sottolineatura nostra. 

126 Ibidem, 84, 85; trad. it., pp. 139-140. Si confronti il passo seguente: «l’esistenza 
di tutte le cose finite si fonda sulla coesistenza e che noi non siamo in grado di farci 
una rappresentazione di un essere che persista affatto per sé; ma è ugualmente inne- 
gabile che siamo ancora meno in grado di farci una rappresentazione di un essere af- 
fatto dipendente. Tale essere dovrebbe essere del tutto passivo, eppure non potreb- 
be esser passivo; poiché quel che non è già qualcosa, non può esser semplicemente 
determinato a qualcosa» {La dottrina di Spinoza, W 1/1, 163; trad. it., p. 51). 

127 Corrispondenza di Allivill, W 6/1, 223-224. 



2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


97 


l’essere vivente, l’individuazione cosciente dell’io non è possibile né 
è determinabile altrimenti che sotto queste note. La posizione assolu- 
ta dell’io, come l’esistenza in generale ( Wirklichkeit ), non è perciò la 
presentazione di un dato di fatto, per il resto indistinto, né coincide 
con l’attività pura dell’intelligenza, ma riceve dall’inizio tale connota- 
zione intensionale, sostanziale e operativa 128 . Ma l’immediatezza del- 
l’io si estende all’esercizio in proprio, cioè personale e spontaneo, di 
ogni sua attività, dall’ordine sensibile all’ordine intellettuale. L’indi- 
viduazione dell’io implica la percezione della sua sussistenza singola- 
re e della situazione (causale e spazio temporale) in cui esso si trova 
nel mondo. A tale proposito, risulta cruciale la continuità di senso e 
ragione istituita sulla base di una medesima caratterizzazione vitale e 
intenzionale dell’atto conoscitivo. 

Ora, tale esito risulta in effetti risolutivo delle difficoltà che aveva- 
mo precedentemente rilevato nella dottrina kantiana. Le categorie 
non hanno un’esclusiva connotazione passiva, o fattuale, ma piutto- 
sto operativa. Del resto, la soggettività intellettiva non è in opposizio- 
ne con la sua appartenenza a una realtà sensibile individua. Un pun- 
to capitale a tale riguardo è la determinazione della sostanzialità sul 
fondamento dell’unità intrinseca dell’essere vivente e la sottolineatu- 
ra del carattere attivo della sensibilità, che ne garantisce la continuità 
con l’attività dell’intelletto. Inoltre, l’intenzionalità così della sensibi- 
lità come dell’intelletto è affidata a una determinazione scambievole 
di attività e passività nell’unità dell’atto interpretativo in cui definiti- 
vamente consiste la conoscenza. Su questi punti risulta specialmente 
evidente il debito di Jacobi nei confronti di Leibniz, per quanto sia 
anche evidente lo scarto nell’interpretazione realistica cui Jacobi sot- 
topone le stesse categorie leibniziane. 


128 Tale concezione sembra richiamare l’organicismo logico di Hegel e la relativa 
critica alla deduzione di Kant, che in effetti riprende espressamente diversi motivi 
jacobiani. È da notare tuttavia che la nozione di vita in Hegel è fortemente impron- 
tata alla sua matrice spinoziana, la quale evidentemente si discosta dall’ispirazione 
realistica e personalistica di Jacobi. Cfr. G. Kirscher, Hegel et Jacobi critiques de 
Kant , «Archives de Philosophie» 33 (1970), pp. 801-828; P. Jonkers, Leben bei He- 
gel und Jacobi. Ein Vergleich, «Hegel-Jahrbuch» (2007), pp. 110-115. 



98 


2. La Deduzione trascendentale delle categorie. Kant e Jacobi a confronto 


Conclusione 

In conclusione, la soggettività per Kant coincide con l’attività dell’io 
come intelligenza. La sussistenza dell’io personale (“io sono”) è ma- 
nifestata dall’intelligenza, ma non è determinabile oggettivamente, se 
non in modo empirico. La determinazione dell’io, secondo le catego- 
rie, costituisce il fenomeno dell’io, come oggetto. L’esistenza dell’io 
si trova perciò in Kant in un incerto equilibrio: o s’identifica con la 
soggettività dell’intelligenza (idealismo) o si rimette completamente 
all’oggettività (empirismo). Abbiamo rilevato nondimeno come Kant 
abbia voluto salvaguardare la realtà dell’io da una tale riduzione, fa- 
cendo riferimento ad alcuni passi dove il filosofo riconosce un’antici- 
pazione dell’io rispetto a ogni sua determinazione empirica o riflessi- 
va. A questo punto, ci siamo chiesti come qualificare la posizione esi- 
stenziale della soggettività rispetto alle sue determinazioni oggettive, 
e come articolare l’inerenza ad essa delle note opposte della sensibili- 
tà e dell’intellettualità. 

Jacobi ci ha offerto un modello risolutivo di tale difficoltà, in 
quanto egli ridefinisce il senso delle categorie in funzione di un’onto- 
logia che prevede, sul fondamento della nozione di vita, un’immedia- 
ta corrispondenza dell’essere, dell’agire e della conoscenza. Ne risul- 
ta una concezione analogica della soggettività tale per cui la stessa 
soggettività dell’io rappresenta il modello paradigmatico delle cate- 
gorie. Le categorie articolano, infatti, secondo Jacobi, il significato 
dell’esistenza che ha nell’io il suo riferimento immediato e fonda- 
mentale. 

Al fondo della diversa impostazione di Kant e Jacobi circa la fun- 
zione costitutiva dell’io nell’esperienza risulta, infine, la connotazio- 
ne puramente epistemica ovvero ontologica di questa. Rimane ora da 
indagare più precisamente la diversa modalità attraverso cui Kant e 
Jacobi concepiscono l’accesso alla realtà dell’io; e a tale proposito è 
indispensabile allargare la nostra considerazione anche a Fichte. 



3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” 
di Kant 


L’awio della filosofia di Fichte ha il suo principio nell’io. Essa s’in- 
nesta così a pieno titolo nella tradizione inaugurata da Descartes 129 . Il 
motivo cartesiano, la fondazione immanente del sapere, è ripreso dal 
filosofo di Rammenau attraverso la mediazione della dottrina dello 
ich denke di Kant. La Seconda introduzione alla dottrina della Scienza 
(1797) è un testo oltremodo interessante al riguardo poiché l’autore 
vi ridisegna le linee portanti della propria filosofia in diretto riferi- 
mento all’opera di Kant. In particolare, egli vi affronta i problemi ri- 
masti inevasi nella Critica della ragion pura sulla natura dell’io e sulla 
sua conoscibilità. Attraverso il commento e l’analisi di alcuni brani 
cercheremo di rilevare tali problemi in Kant (cfr. infra , I), e di verifi- 
care se la soluzione avanzata da Fichte risulti soddisfacente (II). In 
tal senso, l’opera di Jacobi offre, ad avviso di chi scrive, spunti critici 
e indicazioni positive di grande rilievo (III e Conclusione) 1 ’ 0 . 

I. Kant sull’esistenza dell’io pensante 

L’io è introdotto da Kant nel paragrafo 16 dell’Analitica trascenden- 
tale con le famose parole: «l’io penso deve poter accompagnare tutte 
le mie rappresentazioni». Di qui egli procede a mostrare in che 
modo esso determini la genesi della conoscenza e ne garantisca la va- 


129 Cfr. R. Lauth, Zur Idee der Transzendental-Philosophie , Pustet, Miinchen 1965. 

1,0 Ricordiamo che per la Critica della ragion pura ( KrV ), citiamo dalla traduzione 
di G. Gentile-G. Lombardo Radice-V. Mathieu (Laterza, Roma-Bari 1995), con 
qualche modifica e riportiamo la numerazione del testo originale, secondo l’edizione 
dell’Accademia di Berlino: cfr. Kant’s gesammelte Schriften, Berlin, Reimer, (Ak), 
Bd. III. Per la Seconda Introduzione alla dottrina della scienza (d’ora in poi: Seconda 
introduzione ) citiamo dalla traduzione di C. Cesa (Prima e seconda Introduzione alla 
dottrina della scienza , Laterza, Roma-Bari 1999). I numeri tra parentesi quadre nei 
testi citati per esteso fanno riferimento ai punti corrispondenti del commento. 



100 


3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


lidità. È stato osservato come in tale contesto, nella Deduzione tra- 
scendentale delle categorie, Kant non s’interessi tanto alla concezio- 
ne dell’io in sé, o nel suo essere, quanto della sua funzione epistemi- 
ca di fondamento 131 . Si potrebbe aggiungere che tale indagine non 
poteva esservi condotta poiché l’essere è definito, secondo Kant, dal- 
l’oggettività della rappresentazione sensibile 1 ’ 2 . Del resto, il significa- 
to dell’io nella prima critica è precisamente determinato dalla pro- 
blematica gnoseologica entro la quale esso è considerato 13 ’. Se questo 
risulta vero se si guarda al complesso della Critica della ragion pura, 
c’è tuttavia un intero paragrafo della seconda edizione delle Dedu- 
zione trascendentale delle categorie, il § 25, che documenta — l’ab- 
biamo già osservato — il tentativo di Kant di assicurare all’io una 
consistenza ontologica maggiore di quanto non consentissero i limiti 
già stabiliti nell’Estetica trascendentale e la loro finale riconferma 
nella nuova versione dei Paralogismi della ragion pura 134 . 

Critica della ragion pura (1787), § 25 

«Al contrario [1], io ho coscienza di me stesso, nella sintesi trascen- 
dentale del molteplice delle rappresentazioni in generale, e perciò 
nell’unità sintetica originaria dell’appercezione [2], non come io ap- 
parisco a me, né come io sono in me stesso, ma solo che sono [3]. 
Questa rappresentazione è un pensare ( Denken ), non un intuire 
(Anschauen) [4]. Ora, poiché per la conoscenza di noi stessi (Er- 
kenntnis unserer selbst ) oltre all’operazione del pensiero che riduce 
all’unità dell’appercezione il molteplice di ogni intuizione possibile, 
si richiede anche una determinata maniera di intuizione, onde questo 
molteplice venga data; così la mia propria esistenza (tnein eigenes 


131 Cfr. D. Henrich, Identitàt and Objektivitàt , Winter, Heidelberg 1976. 

132 Cfr. M. Heidegger, Kants These iiber das Sein (1961), in Id., Wegmarken (Ge- 
samtausgabe, Bd. IX), Klostermann, Frankfurt a. M. 1976, pp. 445-480. 

133 Cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Lhilosophie und Wissenschaft der 
neueren Zeit , cit. 

134 Cfr. H.J. de Vleeschauwer, La déduction trascendentale dans 1‘ oeuvre de Kant, 
cit; D. Sturma, “Die Paralogismen der reinen Vernunft in der zweiten Auflage”, in 
G. Mohr-M. Willaschek (a cura di), Kooperativer Kommentar za Kants Kritik der 
reinen Vernunft , cit., pp. 391-412; S. Chauvier, Kant et l’égologie, «Archives de Phi- 
losophie» 64/4 (2001), pp. 647-667; A. Deppermann, Line analytische ìnterpretation 
von ‘ich denke’, «Kant-Studien» 92/2 (2001), pp. 129-152. 



I.Kant sull’esistenza dell’io pensante 


101 


Dasein) non è certo fenomeno (e tanto meno parvenza); ma la deter- 
minazione della mia esistenza può avvenire solo secondo la forma del 
senso interno, in quella speciale maniera in cui il molteplice che io 
unifico, può essere dato nell’intuizione interna; ed io non ho dunque 
pertanto una conoscenza di me quale sono, ma semplicemente quale 
apparisco a me stesso. La coscienza di se medesimo ( das Bewusstsein 
seiner selbst ) è dunque ben lungi dall’essere una conoscenza di se 
stesso, malgrado tutte le categorie che costituiscono il pensiero di un 
oggetto in generale mediante l’unificazione del molteplice in una ap- 
percezione [5]. Come per la conoscenza di un oggetto diverso da 
me, oltre il pensiero di un oggetto in generale ( Objekt iiberhaupt ) 
(nella categoria), io ho pure bisogno di una intuizione con cui deter- 
minare quel concetto generale [6]; così, per la conoscenza di me 
stesso, oltre alla coscienza, ovvero oltre al pensare me stesso, io ho 
pure bisogno di una intuizione di un molteplice entro me, con cui io 
determini quel pensiero; ed io esisto come intelligenza (Ich existiere 
als Intelligenz ) che è consapevole soltanto della sua potenza unifica- 
trice, ma che essendo sottoposta, rispetto al molteplice che deve uni- 
ficare, a una condizione limitativa che essa chiama senso interno, 
non può render intuibile quella unificazione se non secondo rapporti 
di tempo, i quali restano al tutto fuori dei concetti propri dell’intel- 
letto [7]; e può conoscersi quindi solo come apparisce a se stessa, in 
rapporto con una intuizione (che non può essere intellettuale e data 
dallo stesso intelletto), ma non come si conoscerebbe se la sua intui- 
zione fosse intellettuale [8]» 135 . 

a) Commento 

1. Al contrario. Si riferisce alla chiusura del paragrafo precedente 
dove era riaffermata la condizione fenomenica di ogni conoscenza 
oggettiva dell’io, poiché essenzialmente mediata dalla sensibilità in- 
terna, sprovvista, come la sensibilità in generale per Kant, di un’in- 
tenzionalità reale («con esso intuiamo noi stessi soltanto come venia- 
mo interiormente modificati da noi stessi»), e dal tempo, quale sua 
condizione soggettiva a priori. «Per ciò che riguarda l’intuizione in- 
terna, noi conosciamo il nostro proprio soggetto solo come fenome- 

135 KrV, B 157-159; trad. it., pp. 124-125. Se non indicato diversamente, in questo 
paragrafo ci riferiamo sempre a KrV. 



102 


3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


no, ma non già per quel che esso è in se stesso» 136 . La tesi è insisten- 
temente ripresa sin dall’Estetica trascendentale 1 ”. 

2. Unità sintetica originaria dell’appercezione. Il punto è spiegato 
nel § 16. L’unità dell’io, quale suprema condizione della conoscenza, 
è qui dichiarata come verità necessaria, perciò come contenuto di 
una proposizione analitica, ma bisognosa di una ricostruzione del 
processo nel quale essa si manifesta. L’io non si coglie tematicamen- 
te, come oggetto di una rappresentazione — dovrebbe altrimenti 
presupporre sempre se stesso 1 ’ 8 — , ma si coglie nella sua attività co- 
stituente ogni rappresentazione (“sintesi”). «Questa identità comune 
dell’appercezione di un molteplice dato nell’intuizione, contiene una 
sintesi delle rappresentazioni, ed è possibile solo per la coscienza di 

• • 139 

questa sintesi» . 

3 . Io ho coscienza di me stesso... solo che sono. È questa una tesi 
che è ora introdotta senza anticipazioni, né nella sezione precedente 
né nella prima edizione dell’opera. L’intero paragrafo 25 sembra 
ruotare intorno a questa idea estrema della mera esistenza (dell’io: 
dajl Ich hin) come contenuto dell’autocoscienza. Idea estrema, poi- 
ché sfugge alla divisione precedentemente stabilita, presumibilmente 
esaustiva, di noumeno e fenomeno; né si trova nella gnoseologia di 
Kant una funzione capace di renderne conto in maniera coerente. 
Del resto, la nozione di esistenza che sarà definita nella sezione dedi- 
cata alle categorie modali, non pare corrispondergli: «ciò che si con- 
nette con le condizioni materiali dell’esperienza (della sensazione) è 
reale» 140 . 

4. Questa rappresentazione è un pensare, non un intuire. L’intui- 
zione riguarda infatti esclusivamente, secondo Kant, l’essere sensibi- 
le. Inoltre, egli assegna alla sensibilità una radicale passività, la quale 
si oppone alla spontaneità del pensiero 141 . Circa il contenuto dell’ap- 
percezione, come atto di pensiero «poiché l’intelletto stesso in noi 


136 B 157; trad. it, p. 124. 

137 Cfr. B 67-69. 

138 Cfr. B 404-405, 422-423 

139 B 134; trad. it., p. 111. 

140 B 266; trad. it., p. 184. 

141 Cfr. B 133. 



I.Kant sull’esistenza dell’io pensante 


103 


uomini non è una facoltà di intuizioni (...) così la sua sintesi, se esso è 
considerato solo per se stesso, non è evidentemente altro che l’unità 
dell’atto, del quale egli, come di un atto, è cosciente anche senza sen- 
sibilità» 142 . Una determinazione oggettiva non empirica dell’essere 
può esser data solo dalle prescrizioni della ragione pratica 14 ’. Altro- 
ve, tuttavia, l’atto espresso nell’“io penso” è oggetto di una percezio- 
ne indeterminata 144 ; nei Prolegomeni ad ogni futura metafisica, la per- 
cezione dell’atto corrisponde ad una “intuizione immediata”, ad un 
“sentimento dell’esistente” ( Gefilhl eines Daseins) 143 . 

5. La coscienza di se medesimo è dunque ben lungi dall’essere una 
conoscenza di se stesso. La percezione dell’esistenza dell’io non impli- 
ca una conoscenza positiva del suo essere. Quest’ultima richiede la 
mediazione della sensibilità che, per così dire, riempia l’esistenza, 
come posizione assoluta ma vuota dell’oggetto, con un contenuto di 
esperienza. L’essere corrisponde, invece, all’esistente determinato 
come oggetto secondo le condizioni a priori della rappresentazione. 
Dove si vede confermata, da un lato, l’interpretazione di Heidegger 
secondo cui l’essere in generale corrisponde per Kant all’ “oggettivi- 
tà” ( Sachheit) l4h . D’altro lato, si avverte come Kant ha colto, altresì, la 
trascendenza dell’esistente (Wirklichkeit), come contenuto di una 
sorta di esperienza, dato antecedentemente alla sua articolazione for- 
male o predicativa, eppure non sensibile e in sé attivo, e perciò irri- 
ducibile alla datità di un “oggetto”. 

6. Oggetto in generale. . . concetto generale. Si noti la ridescrizione 
in termini oggettivi e logici della differenza precedentemente stabili- 
ta tra esistenza, come presentazione originaria dell’io, e la sua deter- 
minazione categoriale. Tale passaggio è esplicito nel capitolo dei Pa- 
ralogismi della ragion pura: «Il pensiero preso per sé, è puramente la 


142 B 154; trad. it., p. 122. Cfr. Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Ak. IV, 452, 
457-458; K. Dusing, Spontaneità e libertà nella filosofia pratica di Kant, «Studi kan- 
tiani» 6 (1993), pp. 23-46. 

143 Cfr. B 430. 

144 Cfr. B 423 in nota. 

145 Cfr. ivi, 334 nel corpo e in nota; M. Frank, Fragmente einer Geschichte der 
Selbstbewuftseins-Theorie von Kant bis Sartre, in Id., Selbstbewufltseins-theorien von 
Kant bis Sartre, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1991, pp. 416-432. 

146 Cfr. M. Heidegger, Kants Tbese iiber das Sein (1961), cit. 



104 


3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


funzione logica, quindi mera spontaneità dell’unificazione del molte- 
plice di una intuizione puramente possibile (...) Con ciò, io non mi 
rappresento me stesso né come sono, né come mi apparisco; ma pen- 
so me solo come ogni oggetto, in generale, astraendo dal modo d’in- 
tuirlo» 14 '. Ma, nell’interpretazione della suddetta distinzione, sem- 
bravano concorrere aspetti svolti nella precedente trattazione, ed al- 
trove rintracciabili, assai più complessi: la distinzione del contenuto 
formale dell’oggetto dalla sua posizione in esistenza 148 ; la distinzione 
di piani implicita alla necessaria presupposizione dell’io dinanzi ad 
ogni sua oggettivazione 149 ; la caratterizzazione operativa dell’io come 
attività spontanea 1 ’ 0 . 

7. Io esisto come intelligenza. Si noti la forza espressiva di questa 
affermazione. L’esistenza dell’io è qualificata come l’imporsi di una 
potenza formatrice originariamente attiva, l’ intelligenza, ma necessa- 
riamente vincolata al materiale di esperienza. Il rapporto con la sen- 
sibilità è, quindi, caratterizzata in termini produttivi. La spontaneità 
dell’atto è, inoltre, scorta attraverso il suo effetto nella sensibilità, do- 
v’è determinata secondo le particolari condizioni ontologiche ed epi- 
stemiche di questa: la temporalità e la fenomenicità. Si ricordi che, 
secondo Kant, la pura molteplicità è il dato elementare della cono- 
scenza e che essa ed ogni complesso costituito non possono essere al- 
trimenti intesi che in funzione dell’opera dell’intelletto che collega 
successivamente ogni membro all’altro, secondo rapporti (o schemi) 
temporali a priori. In generale, conforme all’impostazione distintiva 
del criticismo, la materia del dato di esperienza non è in sé struttura- 
ta, ma ogni strutturazione gli è effettivamente conferita dall’intellet- 
to 151 . 

8. Se la sua intuizione fosse intellettuale. La negazione della possi- 
bilità per l’uomo di un’intuizione intellettuale è una tesi che Kant ri- 
badisce lungo tutta la Critica della ragion pura e che sarà definitiva- 
mente confermata in (Von einem neuerdings erhobenen vornehmen 
Ton in der Philosophie, 1796), in diretta opposizione a Jacobi. Due 

147 B 428-429; trad. it„ p. 277. 

148 Cfr.B 620-631. 

149 Cfr. B 404-405. 

150 Cfr. B 129-133, 154. 

151 Cfr. B 129. 



I.Kant sull’esistenza dell’io pensante 


105 


istanze risultano decisive a tale riguardo: 1. l’intuizione intellettuale 
postula la possibilità di conoscere senza la mediazione della sensibili- 
tà. Ora, la nostra intuizione, invece, è «sensibile perché non è origi- 
naria» ossia «è dipendente dall’esistenza dell’oggetto» 152 . 2. Per ciò 
che ne consegue per l’io, l’io potrebbe identificarsi con la pura intel- 
ligenza, senza che il suo essere debba venir determinato sensibilmen- 
te. Ma come potrebbe l’io, cioè l’uomo quale soggetto ed oggetto di 
conoscenza, riconoscersi in questo modo? «Che io distingua la mia 
propria esistenza, come di un essere pensante, da altre cose fuori di 
me (a cui appartiene anche il mio corpo), è (...) una proposizione 
analitica; le altre cose infatti sono tali in quanto le penso distinte da 
me. Ma, se questa coscienza di me stesso senza cose fuori di me, 
onde mi sono date rappresentazioni, sia possibile, e quindi se io pos- 
sa esistere semplicemente come essere pensante (senza esser uomo), 
con ciò io non lo so» 15 ’. 

b) Analisi 

Riprendiamo il filo dei punti commentati. Kant distingue la cono- 
scenza oggettiva ( Erkenntnis ) dalla coscienza (. Bewusstsein ) dell’io. 
La prima è sottoposta alle condizioni della conoscenza empirica in 
generale: l’io si conosce come fenomeno. La seconda attesta l’esisten- 
za dell’io non altrimenti connotata che attraverso l’atto di pensiero 
che è il medio di quella attestazione ed il necessario presupposto, in 
sé inoggettivabile, della conoscenza oggettiva. Nella determinazione 
di tale posizione originaria dell’io, Kant oscilla tra una caratterizza- 
zione formale o logica, quale residuo della rimozione da un oggetto 
concreto (o sostanza) di ogni predicato, ed una caratterizzazione mo- 
dale o empirica, come affermazione assoluta di un “oggetto” fuori 
dalla possibilità ideale del pensiero nell’esistenza, ossia nella possibi- 
lità di percezione. 

Considerando quest’ultimo punto, si potrebbe domandare: l’atto 
di pensiero, 1) rivela e qualifica l’esistenza di un certo soggetto, da 
esso in certo modo distinto, perciò l’esercizio che questi ne compie 
in proprio, quale manifestazione particolare (temporale) del suo stes- 


152 B 71; trad. it, p. 74. 

153 B 409; trad. it., p. 267. 



106 


3.Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


so essere; 2) o piuttosto, rivela l’esistenza del pensiero, come attività 
universale e sussistente, quale presupposto trascendentale di ogni de- 
terminazione ed attribuzione? Solo la prima ipotesi è coerente con 
l’auto-attribuzione deH’intelligenza quale proprietà universale di un 
certo io («questa spontaneità fa che io mi dica intelligenza», sottil. 
nostra). Per confermare tale conclusione, del resto esplicitamente so- 
stenuta da Kant, rimane da interpretare la coscienza dell’esistenza 
(dell’io) nella cornice della sua dottrina e determinare il modo secon- 
do il quale tale auto-attribuzione potrebbe esservi operata. 

Se l’esistenza è riducibile ad un predicato empirico, in quanto 
essa, quale condizione materiale di ogni esperienza, significa la fat- 
tualità di uno stato di cose che ha per soggetto una sostanza sensibil- 
mente determinabile 154 , allora potrebbe ben attribuirsi all’io indivi- 
duo che nell’atto di pensare riconosce se stesso. Soltanto, secondo 
Kant, l’io individuo, come esistente empiricamente determinato, an- 
drebbe raggiunto al termine del processo costruttivo della conoscen- 
za oggettiva. Ma poiché l’io oggetto suppone un io conoscente, come 
si deve determinare quest’ultimo? In particolare, com’è possibile sta- 
bilire l’identità, supposta nell’autocoscienza, tra l’io pensante e l’io 
pensato? 

Come si vede, si ha una circolarità che non riguarda tanto la ne- 
cessaria presupposizione dell’io ad ogni pretesa di oggettivazione ri- 
flessiva 155 — come si è notato, Kant distingue la conoscenza oggetti- 
va dalla coscienza dell’io — , quanto la più precisa determinazione 
del suo contenuto: chi è l’io pensante? 

Tale difficoltà risalta maggiormente se si bada che Kant attribui- 
sce al soggetto dell’ “io penso” e all’io come oggetto di conoscenza 
opposte proprietà ontologiche, come appare esemplarmente nella 
terza antinomia della Dialettica trascendentale e nei tardi Progressi 
della metafisica. L’essere pensante è spontaneamente attivo, perciò è 
libero. L’essere pensato è determinato nello spazio e nel tempo se- 
condo leggi causali, come ogni altro fenomeno. Solo l’io dell’“io pen- 
so” è, quindi, portatore delle note della soggettività. L’io empirico 
soggiace, invece, alle condizioni che caratterizzano ogni realtà del 

154 Cfr. B 266. 

155 Cfr. D. Henrich, Fichtes urspriingliche Einsicht , Klostermann, Frankfurt a. M. 
1967. 



I.Kant sull’esistenza dell’io pensante 


107 


mondo e che ne vincolano la possibilità di conoscenza: la fattualità 
(contingenza) del suo essere e il determinismo quale norma delle sue 
relazioni. 

«“Io sono cosciente di me stesso’’ è un pensiero che racchiude già un dop- 
pio io, l’io come soggetto e l’io come oggetto (...) Ma non ci si vuole con ciò 
riferire ad una doppia personalità, ché solo l’io, l’io penso e intuisco, è la 
persona, mentre l’io dell’oggetto da me intuito, è, al pari degli altri oggetti 
fuori di me, la cosa» 1 ’ 6 . 

La tesi premessa, “io sono cosciente di me stesso”, descrive il fat- 
to elementare in cui è dato non un puntuale e determinato atto di co- 
noscenza di sé, ma l’autocoscienza come modo d’essere proprio del- 
l’uomo come persona 157 . L’analisi della tesi giunge tuttavia tramite 
un’interpretazione dell’autocoscienza secondo lo schema della cono- 
scenza oggettiva (soggetto-oggetto) ed una serie di sostituzioni corri- 
spondenti (io = soggetto pensante =persona / me = oggetto = cosa), 
ad una conclusione paradossale. Il “me stesso” di cui l’io ha coscien- 
za (pensiero, intuizione) è una cosa. L’identità vissuta dell’autoco- 
scienza espressa nella tesi risulta scissa in due termini opposti. 

Ci si potrebbe dunque chiedere, posto il compito di spiegare l’au- 
tocoscienza come manifestazione e forma dell’io: 1) come può l’io 
dell’ “io penso” identificarsi nell’io empirico (il me, l’io come ogget- 
to) o l’io empirico nell’io dell’ “io penso”? L’uso ordinario di “io” 
rinvia ad un esistente individuo, lo stesso soggetto parlante, conno- 
tandone implicitamente l’essere sensibile ed il potere riflessivo 158 . 
L’affermazione “io penso” suppone che questo oggetto (io), che nel- 
l’atto espresso (“io penso”) si manifesta empiricamente a qualcuno 
(anche a se stesso), sia altresì il soggetto dell’atto significato (il pensa- 
re). Ma secondo Kant, l’“io penso”, come espressione del pensiero in 
atto, non può essere determinato empiricamente, né il soggetto em- 
pirico può essere portatore del pensiero, poiché è piuttosto un suo 
oggetto. 


156 Preifischrift iiber die Fortschritte der Metaphysik , Ak. XX, 270; trad. it. di G. de 
Flaviis, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 163-164. 

157 Cfr. Anthtropologie ini pragmatischer Hinsicht , Ak. VII, § 1. 

158 Cfr. I. Brink, The indexical "I”. The First Persoti in Thought and Language, 
Kluwer, Dordrecht-Boston-London 1997. 



108 


3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


Ancora, 2) se l’esistenza è un predicato empirico (nel senso indi- 
cato), come può inerire ad un’attività non sensibile come il pensiero? 
Kant nega la possibilità dell’intuizione intellettuale, almeno nei limiti 
della posizione trascendentale. Pure attribuisce all’io connotato 
nell’“io penso” l’esistenza come originaria datità, caratterizzandone 
conseguentemente l’apparire come una “percezione indeterminata” 
espressa in una “proposizione empirica” 1 ’ 9 . Il contenuto dell’“io 
penso”, come spontanea attività cosciente, fa mostra immediata di sé 
e tale auto-posizione non è riducibile all’identità formale di un con- 
cetto né alla determinatezza empirica di un “oggetto” sensibile. Inol- 
tre, l’atto espresso nell’“io penso”, il pensiero, non è in sé empirico. 
Ma il suo accadere e manifestarsi, che si verifica sempre in riferimen- 
to ad una rappresentazione sensibile, non è esprimibile altrimenti 
che in termini empirici 160 . 

In sintesi, la presupposizione dell’io come è necessaria per ogni 
conoscenza oggettiva così è necessaria alla conoscenza di sé. L’“io 
penso” ( cogito ) implica immediatamente, da parte dello stesso sog- 
getto, l’affermazione della propria esistenza ( sum) ia . Ma com’è de- 
terminabile l’io esistente, cioè il contenuto di tale presupposizione? 
Nuovamente, con il pensiero è data l’esistenza di un soggetto da que- 
sto distinto, l’io pensante, o è dato, invece, il mero accadere del pen- 
siero? In quest’ultimo caso, l’io connotato dall’“io penso” sarebbe 
identico al pensiero in atto, sì che la coscienza del pensiero non im- 
plicherebbe l’attribuzione ad un determinato soggetto. Donde il pa- 
radosso, come ebbe a notare Lichtenberg, dell’espressione persona- 
le, attiva e cosciente, “io penso”, di una realtà, per ipotesi, imperso- 
nale, il pensiero 162 . 


159 Cfr. B 422. 

160 Cfr. ibidem. Diversamente, H. Klemme e T. Rosefeldt interpretano lempiricità 
dell’“io penso” in base al suo riferimento, ma non esaminano lo statuto dell’atto 
come tale. Cfr. H. Klemme, Kants Philosophie des Subjekts. Systematische und ent- 
wicklungsgeschichtliche XJntersuchungen zum Verhàltnis von Selbstbeivujitsein und 
Selbsterkenntnis , Meiner, Hamburg 1996; T. Rosefeldt, Dos logische Ich. Kant iiber 
den Gehalt des Begriffes von sich selbst, Philo, Berlin 2000. 

161 Cfr. A 354-355. 

162 Cfr. G. Zoller, Lichtenberg and Kant on thè Subject of Thinking, «Journal of thè 
History of Philosophy» 30 (1992), pp. 417-441. 



II.Fichte e la concezione sistematica dell’io 


109 


II. Fichte e la concezione sistematica dell’io 

Nella Seconda introduzione alla dottrina della Scienza , Fichte affronta 
alcuni dei problemi delineati facendo diretto riferimento alla Critica 
della ragion pura. Egli vuole qui mostrare ai suoi critici kantiani, e a 
Kant, che la Wissenschaftslehre non è estranea alla filosofia trascen- 
dentale ma che, anzi, solo essa viene in suo soccorso 163 . Si è notata la 
difficoltà in cui si trovava il filosofo di Kònigsberg nello spiegare ciò 
che potremmo chiamare la “coscienza esistenziale” dell’io. Questa ri- 
chiedeva un facoltà capace di attingere una realtà vivente in maniera 
immediata, al di qua della sua determinazione oggettiva, l’intuizione. 
Ma l’intuizione aveva ora per oggetto una realtà non sensibile, lo 
stesso soggetto pensante. Il problema consisteva, dunque, nello scio- 
gliere l’apparente contraddizione insita nel concetto di un’intuizione 
intellettuale. 

Soffermiamoci su di un passo dove la questione è esaminata da 
Fichte (1: § 5) e verifichiamo se egli giunga di qui ad una concezione 
dell’io più consistente (2: § 11) 164 . 


1. L’intuizione intellettuale 

Seconda introduzione alla dottrina della scienza , § 5 

«Chiamo intuizione intellettuale questo intuire se stesso che si pre- 
tende dal filosofo nel compiere l’atto per il quale l’io gli si genera 
[1]. Essa è la coscienza immediata che io agisco, e di che cosa faccio 
nell’agire: è ciò in grazia di cui io so qualche cosa perché lo faccio 

163 Cfr. M. Ivaldo, I principi del sapere. La visione trascendentale di Fichte, Biblio- 
pola, Napoli 1987. 

164 Cfr. E. Heintel, “Zum Begriff des Menschen als ‘Daseinde Transzendenta- 
litàt’”, in L’Héritage de Kant , Beuchesne, Paris 1982, pp. 311-328; J. Taber, Fichte’s 
Emendation ofKant, «Kant-Studien» 74/4 (1984), pp. 442-459; G. di Tommaso, Dot- 
trina della scienza e genesi della filosofia della storia nel primo Fichte, Japadre, L’A- 
quila 1986; F. Neuhosuer, Fichte’s Theory of Suhjectivity , Cambridge University 
Press, Cambridge 1990; J. P. Mittmann, Das Prinzip der Selbstgewifheit, Athenaum 
Hain Hanstein, Bodenheim 1993; K. Dusing, Strukturmodelle des Selbstbewufltseins. 
Ein systematischer Entivurf, «Fichte-Studien» 7 (1995), pp. 7-26; G. Zoller, Die In- 
dividualitat des Ich in Fichtes Zweiter jenaer Wissenschaftslehre (1796-99), «Revue 
Internationale de Philosophie» 206/4 (1998), pp. 641-663; C. Hanewald, Absolutes 
und Existenzgewiflheit des Ich, «Fichte-Studien» 20 (2003), pp. 13-25. 



110 


3.Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


[2] 165 . Che si dia una tale facoltà dell’intuizione intellettuale non può 
dimostrarsi per concetti ( Begriffe ), come non può ricavarsi da con- 
cetti cosa essa sia [3] (...) E però possibile far capire a ciascuno, e in 
quell’esperienza ( Erfahrung ) che egli stesso ammette, che tale intui- 
zione intellettuale si presenta in ogni momento della sua coscienza. 
Non posso fare un passo, né muovere mano o piede, senza l’intuizio- 
ne intellettuale della mia autocoscienza in queste azioni; soltanto per 
essa io distinguo il mio agire, e me in esso, dall’oggetto dell’agire, in 
cui m’imbatto [4] (...) Ma anche ammesso si debba concedere che 
non si dia una coscienza immediata e isolata dell’intuizione intellet- 
tuale, per quale via il filosofo giunge a conoscerla, e a farsene una 
rappresentazione isolata? La mia risposta è: nello stesso modo, senza 
dubbio, con cui egli giunge a conoscere l’intuizione sensibile e a far- 
sene una rappresentazione isolata, cioè traendo conclusioni a partire 
da evidenti fatti di coscienza [5]. Il processo argomentativo per cui il 
filosofo giunge a questa affermazione dell’intuizione intellettuale è il 
seguente: io mi propongo di pensare questa o quella cosa determina- 
ta, e ne segue il pensiero determinato; mi propongo di fare questa o 
quella cosa determinata, e ne segue la rappresentazione che ciò acca- 
de. Questo è fatto di coscienza ( Tatsache des Bewufitseins). Se consi- 
dero tutto questo secondo le leggi della coscienza meramente sensi- 
bile, in esso non c’è niente di più di ciò che si è indicato, cioè un sus- 
seguirsi di certe rappresentazioni: io acquisterei consapevolezza sol- 
tanto della loro successione nel tempo, e questo è tutto ciò che po- 
trei affermare [6] (...) In questa prospettiva io rimango meramente 
passivo, sono la scena immobile ( der ruhende Schauplatz) sulla quale 
rappresentazioni erano sostituite da rappresentazioni, e non il princi- 
pio attivo che le avrebbe prodotte. Ora però io faccio mio questo 
principio, e non posso rinunziare a questa assunzione senza rinunzia- 
re a me stesso; come è possibile [7]? Negli ingredienti sensibili da 
me indicati non c’è niente che mi autorizzi a ciò; c’è quindi una co- 
scienza particolare, e immediata, dunque un’intuizione — e non 
un’intuizione sensibile, volta soltanto a un sussistere materiale, ma 


165 «Dieses dem Philosophen angemutete Anschauen seiner selbst im Vollziehen 
des Aktes, wodurch ihm das Ich entsteht, nenne ich intellektuelle Anschauimg. Sie 
ist das unmitellbare BewuBtsein; daB ich handle, und was ich handle: sie ist das, wo- 
durch ich etwas weiB, weil ich es tue» ( ad loc.) 



II. Fichte e la concezione sistematica dell’io 


111 


intuizione della semplice attività che è qualcosa di progrediente e 

non di fermo, che è vita e non essere 166 [8]» 167 . 

a) Commento 

1. Chiamo intuizione intellettuale. . . l’atto per il quale l’io gli si gene- 
ra. La dottrina dell’intuizione intellettuale appare sistematicamente 
formulata nell’opera successiva alla prima versione della dottrina del- 
la scienza (1794). Fichte vi adotta una metodologia “genetica”, di ra- 
dicale ricostruzione del mondo dell’esperienza dall’io, come princi- 
pio costituente. Quest’ultimo è sempre attinto dalla necessaria, sua 
immediata auto-posizione. Ma piuttosto che procedere, come prima, 
dall’evidenza di tale struttura, quale risultato di una riflessione 
astrattiva, egli avanza ora in modo induttivo, facendo rilevare la real- 
tà dell’io operativamente, nel compimento della stessa riflessione 
proposta al lettore. «La prima domanda sarebbe dunque questa: 
come è l’io per se stesso? E il primo postulato sarebbe: pensati, co- 
struisci il concetto di te stesso; e osserva come lo fai» 168 . 

2. La coscienza immediata che io agisco, e di che cosa faccio. Rico- 
nosciuto il carattere operativo della conoscenza dell’io, Fichte ne ri- 
conduce la modalità ed il grado di certezza all’immediatezza dell’agi- 
re cosciente. La coscienza non descrive l’agire come un fatto ma ne 
accompagna lo stesso accadere. L’io è colto attraverso l’attività, poi- 
ché il concetto dell’io si genera attraverso un atto riflessivo ed è 
quindi identificato con esso. In altro modo, Fichte lega l’autoco- 
scienza non solo all’agire in generale e alla riflessività del pensiero, 
ma all’agire pratico in rapporto transitivo col mondo sensibile: «Io 
trovo me stesso operante nel mondo sensibile. Di qui ha inizio ogni 
coscienza; senza questa coscienza del mio attivo operare non vi è al- 

• 169 

cuna autocoscienza» . 


166 «[M]ithin ist es ein besonderes, und zwar ein unmittelbares BewuBtsein, also 
Anschauung, und zwar nicht sinnliche Anschauung, die auf ein materielles Bestehen 
ginge, sondern Anschauung der bloBen Tàtigkeit, die nichts Stehendes ist, sondern 
ein Fortgehendes, kein Sein, sondern ein Leben» (ad toc). 

167 Seconda introduzione , GA 1/4, 216-218; trad. it., pp. 44-47. 

168 Fichte (d’ora in poi in questo capitolo omettiamo l’indicazione dell’autore), Se- 
conda introduzione , GA 1/4, 213; trad. it., p. 40. 



112 


3.Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


3. Che si dia... non può dimostrarsi per concetti. La tesi si può 
spiegare riferendosi ora al carattere soggettivo ora al carattere opera- 
tivo dell’intuizione intellettuale e del suo contenuto. La riduzione lo- 
gica dei concetti richiede, infine, l’attività dell’io pensante che li co- 
stituisce ed apprende. Tale attività non può essere definita né può es- 
sere dimostrata da un’istanza oggettiva distinta, ma deve presentarsi 
da sé, pena un ricorso all’infinito nella riflessione. Inoltre, l’attività 
non può essere rappresentata in un concetto, pena il suo decadere 
come tale. A tale indimostrabilità intrinseca dell’agire soggettivo, Fi- 
chte aggiunge altrove il suo aspetto libero, ciò per cui il suo essere 
non può essere legato ad un principio causale che lo necessiti sul pia- 
no reale, ma al presentarsi di una necessità di ordine morale ( Auffor - 
derung ) cui l’io liberamente corrisponde. «L’attività di chi rappre- 
senta, che assume come principio di spiegazione delle rappresenta- 
zioni, l’idealista la fa vedere effettivamente nella coscienza, e ovvia- 
mente, non in una rappresentazione necessaria e perciò data e trova- 
ta, ma in una rappresentazione libera da produrre attivamente» 1 ' 0 . 

4. Soltanto per essa io distinguo il mio agire, e me in esso. L’intui- 
zione intellettuale è ora assimilata alla stessa autocoscienza. Come la 
presenza del soggetto connota ogni azione dell’io e ne condiziona 
l’auto-attribuzione, così pure l’intuizione intellettuale. O piuttosto, 
l’intuizione intellettuale esplicita per chiunque, non solo per il filoso- 
fo, l’autocoscienza costitutiva della vita personale, dove l’io ha sem- 
pre presente se stesso “di scorcio”, fino alla chiara distinzione della 
soggettività. In ogni caso, l’autocoscienza è qui riconosciuta quale ca- 
ratteristica della vita umana che è presente ad ogni sua applicazione 
e ad ogni livello riflessivo. Tale impostazione risulta, invece, compro- 
messa nei luoghi in cui Fichte assegna alla coscienza un naturale 
oblio, che sarebbe superato soltanto dalla riflessione filosofica. Il 
rapporto di vita e riflessione è, infatti, conseguentemente descritto 
nei termini oppositivi di soggetto e oggetto. «La vita è propriamente 
non filosofare; filosofare è non vivere (...) È un’opposizione comple- 
ta, e un punto di unione non è possibile altrimenti che come il com- 

169 Sittenlehre 1798, GA 1/5, 22-23; trad. it. di C. de Pascale, Laterza, Roma-Bari 
1994, p. 5. 

1,0 Wissenschaftslehre “nova metodo” (ed. Halle), GA IV/2, 23; trad. it. di R. Can- 
toni, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano-Varese 1959, p. 37. 



II. Fichte e la concezione sistematica dell’io 


113 


prendere la X che soggiace al soggetto-oggetto, all’io; eccetto che 
nella coscienza del vero filosofo cui sono presenti entrambi questi 
punti» 1 ' 1 . 

5. Per quale via il filosofo giunge a farsene una rappresentazione 
isolata? Ammesso che l’intuizione intellettuale, come atto manife- 
stante l’io, non emerga mai alla coscienza come un dato immediato, 
isolato od astratto, ma che l’io appaia sempre implicato in un rap- 
porto, come può il filosofo giungere a parlare dell’intuizione intellet- 
tuale e dell’io in quanto tali? Il problema consiste nel difendere l’ori- 
ginario e specifico apparire dell’io rispetto all’apparire dell’essere og- 
gettivo, senza negare il necessario riferimento dell’io a questo, sia nel 
conoscere sia nell’agire. E chiaro come in tale contesto Fichte cerchi 
di far emergere l’intuizione intellettuale dallo stesso tessuto dell’im- 
postazione kantiana. Egli non mira ad una dimostrazione dell’intui- 
zione intellettuale, il che sarebbe contraddittorio rispetto a quanto 
prima dichiarato. Il procedimento è piuttosto negativo o dialettico: 
mostrare, da un lato, che non è possibile derivare l’io per costruzio- 
ne, come potrebbe suggerire un’interpretazione empiristica dell’uni- 
tà sintetica di Kant; d’altro lato, che il discorso sull’“io penso” pre- 
suppone una coscienza immediata dell’io e della sua attività come 
fonte da cui il filosofo attinge per ricavarne un concetto astratto. 

6. Io acquisterei consapevolezza soltanto della loro successione. È 

ora sviluppata una dimostrazione per assurdo, assumendo l’ipotesi di 
una radicale riduzione fenomenologica, in senso humiano, dell’io e 
dell’agire. La negazione di una specifica datità dell’io è ricondotta 
agli esiti di un estremo oggettivismo. L’univoca concentrazione sul- 
l’apparire, lascia in ombra il soggetto agente. Avremmo, così, una se- 
quenza di dati, ma non avremmo il principio reale che li lega. Il sog- 
getto da causa diverrebbe spettatore delle supposte “sue” azioni. In 
modo analogo, Fichte contesta l’interpretazione di quanti sostengo- 
no che il concetto di io in Kant sarebbe ricavato, a posteriori, per 
identificazione del medesimo soggetto nei diversi atti di pensiero. 
«Ma di quale Io si parla? Forse quello che i kantiani mettono tran- 
quillamente insieme ricavandone gli elementi da un molteplice di 
rappresentazioni, in nessuna delle quali l’io era, mentre è in esse tut- 

171 Allegato alla Lettera a Reinhold e Jacobi, 22 aprile 1799, GA III/3, 333. 



114 


3.Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


te insieme [?]» 172 . In tal modo, Fichte osserva che l’io è presupposto 
alla possibilità di un’ipotetica sua identificazione successiva negli 
atti. 

7. Ora però io faccio mio questo principio. Che l’io sia soggetto 
agente non può essere negato senza negare l’io stesso. Come si è vi- 
sto, l’io si coglie attraverso l’attività e come principio di attività. D’al- 
tro lato, è sottolineata la componente pratica dell’affermarsi dell’io, 
quindi dell’atto e dello stesso contenuto dell’autocoscienza. Il rico- 
noscimento dell’assolutezza o relatività dell’io (della sua autonomia o 
dipendenza, attività o passività; e, sul piano epistemico, della sua im- 
mediatezza o mediatezza) porta ad espressione un precedente impe- 
gno dalla libertà mediante cui la realtà dell’io è stata effettivamente 
qualificata in un modo o nell’altro. Questo punto è rimarcato nella 
Prima introduzione alla dottrina della scienza. «Alcuni, che non si 
sono ancora innalzati al pieno sentimento della loro libertà, e della 
loro assoluta indipendenza, trovano se stessi soltanto nella rappre- 
sentazione delle cose; essi hanno soltanto quell’autocoscienza disper- 
sa, fissa agli oggetti, che va messa insieme dalla molteplicità di essi 
(...) Chi, invece, è consapevole della propria autonomia, e della pro- 
pria indipendenza da tutto ciò che è fuori di lui — e lo si diventa sol- 
tanto perché, per opera propria ci si è resi qualcosa — , costui non 
bisogno delle cose come sostegni del suo sé » 173 . 

8. Intuizione della semplice attività. L’oggettività sensibile non 
esprime di per sé il soggetto cui essa si manifesta. La radicale ridu- 
zione operata non consente di recuperare l’io, che, tuttavia, è un pre- 
supposto irrinunciabile. L’io rivendica, dunque, una fonte autonoma 
di conoscenza. Dev’essere un’intuizione, poiché l’essere dell’io non 
può venir colto attraverso un altro medio, senza contraddizione. 
L’intuizione che deve essere introdotta per rendere conto dell’appa- 
rire dell’io non ha, però, ad oggetto, come l’intuizione in generale 
per Kant, l’ordine sensibile. La realtà presente non corrisponde, in 
tal caso, a quanto soddisfa le condizioni della conoscenza sensibile o 
alla determinatezza spazio temporale in cui è sempre pensata la real- 

172 Seconda introduzione , GA 1/4, 228; traci it., p. 57. 

1,1 Prima introduzione alla dottrina della scienza, GA 1/4, 194-195; trad. it. pp. 18- 


19 . 



II.Fichte e la concezione sistematica dell’io 


115 


tà esistente, la sostanza materiale. La determinatezza che inerisce alla 
sostanza sensibile, quale realtà qualificata dal semplice sussistere, im- 
pedisce che una tale caratterizzazione venga trasferita all’io. L’io, in 
quanto coincide con l’attività dell’intelligenza, non è, quindi, com- 
prensibile nei termini dell’essere: «all’intelligenza non può essere at- 
tribuito (...) un essere in senso proprio, né un sussistere — perché 
ciò è il risultato di una azione reciproca, e non esiste né viene pre- 
sunto niente con cui l’intelligenza potrebbe essere posta in azione re- 
ciproca. Per l’idealismo l’intelligenza è un agire, e assolutamente 
niente più; non si deve chiamarla un che di attivo, in quanto con 
questa espressione si intende qualcosa di sussistente al quale si ac- 
compagni l’attività» 1 ' 4 . 

b) Analisi 

L’intuizione intellettuale, secondo Fichte, non termina, come nella 
sua versione criticata da Kant, nella determinazione del contenuto 
intelligibile di una “cosa”, sia una realtà esterna sia la realtà dello 
stesso soggetto, in una rappresentazione. Essa afferisce, invece, al 
campo d’immediata presenza del soggetto nel suo agire e di quanto è 
dato con esso. In tal senso, l’intuizione intellettuale non ha un’inten- 
zionalità oggettiva ma soggettiva; non ha per contenuto un ente ma 
un agire. 

Da un lato, Fichte mostra come sia questa la prospettiva che, 
come presupposto implicito, anima l’esperienza nel suo senso più 
comprensivo; in un senso, cioè, esteso ad ogni atto e ad ogni situa- 
zione in cui l’io si trova coinvolto. Ogni determinazione predicativa 
dell’io presuppone un’attività riflessiva che, come tale, non può esse- 
re derivata da altre istanze. Solo essa presiede all’individuazione del- 
l’io, la quale condiziona la possibilità di ogni sua qualificazione e 
rapporto. D’altro lato, egli confuta la pretesa di riattingere il senso 
immediato dell’io da una verifica oggettiva. Una riduzione in senso 
oggettivistico, ulteriormente ristretta in senso empiristico, lascerebbe 
sempre alle spalle ciò che pretende di afferrare; né potrebbe mai re- 
cuperare la presenza dell’io nei suoi atti, ch’era il dato che si doveva 


174 Ibidem , 199-200; trad. it., p. 25. 



116 


3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


spiegare. Da questa conclusione, Fichte torna al dato dell’autoco- 
scienza, precisandone il contenuto. 

L’intuizione, come immediata avvertenza dell’io, dovrebbe riferi- 
re non qualcosa di fisso, fattualmente dato e determinato, ma qual- 
cosa d’in sé attivo, come autodeterminantesi. Posto che l’essere sia 
definito per opposizione all’agire, come qualificazione caratteristica 
della sostanza, e posto che quest 'ultima debba essere identificata nel- 
la determinatezza reale ed intenzionale dell’essere sensibile, la realtà 
dell’io, com’essa si manifesta alla coscienza nel pensiero e nella pras- 
si, dev’essere, altrimenti, connotata dalla spontaneità ed immediatez- 
za dell’agire vitale: come «qualcosa di progrediente e non di fermo, 
che è vita e non essere». 

Fichte assegna dunque alla coscienza dell’agire soggettivo un’im- 
mediatezza che, invece, sottrae alla conoscenza dell’essere. Analoga- 
mente a Kant, l’essere è in tal modo univocamente qualificato in sen- 
so intenzionale, come oggetto di una rappresentazione corrisponden- 
te alla determinatezza e fattualità della sostanza sensibile 1 ' 3 . Per en- 
trambe queste note, la nozione dell’essere manca di assolutezza 1 ' 6 . 
Ma l’io esistente sfugge a tale limitazione. La sua realtà dev’esser 
mantenuta nel suo carattere immediato ed in sé attivo, ed essere, per- 
ciò, colta in una modalità diversa dalla rappresentazione. E questo, 
infatti, il dato dell’autocoscienza, conforme all’esperienza della liber- 
tà e della coscienza morale. L’unica modalità che, secondo Fichte, 
soddisfa tali condizioni è l’intuizione intellettuale per mezzo della 
quale l’io viene a coincidere con la stessa attività intelligente. 

Si badi che per il filosofo tedesco è l’intelligenza il soggetto, il 
fondamento e la determinazione più sintetica dell’attività in generale, 
e quindi dell’agire dell’io 1 ". Da tal punto di vista, l’intuizione intel- 
lettuale sembra corrispondere alle note prescritte da Kant per l’auto- 
coscienza: «io non posso determinare la mia esistenza come quella di 
essere spontaneo; ma io mi rappresento solo la spontaneità del mio 
pensiero»; «l’unità dell’atto, del quale egli, come di un atto, è co- 
sciente anche senza sensibilità». Col vantaggio che ora è esplicita- 
mente giustificato il motivo per cui la coscienza dell’atto, in cui l’au- 

175 Cfr. Riikerinnerungen, Antworten, Fragen , GA 11/5, 154. 

176 Cfr. Wissenschaftslehre “nova metodo" (ed. Halle), GA IV/2, 39. 

177 Cfr. Sittenlehre , 1798, GA 1/5, 50-51, 133. 



II.Fichte e la concezione sistematica dell’io 


117 


tocoscienza consiste, dev’essere compresa nei termini dell’intuizione 
(o percezione). Tale motivo consiste nel carattere (realmente ed epi- 
stemicamente) originario dell’attività. L’attività in generale non può 
essere rappresentata in un concetto né può essere dimostrata senza 
contraddizione, o senza presupporre come dato per altra via il suo 
contenuto. Ciò vale specialmente per l’agire proprio dell’io: l’intelli- 
genza e la libertà. Questo punto è efficacemente sintetizzato in un 
passo di Schelling contemporaneo al testo che stiamo esaminando. 

«Tale conoscenza è detta “intuizione”, poiché immediata, “intellettuale”, 
poiché tale conoscenza ha per oggetto un’attività che s’innalza sopra tutta 
l’empiria e non può mai essere raggiunta attraverso concetti. Infatti, ciò che 
è espresso in concetti rimane in quiete. Ci sono concetti soltanto per oggetti 
e per ciò che è limitato ed è intuito sensibilmente. Il concetto del movimento 
non è il movimento stesso, e senza l'intuizione non sapremmo che cosa sia. 

La libertà viene afferrata soltanto dalla libertà, l’attività dall’attività» 1 ' 8 . 

Ma se l’intuizione intellettuale offre un reale accesso alla soggetti- 
vità (in quanto l’interpretazione datane da Fichte scioglie il nodo al- 
l’origine delle perplessità di Kant a tale proposito, discernendo la 
modalità intenzionale dell’intuizione, come attingimento immediato 
della realtà, dal suo contenuto, la realtà sensibile, ed attribuendo 
realtà ed immediatezza all’agire), si ha ancora la difficoltà di determi- 
narne l’esercizio ed il contenuto in rapporto all’io esistente da cui si 
era partiti per rilevarla («non posso fare un passo, né muovere mano 
o piede, senza l’intuizione intellettuale della mia autocoscienza in 
queste azioni») 179 . Avevamo notato come fosse dettata da tale istanza 
antropologica (il necessario riferimento dell’attività pensante ad un 
sostrato sensibile sia nel soggetto sia nell’oggetto), la maggiore riser- 
va che tratteneva Kant dal riconoscimento dell’intuizione intellettua- 
le. 

D’altra parte, abbiamo notato la difficoltà del filosofo di Kònig- 
sberg nel trattenere nei limiti del suo “umanesimo” l’infinità sottesa 


178 F. W.J. Schelling, Abhandlungen zur Erlàuterung des Idealismus der Wissens- 
schaftslehre , 1796/1797, in Schellings Werke, Bd. I, Miinchen, Beck, 1979, p. 325. 

175 Su questa applicazione “empirica” dell’intuizione intellettuale si sofferma X. 
Tilliette, ma non sembra rilevarne la problematicità nel senso che stiamo osservan- 
do: cfr. Id., L’ intuizione intellettuale da Kant a Hegel , Morcelliana, Brescia 2001, p. 
241 e ss. 



118 


3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


alla spontaneità delirio penso” da lui stesso stabilita. La realtà indi- 
vidua dell’io esistente, l’uomo (N. N.), già supposto soggetto dell’in- 
tuizione intellettuale e destinatario dell’invito alla riflessione («pen- 
sati... e osserva come lo fai»), non può essere altrimenti descritta che 
nei limiti dell’essere sensibile. Ma se questa rappresentazione costrin- 
ge ad una determinazione intenzionale dell’io come oggetto, si ha la 
difficoltà di determinare la realtà e l’autocoscienza del soggetto cui 
tale rappresentazione si manifesta. 

In particolare, come l’io individuo esistente diviene cosciente di 
sé, posto che l’intuizione intellettuale, che dovrebbe, appunto, spie- 
garne l’autocoscienza, afferisce ad una pura attività? Il problema già 
riscontrato in Kant circa l’attribuzione dell’esistenza e del pensiero 
all’io individuo sembra ripresentarsi inalterato: come garantire la 
soggettività dell’io individuo, e quindi la reale portata esplicativa del- 
l’intuizione intellettuale nei riguardi dell’autocoscienza? Per affron- 
tare questo problema conviene soffermarsi sul contenuto dell’intui- 
zione intellettuale, l’io, e determinarne con maggiore precisione il si- 
gnificato. 

2. La nozione dell’io 

Seconda introduzione alla dottrina della scienza, § 11 

«Voglio ancora far cenno, con due parole, a una singolare confusio- 
ne: quella tra l’io, inteso come intuizione intellettuale, da cui la dot- 
trina della scienza prende le mosse, e l’io, inteso come idea (als Idee), 
con cui essa conclude [1], Nell’io come intuizione intellettuale c’è 
soltanto la forma dell’egoità ( die Form der Ichheit), l’agire ritornante 
in se stesso, che diventa naturalmente anche contenuto dell’io — tale 
intuizione a suo luogo è stata descritta a sufficienza. L’io, in questa 
figurazione, è soltanto per il filosofo, e, nel coglierlo, ci si innalza alla 
filosofia [2], L’Io come idea è presente per l’io stesso, quello che il fi- 
losofo considera; e il filosofo lo presenta non come l’idea di se stesso, 
ma come l’idea dell’uomo naturale, e pure completamente educato; 
proprio come di un essere in senso stretto si può parlare non per il 
filosofo, ma soltanto per l’io che è oggetto della sua analisi [31. Que- 
st’ultimo dunque è situato in una serie del pensare del tutto diversa 



II. Fichte e la concezione sistematica dell’io 


119 


da quella del primo [4]. L’io, in quanto idea, è l’ente razionale, in 
quanto ha dato in se stesso completa manifestazione della ragione 
universale, è realmente tutto razionale e è non altro che razionale: ha 
cessato pertanto, aggiungo, di essere un individuo, in quanto poteva 
esser tale soltanto in grazia della limitazione sensibile [5]. Per un al- 
tro lato, l’io è idea in quanto l’ente razionale ha realizzato compiuta- 
mente la ragione fuori di sé, nel mondo, il quale pertanto rimane po- 
sto anche in questa idea 180 [6] (...) L’idea dell’io ha in comune con 
l’io in quanto intuizione soltanto il fatto che, in entrambe, l’io non è 
pensato come individuo; non nell’intuizione perché l’egoità non è 
ancora tanto determinata da essere individualità, non nell’idea per- 
ché in essa, al contrario, l’educazione secondo leggi universali ha fat- 
to sparire l’individualità [7]» 181 . 

a) Commento 

1. Una singolare confusione. Fichte allude nel seguente § 12 a quanti, 
senza nominarli, hanno identificato la dottrina della scienza con un 
sistema dell’“egoismo”, quasi nel principio dell’autonomia dell’io, 
postulato da Fichte si celebrasse l’io individuo. Di contro, egli riba- 
disce l’universalità come orizzonte caratteristico del proprio pensie- 
ro: «si spaccia per egoismo un sistema del quale il punto di partenza 
e quello di arrivo, nonché tutto il carattere, mirano a far sé che l’indi- 
vidualità venga dimenticata sul piano teoretico e negata su quello 
pratico» 182 . Il paragrafo che ora leggiamo è quindi dedicato a preci- 
sare il significato secondo cui Fichte intende l’“io” e il rapporto tra 
l’individualità personale, secondo il senso comune, e la nozione filo- 
sofica di soggettività. Circa l’“egoismo”, il termine a partire da Wolff 
era inteso quale sinonimo di solipsismo teorico 183 . Ma ne\Y Antropo- 


180 «Das Idi als Idee, ist das Vernunftwesen, inwiefern es die allgemeine Vernunft 
teils in sich selbst vollkommen dargestellt hat, wirklich durchaus vernùnftig, und ni- 
chts, als verniinftig ist; also, auch aufgehort hat, Individuum zu sein, welches letzte- 
re es nur durch sinnliche Beschrànkung war: teils, inwiefern das Vernunftwesen die 
Vernunft auch aufier sich in der Welt, die demnach auch in dieser Idee gesetzt 
bleibt, ausfiihrlich realisiert hat» (ad loc.). 

181 Seconda introduzione, GA 1/4, 265-266; trad. it., pp. 97-98. 

182 Ibidem, GA 1/4, 267; trad. it., pp. 98-99. 

183 Cfr. H. Reiner, “Egoismus” in Historisches Worterbuch der Philosophie, 
Schwabe, Basel 1972, Bd. II, coll. 310-314. 



120 


3.Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


logia da un punto di vista pragmatico, Kant codifica le valenze morali 
di cui il termine era già rivestito 184 . 

2. La forma dell’egoità. È ora distinto il contenuto dell’intuizione 
intellettuale. Questa rappresenta, in una prospettiva riflessiva ed uni- 
versale, cioè dal punto di vista filosofico, l’essenza (“forma”) dell’at- 
tività riflessa in cui l’io consiste. L’intuizione ha dunque ad oggetto 
tale attività, ma astratta dall’io individuo cui si suppone essa appar- 
tenga. L’intuizione intellettuale è ora attribuita non all’io in quanto 
tale, ma al filosofo che la osserva. Si noti l’assimilazione di io, “egoi- 
tà” ed attività riflessa. Tale equivalenza è in altri passi formulata in 
modo analogo: «Il carattere dell’essere razionale è attività in generale 
che ritorna in se stessa (egoità, soggettività)» 18 ’. La descrizione qui 
presentata del modo e del contenuto dell’intuizione intellettuale, 
come estrinseca all’io cui si riferisce e come intenzionante la forma 
(l’“egoità”) di questo, potrebbe sollevare la questione se l’intuizione 
afferisca ancora, come nel § 5, ad un’attività oppure alla rappresenta- 
zione di un’attività. Nel primo caso si avrebbe la difficoltà di render 
conto del carattere attivo di una forma separata ed universale (come, 
secondo quanto abbiamo letto nel passo di Schelling dianzi citato, «il 
concetto del movimento non è il movimento stesso» così, si potrebbe 
aggiungere, l’attività in sé, senza soggetto, corrisponde ad un’astra- 
zione, perciò non è in sé attività). Nel secondo caso, posto che la rap- 
presentazione richieda sempre l’intuizione, rimarrebbe il problema 
di stabilire l’identità tra l’io oggetto e l’io soggetto (“il filosofo”). 

3. L'Io come idea è presente per l’io stesso. L’idea dell’io non rap- 
presenta la forma nella quale l’io, sollevato alla riflessione filosofica, 
si specchia, ma la rappresentazione che l’io stesso ha di sé, quale 
meta del proprio tendere. L’identificazione dell’io, in questo caso, 
non significa un atto riflessivo particolare ed arbitrario. L’identifica- 
zione significa, piuttosto, un processo di costituzione dell’io tramite 
l’azione, come identità reale ed assoluta. La riflessività come forma 
di esistenza coincide con l’ideale kantiano dell’autonomia. «L’Io 
puro può essere rappresentato soltanto in modo negativo, come l’op- 

184 Cfr. ivi Ak VII, pp. 128-130. 

185 Naturrecht (1797), GA 1/3, 329; trad. it. di L. Fonnesu, Laterza, Roma-Bari 
1994, p. 17, corsivo nel testo. 



II.Fichte e la concezione sistematica dell’io 


121 


posto del non-Io, il cui carattere è la molteplicità e quindi come 
completa, assoluta unità; esso è sempre uno e identico e non può mai 
essere altro (...) [M]a l’Io empirico, determinato e determinabile dal- 
le cose esterne, può contraddirsi; e, ogni volta che esso si contraddi- 
ce, dà con ciò una prova sicura di essere allora determinato non da 
se stesso, non secondo la forma dell’Io puro, ma dalle cose esterne. E 
ciò non deve essere: poiché l’uomo è fine a se stesso» 186 . 

4. Una serie del pensare del tutto diversa. La precisazione rinvia ad 
un punto più volte ribadito precedentemente e che sarà ripreso poco 
più tardi nel confronto con Lettera a Fichte di Jacobi nei termini 
equivalenti del rapporto tra speculazione e vita, teoria e prassi, idea- 
lismo e realismo 18 '. A tale riguardo, Fichte insiste sulla peculiare pro- 
spettiva della riflessione filosofica, la quale, se procede dall’unità del- 
l’io vivente, se ne distacca solo per poterlo rappresentare e spiegare. 
In tal modo, l’idealismo trascendentale di Fichte intende giustificare 
la posizione realistica, precisamente come suo oggetto o explican- 
dum, cioè da un punto di vista ed in base ad un principio ad essa 
estrinseco. Tale punto di vista risponde, infatti, secondo Fichte, ad 
un interesse speculativo, di per sé libero e contingente, ed anzi con- 
trario o almeno alieno all’interesse della vita. La “serie speculativa” 
(o “ideale”) è inaugurata dall’intuizione intellettuale con la quale il 
filosofo si svincola dalla “serie reale” (o “meccanismo”) della vita, 
per derivare dalla forma dell’egoità le leggi del suo svolgimento. «Il 
realismo, il quale s’impone a noi tutti, anche al più deciso idealista, 
non appena questi debba passare all’azione, e intendiamo l’assunzio- 
ne che esistano oggetti fuori, e del tutto indipendenti da noi — è im- 
plicito nell’idealismo stesso, trova in lui la sua spiegazione e la sua 
deduzione» 188 . 

5. È realmente tutto razionale. L’ente razionale partecipa della ra- 
zionalità in quanto, per un verso, la razionalità lo identifica come 
tale; d’altro verso, contiene qualcosa per il quale se ne distacca. L’in- 
dividualità dell’ente razionale è attribuita, infatti, ad una nota oppo- 


186 Uher die Bestimmung des Gelehrten , GA 1/3, 29-30; trad it. di V.E. Alfieri, Mur- 
sia, Milano 1987, pp. 52-53. 

187 Cfr. infra, capitolo 5. 

188 Seconda introduzione, GA 1/4, 210-211 in nota; trad. it., p. 37 in nota. 



122 


3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


sta alla sua connotazione razionale: la limitazione delPessere sensibi- 
le. Sul piano dinamico, la compiuta realizzazione della forma 
(l’“egoità”) nell’io individuo, cioè la reale identificazione dell’esisten- 
te con l’idea, comporta l’estinzione di quanto nell’individuo non 
coincide con la forma. Ma ciò è, paradossalmente, l’individuo stesso. 
Tale paradosso corrisponde, nondimeno, all’interpretazione ontolo- 
gica del compito morale, già descritto nell’imperativo categorico di 
Kant, di realizzazione proiettata all’infinito dell’universale nell’indi- 
viduale: «qui la ragione è l’unico in sé, mentre l’individualità è sol- 
tanto accidentale; la ragione è fine, e la personalità mezzo; questuiti - 
ma è soltanto un modo particolare di esprimere la ragione, ed è de- 
stinata necessariamente a perdersi nella forma universale di essa» 189 . 

6. La ragione fuori di sé, nel mondo. L’identificazione di io e ra- 
gione consente di apprezzare l’apertura universale del primo. L’idea 
dell’io così come trascende l’opposizione di individuo e forma, cioè 
di io e egoità, così trascende l’opposizione di soggettività e oggettivi- 
tà, di io e mondo. La sintesi sarebbe l’identificazione dell’intero esse- 
re sensibile, comprendente l’io individuo, con la ragione che ne pre- 
scrive e ne costituisce essa stessa il dover essere. «Il risultato finale 
(...) è il seguente: nell’accordo completo dell’uomo con sé medesimo 
e (affinché egli possa giungere alla coerenza con se stesso) nell’accor- 
do di tutte le cose esterne coi concetti pratici necessari ch’egli se ne 
forma (i concetti cioè che determinano come esse devono essere) 
consiste il fine ultimo e supremo dell’uomo» 190 . 

7. In entrambe, l’io non è pensato come individuo. Il piano della 
ragione è definito dal trascendimento dell’individualità: sia la ragione 
teorica, che definisce il punto di vista dal quale il filosofo osserva la 
realtà universale (forma) dell’io, sia la ragione pratica, che guida l’io 
alla realizzazione di una realtà universale (idea). Il primo trascendi- 
mento è ideale, il secondo è reale. L’identificazione realizzata dell’io 
con l’egoità o ragione descrive uno stato nel quale la ragione non si 
trova determinata dal rapporto ad un dato trascendente l’universalità 
della propria essenza. «In quanto egli [l’uomo] è, in senso assoluto, è 

189 Ibidem , GA 1/4, 257-258; trad. it„ p. 87. 

190 Uber die Bestimmung des Gelehrten, GA 1/3, 31; trad. cit., p. 59. Per il relativo 
commento di Jacobi: cfr. Lettera a Fichte , W 2/1, 214. 



II. Fichte e la concezione sistematica dell’io 


123 


un essere ragionevole; ma in quanto egli è qualcosa, che cosa sarà 
dunque? (...) Anzitutto egli non è questo o quello perciò che egli è, 
ma perciò che esiste qualcosa fuori di lui (...) Posto questo collega- 
mento, la proposizione sopra formulata: “l’uomo è perché è” si tra- 
sforma nella seguente: “l’uomo deve essere ciò che egli è, unicamen- 
te perciò che egli è” ossia tutto ciò ch’egli è dev’essere ricondotto al 
suo Io puro, alla sua soggettività pura» 191 . 

b) Analisi 

L’intuizione intellettuale, che era stata prima rilevata come funzione 
costitutiva dell’autocoscienza nella sua inerenza esistenziale, è ora at- 
tribuita al filosofo in quanto egli scorge nell’io l’egoità, quale sua for- 
ma universale. Il contenuto di tale forma è descritto come agire ri- 
flesso. A tale rappresentazione corrisponde l’idea che l’io proietta di- 
nanzi a sé come norma e risultato del proprio agire: l’autonomia del- 
la ragione come forma di esistenza dell’io nel mondo. La differenza 
tra l’io come forma e come idea non consiste, quindi, nel loro conte- 
nuto ma nella loro diversa maniera di essere e nella diversa prospetti- 
va secondo cui esso è colto: la prima, come oggetto dell’intellezione 
astrattiva che il filosofo ottiene sulla natura dell’io; la seconda, come 
oggetto dell’azione dell’io: l’effettiva realizzazione della forma nell’e- 
sistenza. La stessa universalità non distingue l’io come forma e come 
idea: la prima, poiché la forma è colta in maniera astratta dal sogget- 
to individuo cui si suppone essa inerisca; la seconda, poiché l’egoità 
(= razionalità) realizzata abbraccia l’intero essere sensibile (ogni io 
individuo e il mondo) e significa la completa estinzione di quanto in 
esso non sia riconducibile all’universalità della ragione. 

Nonostante il progresso nella chiarificazione dell’accesso all’io 
costituito dalla dottrina intellettuale, il problema prima rilevato in 
Kant circa il rapporto nell’autocoscienza tra l’atto designato nell’“io 
penso” ed il soggetto individuo che lo proferisce sembra rimanere ir- 
risolto. Quest’ultimo è caratterizzato in maniera univoca dall’essere 
sensibile (o dal rapporto ad essa: la coscienza empirica); ciò che lo 
assegna irrevocabilmente, conforme ad un’interpretazione ontologica 
del rapporto intenzionale di soggetto e oggetto, al campo dell’ogget- 

191 Uber die Bestimmung des Gelehrten , GA 1/3, 29; trad. cit., pp. 49-51. 



124 


3.Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


tività. Si vede così compromessa la soggettività dell’io individuo poi- 
ché l’intuizione intellettuale, che era stata dapprima rilevata nella sua 
inerenza ad esso e che dovrebbe costituirne l’autocoscienza, non tor- 
na al medesimo soggetto per manifestarne l’essere e l’agire, ma ter- 
mina alla rappresentazione di un’attività pura ed impersonale cui 
solo è attribuito il carattere della soggettività. Dove, da un lato, è 
dato riscontrare il problema di come far corrispondere ad una forma 
universale, l’egoità (§ 11), il carattere esistenziale dell’essere vivente 
rilevato nell’autocoscienza (§ 5); quindi la coerenza tra le due descri- 
zioni presentate circa il contenuto dell’intuizione intellettuale. D’al- 
tro lato, risulta il paradosso che una realtà impersonale, la ragione, è 
segnata con il nome proprio della persona, l’io, e che alla persona è 
invece sottratta la possibilità dell’autocoscienza 192 . 

A nostro avviso, precisamente in tale ambiguità, cioè nella deter- 
minazione del carattere originario o artificiale (riflessivo, speculativo) 
dell’autocoscienza, consiste la difficoltà molte volte riscontrata in Fi- 
chte circa il rapporto tra l’intuizione intellettuale come principio co- 
stitutivo dell’io e come metodo della filosofia 193 . Se la realtà dell’io è 
raggiunta tramite riflessione, allora l’io riflesso non è originariamente 
un io; né può esserlo se, in tale riflessione, viene intenzionato come 
un oggetto. Ma se l’io è originariamente autocosciente, allora esso, 
cioè l’io esistente, non è oggetto di rappresentazione o di un procedi- 
mento esplicativo, ma è punto di partenza e criterio normativo della 
riflessione filosofica che lo riguarda 194 . 

Del resto, non sembra che il superamento della nozione riflessiva 
di autocoscienza in Fichte, per l’affermazione della sua immediatezza 
che vi si trova, risulti veramente risolutiva finché non sia chiarito lo 
statuto ontologico della soggettività che l’autocoscienza manifesta. 
Tale difficoltà sembra riposare nell’ambigua determinazione del rap- 
porto tra autocoscienza e pensiero, che avevamo riscontrato in Kant. 
L’immediata identificazione dell’io nella coscienza del pensiero in 

152 Cfr. E. Opocher, G. A. Fichte e il problema dell’individualità , Cedam, Padova 
1944. 

193 L. Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, Mursia, Milano 1976 2 , pp. 387-393, 
399-402; D. Breazeale, Fichte’s Nova Methodo Phenomenologica. On thè methodolo- 
gical role of ‘intellectual intuition in thè later ]ena Wissenschaftslehre, «Revue Inter- 
nationale de Philosophie» 206/4 (1998), pp. 587-616. 

194 Cfr. C. Fabro, L’io e l’esistenza e altri brevi scritti, Edusc, Roma 2006. 



II. Fichte e la concezione sistematica dell’io 


125 


atto, qualora corrisponda all’univoca identificazione dell’io con l’uni- 
versalità del pensiero, comporta l’obliterazione dell’io esistente fini- 
to, ch’è il reale presupposto di ogni riflessione e la chiarificazione del 
cui essere era il compito che ci sia era inizialmente prefissi 1 ’ 1 . 

In sintesi, nell’opera esaminata di Fichte risulta rimane ancora ir- 
risolto il problema ereditato da Kant di come concepire il contenuto 
della coscienza esistenziale dell’io, cioè di come ricomporre l’aspetto 
empirico e l’aspetto trascendentale dell’io impliciti nell’“io penso” 
«Com’è insomma che l’io empirico si rapporta all’Io=Io puro?» 191 ’. 
Ancora, come garantire la partecipazione dell’io individuo alla ragio- 
ne, cioè la sintesi nella persona di individualità e universalità? 

III. L’io esistente in Jacobi 

L’interesse di Jacobi nel contesto dei problemi delineati risulta dal 
fatto che la sua riflessione filosofica sorge, per esplicita dichiarazio- 
ne, dalla concezione kantiana dell’esistenza. Di questa egli rilevò la 
trascendenza rispetto alla sua determinazione contenutistica o for- 
male, ponendola a fondamento dei temi che più l’hanno impegnato: 
la causalità, il tempo, la persona, la libertà. L’assunzione dell’esisten- 
za a principio del realismo, ha portato, nondimeno, il filosofo di 
Dusseldorf ad allontanarsi dalla riconfigurazione di questa nell’ambi- 
to dell’idealismo trascendentale e a denunciarne gli esiti di estrema 
riduzione razionalistica nella 'Wissenschaftslehre. 

Per illustrare il modo secondo il quale Jacobi fornisce una valida 
soluzione alle difficoltà rilevate — è questa la tesi che vogliamo qui 
sostenere — consideriamo un testo nel quale egli espone la propria 
concezione dell’io. Nel David Hume, egli si confronta con i punti 
cardinali della Critica della ragion pura , come la concezione dell’io e 
la problematica della deduzione delle categorie. Alla sua importanza 
contribuisce inoltre la speciale considerazione che Fichte dedicò alla 


195 Cfr. M. Heidegger, Der deutsche Idealismus (Fichte, Schelling, Hegel), Kloster- 
mann, Frankfurt a. M. 1997. 

196 S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, trad. it 
di C. Fabro, in Id., Opere, Fabbri-Sansoni, Milano 1993, p. 321. 



126 


3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


stessa trattazione jacobiana nella Seconda introduzione alla dottrina 
della scienza e nelle altre opere contemporanee 19 '. 

David Hume 

«Io) (...) il suo corpo è composto di un’infinita quantità di parti, da 
esso ricevute e poi restituite, in modo tale che neppure una gli può 
appartenere per essenza. Però Ella sente che queste parti le appar- 
tengono e lo sente mediante una forma invisibile ( unsichtbaren 
Form), che produce qualcosa d’analogo ad un vortice in una corrente 
d’acqua. Solo in virtù di questa forma Ella sente tutte le parti, e le 
sente in un unico punto, immutevole ed invisibile, che Ella chiama il 
suo Io [1], Forse che questo punto potrebbe essere un semplice pun- 
to matematico? Lui) È impossibile. Io) Allora è un punto fisico. Lui) 
Dunque non è assolutamente nulla. Io) Eppure deve essere pur qual- 
che cosa il nostro io, posto che serbi ancora tutto il valore quale che 
abbiamo fissato poco fa, cioè che dalla molteplicità non può mai sca- 
turire un’unità veramente oggettiva (eine wahre objective Einheit). 
Ora questo qualche cosa, che non può essere qualcosa di reale, è 
chiamato da Leibniz la forma sostanziale dell’essere organico (...) 

[2], Propriamente, io non me ne posso fare alcuna rappresentazione, 
perché la caratteristica di questo essere è di distinguersi da ogni sen- 
sazione e rappresentazione. Tale forma sostanziale è ciò che io chia- 
mo, a intenderlo nel modo più proprio, “me stesso”, e della cui real- 
tà ho la più perfetta convinzione, la più intima coscienza, essendo la 
fonte stessa della mia coscienza e il soggetto di ogni suo mutamento. 
L'anima, per avere una rappresentazione di se stessa, si dovrebbe po- 
ter distinguere da sé, diventare estranea a sé. Di ciò che è la vita, ab- 
biamo per certo la più intima coscienza: ma chi si può dare una rap- 
presentazione della vita? 198 (...) [3]. La vita e la coscienza sono la 

197 Nello sviluppo posteriore della sua critica a Kant, ne Sull’impresa del criticismo, 
Jacobi osserverà l’ambiguo statuto dell’io esistente e della rispettiva modalità di 
esperienza (“intuizione”), nel senso che abbiamo rilevato, riferendosi al par. 25 della 
Critica della ragion pura-, cfr. ivi, W 2/1, 286-287 in nota. Per un confronto sulla Se- 
conda introduzione di Fichte: cfr. J. Cruz Cruz, Razones del corazón, cit., p. 272 e ss. 

198 «Eigentlich kann ich mir gar keine Vorstellung von ihr machen, denn das Ei- 
genthùmliche ihres Wesens ist, sich von alien Empfindungen zu unter- 
scheiden. Sie ist dasjenige, was ich im eigentlichsten Verstande mich selbst 
nenne, und von dessen Realitàt ich die vollkommenste Ueberzeugung, das innigste 
Bewustseyn habe, weil es die Quelle selbst meines Bewustseyns, und das Subject al- 



III.L’io esistente in Jacobi 


127 


stessa cosa ( Leben und Bewustseyn sind Eins). Il più alto grado di co- 
scienza dipende dal maggior numero e dalla proprietà delle percezio- 
ni unificate nella coscienza. Ogni percezione esprime contempora- 
neamente un fatto esterno e un fatto interno, entrambi in reciproca 
relazione. Perciò ogni percezione è già in se stessa un concetto. Qua- 
le l’azione, tale la reazione. Se poi la capacità di ricevere impressioni 
è così varia e articolata da far risuonare nella coscienza un’eco artico- 
lato, la parola s’innalza al di sopra della sensazione: appare ciò che 
chiamiamo ragione, appare ciò che chiamiamo persona [4]» 199 . 

a) Commento 

1. Solo in virtù di questa forma Ella sente tutte le parti. Partendo nella 
ricognizione dell’io dall’analisi del corpo bisogna rendere conto della 
sua unità e del suo aspetto senziente. La molteplicità di parti che 
compongono il corpo e la loro distribuzione nello spazio e nel tempo 
coesistono in un tutto in quanto ciascuna ed insieme appartengono 
ad un principio in sé indivisibile, l’io. L’io non è un punto estraneo 
all’insieme della parti che compongono il suo corpo. Il corpo appar- 
tiene all’io e l’io possiede se stesso nel corpo. Il riferimento all’io, 
come principio fisso ed epistemicamente immediato, è presupposto 
all’individuazione del corpo («il suo corpo») e alla costituzione tem- 
porale della sua unità. Il modo di tale costituzione è esemplificato 
dalla configurazione unitaria di un flusso. L’appartenenza delle parti 
del corpo in un tutto e di questo all’io (‘Tesser suo”), è immediata- 
mente rivelata dalla sensibilità. L’io avverte il corpo in se stesso e av- 
verte se stesso nel corpo («sente tutte le parti, e le sente in un unico 
punto»). La compenetrazione di io e corpo è dunque definita dalla 
relazione oggettiva e soggettiva di appartenenza. In questa sezione è 
anticipata una prima caratterizzazione dell’io come forma, che sarà 
esplicitata nelle righe seguenti. La forma rende conto del modo di 
unità costituito dall’io in relazione al corpo. In quanto principio di 
unità e configurazione di un complesso, la forma non è a sua volta 


ler seiner Verànderungen ist. Die Seele, um eine Vorstellung von sich zu haben, 
miiKte sich von sich selbst unterscheiden, sich selbst àusserlich werden 
konnen. Von dem, was Leben ist, haben wir gewiB das innigste Bewustseyn; aber 
wer kann sich vom Leben eine Vorstellung machen?» (ad loci). 

199 David Hume, W 2/1, 82-84; trad. it., pp. 138-139. 



128 3.Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 

divisibile. Nondimeno, l’unità della forma è internamente riflessa e 
dinamica. 

2. La forma sostanziale dell’essere organico. Si ha ora il compito di 
definire più precisamente il modo d’essere dell’unità e della forma 
nel quale è stato detto potersi scorgere l’io. L’unità sostanziale del 
corpo vivente si distingue dall’unità accidentale dell’artefatto per 
l’essenziale corrispondenza delle sue parti. Nel vivente, la molteplici- 
tà delle parti non preesiste all’unità finale, né è radunata per costru- 
zione secondo un disegno, un’azione ed una finalità estrinseci 200 , ma 
sorge temporalmente dall’interno di questa come sua interna diffe- 
renziazione. Di qui la corrispondenza reciproca e l’appartenenza del- 
le parti ad un principio di unità che preesiste e che è costitutivo sia 
sotto il profilo formale sia sotto il profilo causale. «Dunque, per pen- 
sare alla possibilità di un essere organico (...) sarà necessario pensare 
ciò che costituisce la sua unità, cioè il tutto prima delle sue parti» 201 . 
Nella determinazione del tipo di unità di cui si tratta, si procede in- 
nanzitutto per esclusione delle note empiriche con le quali l’unità 
viene nell’intuizione primariamente identificata. L’identificazione 
materiale (fisica o geometrica) fallisce poiché non può soddisfare la 
condizione premessa che l’unità dell’io, in quanto costitutiva del 
complesso strutturale e funzionale delle parti, non è riducibile ad 
una di esse né alla loro somma. Da tal punto di vista, sembra allora 
che l’unità dell’io non designi alcuna realtà positiva. La soluzione è 
rinvenuta nella concezione di Leibniz della forma sostanziale, come 
principio reale immanente dell’essere organico. L’identificazione del- 
l’unità con la forma e di questa con l’anima rende conto dell’azione 
determinatrice come dell’inerenza dell’unità al tutto. La forma non 
sussiste da sé («non può essere qualcosa di reale»), ma costituisce la 
totalità materiale e dinamica dell’organismo. L’unità, la molteplicità, 
la totalità e l’attività, come determinazioni universali dell’essere, sono 
dunque, per Jacobi, esemplarmente sintetizzati nell’individualità del- 
l’essere vivente, poiché intrinseci all’essere che il soggetto può imme- 
diatamente cogliere in se stesso. «Il molteplice, soltanto nella vita, 


200 Cfr. ibidem , 58. 

201 Ibidem, 82; trad. it., p. 137. 



III.L’io esistente in Jacobi 


129 


può compenetrarsi e unificarsi. Dove cessa l’unità, l’individualità 
reale, cessa pure ogni esistenza» 202 . 

3. Propriamente, io non me ne posso fare alcuna rappresentazione. 

La coscienza dell’io, già identificato con l’anima quale principio del- 
l’essere vivente, è mostrata nell’aspetto per cui essa si differenzia da 
ogni sensazione o rappresentazione. Da un lato, è questo un fatto 
evidente se si pensa alla singolare certezza del “me stesso” rispetto 
ad ogni altra realtà. Tale certezza corrisponde all’immediata presenza 
dell’io, come costitutiva (fonte) dell’intera coscienza, e alla consape- 
vole, attiva presenza dell’io (come soggetto) alla genesi di ogni suo 
movimento. D’altro lato, la differenza tra l’autocoscienza ed ogni 
sensazione o rappresentazione è derivata in maniera categorica dalla 
natura della rappresentazione e dalla stessa definizione dell’io propo- 
sta. Ogni rappresentazione (nel quale sembra si debba includere la 
sensazione) postula la distinzione tra il soggetto e l’oggetto. Per ipo- 
tesi, un tale differimento del soggetto rispetto a se stesso renderebbe 
impossibile il fatto irrefutabile dell’autocoscienza. A tale argomenta- 
zione se ne aggiunge un’altra più intrinseca, poiché riferita alla natu- 
ra dell’oggetto in questione. L’essere vivente, in cui l’io consiste, non 
può essere rappresentato, cioè non può essere determinato concet- 
tualmente, come una proprietà universale, senza smarrirne il caratte- 
re esistenziale di realtà e di atto, e senza doverlo presupporre quale 
condizione e soggetto di ogni sua attribuzione. Il passo citato prose- 
gue infatti così: «la nostra anima null’altro è che una determinata for- 
ma della vita. Nulla conosco di più assurdo che ricondurre la vita ad 
una proprietà delle cose, mentre, al contrario le cose sono soltanto 
proprietà della vita, soltanto differenti manifestazioni di essa» 20 ’. In 
un passaggio precedente era invece rilevata la funzione realizzante 
della coscienza, quale percezione attestante il valore reale delle rap- 
presentazioni. Tale percezione oltreché connaturata all’essere viven- 
te, poiché costitutiva dello stato di veglia, è fondante rispetto all’arti- 
colazione del pensiero nel giudizio. «Io voglio dire che le rappresen- 
tazioni non possono mai rivelare la realtà in quanto tale ( das Wirkli- 
che selbst ). Esse contengono soltanto le proprietà delle cose reale, 


202 Ibidem, 84; trad. it., p. 139; cfr. Sull’impresa del criticismo, 2/1, 321. 

203 David fiume, W 2/2, 84; trad. it., p. 139. 



130 


3.Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


non la realtà stessa. La realtà non può essere rivelata se non dalla 
percezione immediata, allo stesso modo che la coscienza non può es- 
ser rivelata che dalla coscienza, la vita dalla vita, la verità dalla 

* v 204 

verità»” . 

4. La vita e la coscienza sono la stessa cosa. La coscienza è ricono- 
sciuta come una proprietà costitutiva del vivente. Essa è definita 
come l’unità delle percezioni per le quali il vivente interpreta ed af- 
fronta in un progetto pratico la situazione in cui si trova. Quanto 
maggiore è la capacità del vivente di riprodurre le relazioni nelle 
quali si trova immerso, e di rispondervi in modo adeguato, tanto più 
alta e fine è la coscienza. La ridefinizione della coscienza nei termini 
della percezione, così ampiamente intesa, consente di attribuirla in 
modo analogico alle diverse forme degli esseri viventi. Il grado mag- 
giore di coscienza corrisponde al potere della parola grazie alla quale 
il potere “riflessivo” della coscienza s’innalza sopra la particolarità 
della sensazione. A tale livello, la coscienza attinge la forma della ra- 
gione. «L’essere razionale è dunque distinto dall’irrazionale per un 
più alto grado di coscienza, e quindi di vita» 20 ’. La vita internamente 
rischiarata dalla ragione qualifica l’essere della persona. Jacobi aveva 
prima illustrato come la capacità rivelativa della ragione dovesse ve- 
nir colta quale manifestazione più alta ed integrata della percezione o 
senso. A tale proposito, egli riconosce nella ragione la stessa sintesi 
di attività e passività che costituisce la capacità assimilativa della sen- 
sibilità, come risposta vitale alle impressioni ricevute dal contatto 
con gli altri esseri: «la virtù rappresentatitiva si rivela soltanto rea- 
gendo, e corrisponde esattamente alla facoltà di ricevere dagli oggetti 
impressioni più o meno complete. In altre parole, la spontaneità del- 
l’uomo corrisponde alla sua recettività» 206 . Del resto, come il filosofo 
altrove precisa, tale ricomprensione non comporta una derivazione 
della ragione dal senso, quanto un’estensione analogica del concetto 
di esperienza dal piano sensibile al piano intelligibile. Gli intelligibili 
che la ragione attinge non sarebbero, infatti, secondo Jacobi, dei 
principi formali di sintesi del dato empirico, nel senso delle idee e 


204 Ibidem, 69-70; trad. it., p. 128. 

205 Ibidem, 86; trad. it., p. 141. 

206 Ibidem, 65-66; trad. it., p. 124; cfr. Sull’idealismo trascendentale, W 2/1, 109. 



III.L’io esistente in Jacobi 


131 


delle categorie a priori di Kant, ma il contenuto ossia i principi e le 
dimensioni strutturali dell’essere come il bene, la libertà, la persona, 
Dio 207 . 

b) Analisi 

L’io è descritto da Jacobi non come identità puntuale, estrinseca alla 
molteplicità e determinatezza del corpo organico, ma come l’unità 
vivente di questo che attinge al grado di consapevolezza della ragio- 
ne. La coscienza è leibnizianamente concepita come una qualità in- 
trinseca all’essere vivente. Il vivente è essenzialmente caratterizzato 
dalla capacità di movimento e percezione. La percezione sintetizza la 
risposta conoscitiva e pratica (reale) del vivente alle relazioni ch’esso 
intrattiene col mondo. La stessa relazione conoscitiva consegue ad 
un contatto col mondo, già qualificato come risposta pratica specifi- 
ca (“vitale” ed “intelligente”) ad uno stimolo. 

Diversamente da Leibniz, la conoscenza è vista da Jacobi come 
intrinseca alla causalità e quest’ultima come posizione di novità nel- 
l’essere: le relazioni non sono preformate nell’individuo ma lo quali- 
ficano temporalmente 208 . Diversamente da Kant, la percezione è vista 
come una conoscenza al suo livello adeguata: essa attinge diretta- 
mente l’ente oggetto, non il soggetto conoscente; o piuttosto, essa 
manifesta l’essere del soggetto, dell’oggetto e del loro rapporto 201 . 
Inoltre, la ragione in quanto è vista in continuità strutturale con la 
percezione, non s’identifica con la facoltà analitica, astrattiva o me- 
diatrice, dell’intelletto, né con la facoltà delle idee, kantianamente in- 
tese come supreme forme a priori di sintesi del dato empirico. La ra- 
gione è piuttosto colta da Jacobi come dotata di un’intenzionalità 
propria costituente la prima visione sintetica (varia e articolata) sul- 
l’essere nelle sue strutture ontologiche, logiche e linguistiche fonda- 
mentali. Più precisamente, nella ragione vengono alla luce i principi 
reali costituenti (o categorie) — come l’unità, la molteplicità, la tota- 
lità, la causalità — il cui contenuto e necessità l’io può attingere in 
concreto nell’esperienza del proprio stesso essere 210 . 

207 Cfr. Sull’impresa del criticismo , W 2/1, 274, 329. 

208 Cfr. G. Baum, Vernunft und Erkenntnis , cit., pp. 85-88. 

209 Cfr. David Hume, W 2/1, 60-61. 

210 Cfr. ibidem , 57 e ss.; Sull’impresa del criticismo , 2/1, 321. 



132 


3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


La riflessività della ragione è così riconosciuta, non già quale una 
caratteristica dell’io in opposizione alla sua appartenenza all’essere, 
ma quale sua più alta e ricca espressione. Tale impostazione del rap- 
porto tra coscienza ed essere (dell’io) risulta, a nostro avviso, risoluti- 
va della dialettica istituita tra questi estremi nella prospettiva dell’i- 
dealismo trascendentale, in quanto essa ne mostra un principio di 
sintesi nell’immediata unità, luminosa ed attiva, dell’essere vivente; 
laddove, si badi, quest’ultimo, con la designazione di una forma d’es- 
sere intrinsecamente connotata da attività e percezione, abbraccia sia 
l’essere intelligente sia l’essere sensibile. 

In effetti, tale soluzione intercetta i problemi già rilevati in Kant e 
Fichte sotto due profili: (1) la definizione della modalità cognitiva 
corrispondente all’esistenza (dell’io). Abbiamo visto come la dottrina 
dell’intuizione intellettuale di Fichte fosse capace di render conto del 
carattere operativo e non oggettivabile dell’io, superando le incertez- 
ze di Kant a tale riguardo. Si è notato, tuttavia, (2) il permanere della 
difficoltà, già riscontrata nel fondatore del criticismo, di determinare 
la realtà cui l’intuizione intellettuale dovrebbe riferirsi, cioè l’identità 
nell’autocoscienza dell’io pensante (io trascendentale) e dell’io pen- 
sato (io empirico), ed il permanere del più ampio ed antico problema 
di giustificare il fatto hic homo intelligit, cioè il radicarsi dell’apertura 
universale del pensiero in una realtà individua e sensibile qual è l’io 
personale 211 . In particolare, 

1) il problema della rappresentabilità dell’io è portato da Jacobi 
piuttosto sul piano ontologico che sul piano logico: l’io è un essere 
vivente; in quanto tale, non può essere rappresentato senza contrad- 
dizione o senza doverlo presupporre. Dove si vede come Jacobi ha 
anticipato la cosiddetta “aporia della riflessione”, ma diversamente 
da Fichte, almeno nell’opera del periodo jenese 212 , ne ha fornito una 
soluzione alternativa rinviando al di là del pensiero, all’essere del- 
l’io 21 ’. La necessaria presupposizione dell’io inerisce all’originarietà 
dell’essere vivente: sia in senso oggettivo ed assoluto, poiché la vita è 


211 Cfr. San Tommaso d’ Aquino, De unitate intellectus contra Averroistas, Marietti, 
Roma 1976. 

212 Cfr. Versuch einer neuen Darstellung der Wissenschaftslehre , GA 1/4, 276-277. 

213 Cfr. B. Sandkaulen, “DaK, was oder wer. Jacobi im Diskurs ùber Personen”, in 
W. Jaeschke-B. Sandkaulen (a cura di), Friedrich Heinrich jacobi, cit. , pp. 217-237. 



III.L’io esistente in Jacobi 


133 


riconosciuta da Jacobi, sulla scorta di Leibniz, come proprietà uni- 
versale dell’essere; sia in riferimento al soggetto conoscente: in quan- 
to l’essere vivente, dunque l’io, è qualificato intrinsecamente da una 
certa forma di conoscenza, donde l’immediatezza con la quale il vi- 
vente avverte se stesso; sia in riferimento alla natura della rappresen- 
tazione, poiché la natura intenzionale ed astrattiva di questa richiede 
la distinzione tra soggetto e oggetto e la riduzione dell’essere a for- 
ma 214 . Di qui la contraddizione non formale ma contenutistica in cui 
cade la pretesa di una rappresentazione dell’io, poiché l’essere do- 
vrebbe esservi separato dall’essere conosciuto e l’attualità progre- 
diente della vita dovrebbe essere fissata nell’identità atemporale di 
un concetto 214 . Da tal punto di vista, la soluzione di Jacobi sembra 
corrispondere in diversi punti ai motivi riscontrati a tale riguardo in 
Fichte, se non per l’interpretazione dell’essere vivente, cioè dell’io, in 
quanto questo non è univocamente identificato con l’attività dell’in- 
telligenza. Di qui passiamo al punto seguente. 

2) Abbiamo visto come Kant e Fichte identificassero l’esistenza 
dell’io con l’attività dell’intelligenza, e come distinguessero dall’esi- 
stenza, come manifestazione della soggettività in atto, l’essere, come 
espressione della determinatezza dell’oggettività sensibile. L’autoco- 
scienza dovrebbe attestare l’esistenza dell’io, cioè l’attività pura del- 
l’intelligenza, antecedentemente alla sua attribuzione ad un certo 
soggetto. L’individualità di quest’ultimo lo assegna, infatti, univoca- 
mente, all’essere (sensibile), cioè al polo contrapposto e relativo del- 
l’oggettività. A tale riguardo abbiamo rilevato il problema di come 
render conto del fatto e dell’identità dell’autocoscienza dell’io indivi- 
duo ( hic homo), posto che questa debba essere riferita all’attività del- 
l’intelligenza come tale. La posizione di Jacobi risulta risolutiva di 
tale problema in quanto, come risulta dal passo che abbiamo esami- 
nato, l’essere cosciente non è estraniato dall’essere sensibile, ma è 
concepito come immanente ad esso. La ragione, come espressione 
del vertice di coscienza attinto dall’io, non è vista come istanza 
estrinseca all’essere, né all’essere sensibile, ma come una forma di 
vita e di coscienza dotata dalla maggiore unità, complessità (molte- 
plicità) e chiarezza. In tale prospettiva, risulta cruciale la corrispon- 

214 Cfr. Lettera a Fichte, W 2/2, 201. 

215 Cfr. David Hume, 2/1, 50; La dottrina di Spinoza, W 1/1, 253. 



134 


3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


denza istituita da Jacobi tra la ridefinizione dell’intenzionalità della 
ragione come percezione ( Wahrnehmung ), cioè come immediato at- 
tingimento dell’esistente, e la ridefinizione dell’essere come vita. La 
trascendentalità raggiunta dalla ragione non coincide, così, con la 
formalità più astratta donde debba essere quindi tratto il concreto; 
ciò ch’è impossibile poiché l’astrazione mira alla forma e perciò pre- 
scinde dall’individualità e dall’esistenza 216 , né la determinatezza del 
concreto è mai raggiungibile dalla relativa indeterminatezza dell’a- 
strazione 21 '. La ragione attinge piuttosto la densità intelligibile del 
concreto, l’attualità esistenziale dell’essere vivente ed il soggetto indi- 
viduo in cui essa sola risiede, quale fondamento inoggettivabile di 
ogni rappresentazione. Tale continuità ontologica disegnata da Jaco- 
bi tra la ragione, la vita e l’essere sensibile consente, dunque, a no- 
stro avviso, di render conto dell’unità della persona umana, e quindi 
di risolvere i problemi sottesi alla definizione della modalità con la 
quale tale unità giunge ad espressione nell’autocoscienza. 

Conclusione 

«L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazio- 
ni». Il celebre assunto di Kant ha mostrato in modo esemplare la ne- 
cessaria presupposizione dell’io ad ogni sua determinazione oggetti- 
va; quindi il suo carattere trascendentale. Le difficoltà riscontrate 
nello sviluppo di questo punto rivelano come Kant sia rimasto, tutta- 
via, indeciso nella definizione del contenuto e della modalità di tale 
presupposizione. Nel § 25 della Critica della ragion pura (1787), la 
realtà dell’io è chiaramente colta da Kant in termini esistenziali. La 
fondazione del sapere circa l’essere dell’io termina infine ad un prin- 
cipio di carattere non logico (o epistemico) ma ontologico: l’esisten- 
za dell’io che si manifesta immediatamente nel suo agire. La realtà 
dell’io è rivelata e qualificata dall’attività del pensiero. Tale posizione 
originaria dell’io presiede alla possibilità di ogni sua connotazione, 
sia sensibile sia intellettuale (tramite le categorie), poiché ne stabili- 
sce in modo indubitabile il soggetto (o riferimento). Kant distingue, 
perciò, tra coscienza e conoscenza dell’io; rispettivamente, tra una 

216 Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 252. 

217 Cfr. Sull’impresa del criticismo, W 2/1, 289-290. 



III.L’io esistente in Jacobi 


135 


determinazione “trascendentale” dell’io, come atto, esistenza, intelli- 
genza, ed una determinazione empirica o “categoriale” dell’io, come 
oggetto costituito o fenomeno. La delimitazione critica della psicolo- 
gia tracciata da Kant nella Dialettica trascendentale sembra, così, 
aprire un campo d’indagine positiva sull’io sottratto all’aporetica del- 
l’empirismo e del razionalismo 218 . 

In tale prospettiva, rimane nondimeno aperto il problema se, nel 
contesto della prima critica, l’attività di pensiero riveli l’esistenza di 
un soggetto reale cui esso inerisca o se l’esistenza rivelata dal pensie- 
ro non coincida, infine, con la sua stessa attualità operativa; nel qual 
caso, la presupposizione esistenziale dell’io viene a coincidere senza 
residui con la trascendentalità del pensiero. Kant, è vero, mantiene la 
dipendenza ontologica del pensiero sia dal lato oggettivo, per la ma- 
teria del suo riferimento, sia dal lato soggettivo, per la sua inerenza 
personale. Ma tale inerenza personale, dichiarata e sempre supposta, 
soggiace ad un’interpretazione ontologica tale per cui la soggettività 
supposta nel pensiero o s’identifica con il pensiero in atto (io tra- 
scendentale), allora essa non è personale; o s’identifica con un sog- 
getto sensibile (io empirico), allora non è più soggetto ma oggetto. 

E da rilevare ancora l’ambiguità in cui si trova la nozione kantiana 
di esistenza in tale contesto: la pura posizione dell’oggetto, in cui 
consisterebbe l’esistenza, corrisponde al risultato di un’astrazione, 
perciò ad una forma, oppure corrisponde ad un atto, come presup- 
posto alla posizione di ogni forma? L’origine dell’ambiguità rilevata 
sembra risiedere specialmente nella stessa cornice gnoseologica entro 
la quale il problema ontologico è formulato da parte di Kant, dove 
l’ente risulta univocamente definito come oggetto e dove, perciò, 
l’attualità in cui è pensata l’esistenza, come posizione assoluta di un 
contenuto, coincide con l’ambito immanente del pensiero: essere 
come intelligibile in atto o verità (on os alethés) 2ìq . D’altra parte, si è 
visto come non risulti definitivamente chiaro in Kant lo statuto epi- 
stemico da attribuire alla coscienza dell’io esistente. Il carattere esi- 


218 Cfr. A. Guzzo, L’io e la ragione, Morcelliana, Brescia 1947; A. Guzzo - M. 
Ivaldo, Voce “io”, in Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006, voi. VI, pp. 
5802-5816. 

215 Cfr. F. Inciarte, Tiempo, sustancia y lenguje. Ensayos de metafisica, Eunsa, Pam- 
plona 2004, pp. 165-180. 



136 


3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


stenziale del suo contenuto, cioè la sua indeducibile positività, il suo 
statuto operativo e la sua immediatezza richiederebbero una facoltà 
intuitiva, già riconosciuta dal filosofo tedesco, seppure incidental- 
mente, nella percezione e nel sentimento. Ma il suo carattere non 
sensibile esige che essa sia attribuita al pensiero e non all’intuizione. 
Di qui la difficoltà di sintetizzare l’apparente opposizione di queste 
note nell’intuizione intellettuale, possibilità che Kant ha decisamente 
rifiutato. 

La dottrina dell’intuizione intellettuale presentata da Fichte nella 
Seconda introduzione alla dottrina della scienza ha offerto una solu- 
zione del problema consapevole del suo punto speculativo di fondo, 
la rappresentabilità dell’agire, e quindi dell’agire soggettivo. Mo- 
strando poi in che modo Kant non avrebbe potuto altrimenti render 
conto del suo discorso sui principi della critica, come l’io e la legge 
morale, — cioè come l’abbia di fatto praticata — , Fichte ha portato 
il criticismo ad un ulteriore grado di riflessione circa le proprie con- 
dizioni ontologiche (o “epistemologiche” 220 ). 

Se tuttavia in Kant il contenuto ontologico dell’“io penso”, cioè 
l’individuazione dell’io nel pensiero, rimaneva ancora moderata da 
un’istanza antropologica — di qui il suo rifiuto dell’intuizione intel- 
lettuale e l’indecisione, già ricordata, circa il rapporto tra l’intelligen- 
za e l’uomo, come suo reale soggetto — , il dualismo soggiacente a 
tale precario equilibrio risulta del tutto risolto da Fichte in senso 
idealistico. Almeno nel testo cui ci siamo riferiti, l’io coincide e deve 
coincidere semplicemente con l’attività teorico-pratica dell’intelli- 
genza (o ragione). L’inerenza di questa ad un soggetto non ha carat- 
tere costitutivo ma empirico e negativo: se esiste qualcosa di distinto 
dall’intelligenza, è questo un dato irrazionale che va eliminato per la- 
sciar sussistere, nella riflessione e attraverso la prassi, quella soltanto. 
La forma universale dell’io compiutamente realizzata, come idea, ri- 
solve in sé la propria materia. 

Si è visto, però, come Fichte acceda all’attività pura dell’io attra- 
verso un procedimento, per così dire, fenomenologico, cioè attraver- 
so un procedimento sviluppato a partire dall’esperienza dell’io esi- 

220 Cfr. M. Siemek, “Fichtes Wissenschaftslehre und die kantische Transzendental- 
philosophie”, in K. Hammacher (a cura di), Der transzendentale Gedanke. Die gegen- 
wartige Darstellung der Philosophie Fichtes, Meiner, Flamburg 1981, pp. 524-531. 



III.L’io esistente in Jacobi 


137 


stente, quest’ultima peraltro intesa in senso più ampio rispetto a 
Kant, come comprendente l’intera estensione dell’agire umano. L’in- 
tuizione intellettuale è introdotta da Fichte come principio esplicati- 
vo dell’autocoscienza dell’io esistente finito. E quest’ultima, cioè l’io 
cui Fichte si rivolge per invitarlo a riflettere su se stesso, il presuppo- 
sto necessario del suo procedere. Ma il contenuto dell’intuizione in- 
tellettuale, il concetto riflessivo dell’io già identificato con l’universa- 
lità della ragione, non può più corrispondere al soggetto che lo com- 
pie; né per la persistente caratterizzazione oggettiva ed empirica 
(sensibile) dell’essere è discernibile, almeno nell’opera di Jena a cui 
la Seconda introduzione alla dottrina della scienza appartiene, la mo- 
dalità di una positiva inerenza della ragione all’io esistente finito. 
L’intuizione intellettuale, così intesa, non può, quindi, soddisfare il 
compimento dell’autocoscienza 221 . Si è visto in seguito come Jacobi 


221 Si potrebbe notare — debbo tale osservazione al professor Marco Ivaldo — , 
che l’identificazione di io e intelligenza, su cui Jacobi particolarmente insiste nella 
Lettera a Fichte , corrisponde alla scarna traccia della Seconda introduzione. Ma tale 
identificazione, qualora risulti accertata, è palesemente ristretta rispetto all’ampia se- 
mantica della ragione svolta da Fichte nell’opera di Jena. Particolarmente, risulta, 
così, trascurata la dominante connotazione pratica della soggettività elaborata dal fi- 
losofo; in particolar modo, nella Sittenlehre (dottrina degli impulsi, del sentimento, 
della volontà, etc.). Una lettura intellettualistica della Dottrina della scienza ne mi- 
sconosce, di certo, la lettera e l’ispirazione più intima. Forse ciò che Fichte nella Se- 
conda introduzione sottintende nell’intelligenza è pur sempre la ragione umana, nel- 
l’unità delle sue dimensioni. In generale, l’intelligenza o l’io assoluto costituiscono, 
per Fichte, delle espressioni arbitrarie per designare il carattere formale dell’io, la 
sua razionalità, ossia la sua libertà ed apertura infinita, che evidentemente appartie- 
ne ad un io personale, come suo portatore, e che lo rivela nella sua più profonda 
identità. La realtà di questi si manifesterebbe anche per Fichte, come per Jacobi, in 
una modalità immediata e non riflessiva (in ciò che Luigi Pareyson chiamava una 
“coscienza muta”). La questione appare, perciò, assai complessa (la riprenderemo 
nei capitoli 5 e 6). Tuttavia, anche in tal caso è, a nostro avviso, da riscontrare la me- 
desima difficoltà sulla consistenza ontologica e sulla soggettività dell’io personale e 
la difficoltà di riferire per inerenza quella ragione a quest’ultimo, che abbiamo sin 
qui rilevato. E questo per alcuni motivi speculativi di fondo che, ad avviso di chi 
scrive, si possono coerentemente riconoscere nel quadro della dottrina fichtiana: da 
un lato, la finitezza è generalmente definita in termini empirici e negativi: perciò essa 
va superata; d’altro lato, ogni posizione, ad esempio la coscienza primigenia dell’esi- 
stente, è pur sempre una posizione nella coscienza trascendentale. Nel trovarsi origi- 
nario dell’io (“coscienza muta”) supponiamo sempre noi stessi. Ma, l’ontologia, ov- 
vero l’idealismo di Fichte permette il mantenimento e l’elaborazione conseguente di 
questa supposizione? Se l’io assoluto corrisponde alle proprietà universali dell’io 
reale (sia d’ordine cognitivo sia d’ordine pratico) in sé considerate, in che modo è 



138 


3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 


offra alcuni spunti importanti per concepire la presupposizione ne- 
cessaria dell’io, non già solo sul piano del pensiero ma sul piano del- 
l’essere; ed in modo tale da lasciar chiaro che l’esistenza e l’attività 
del pensiero appartengono all’io individuo. Infatti, secondo l’inter- 
pretazione qui avanzata, egli supera una concezione oggettiva ed em- 
piristica dell’essere tramite una originaria sintesi verificabile nell’io 
personale di essere, vita e coscienza (o ragione), ed attribuisce quindi 
carattere trascendentale (principiale e trans-oggettivo) all’esistenza, 
così interiormente qualificata, della persona. In tal senso, la realtà vi- 
vente della persona soddisfa le condizioni fondamentali dell’esisten- 
za, l’individualità e l’attività, che nella trattazione di Kant e di Fichte 
si trovavano invece scisse. La persona appare come soggettività finita 
eppure capace di esercitare in proprio un’attività infinita, dunque 
appare quale interpretazione più adeguata del dato fenomenologico 
espresso nell’“io penso”. 

E in questo modo risolto il problema di come concedere carattere 
trascendentale ad un presupposto, per così dire, empirico; o piutto- 
sto di come render conto della positività e normatività epistemica del 
presupposto esistenziale, l’io esistente, da cui non è di fatto possibile 
prescindere 222 . In particolare, l’identificazione dell’essere con l’essere 


assicurata, secondo Fichte, la realtà (non già il mero empirico manifestarsi) dell’io 
reale, che ne è il soggetto e la base di esperienza donde quelle stesse proprietà sono 
tratte? 

222 Diversamente, Valerio Verrà, vede l’immediatezza esistenziale dell’io come 
istanza empirica a sua volta subordinata alla trascendentalità del pensiero. Cfr. Id., 
Jacobis Kritik am deutschen Idealismus , «Flegel-Studien» 5 (1969), pp. 201-223. Si 
potrebbe obiettare che la determinatezza empirica dell’io contrasta l’infinità inten- 
zionale della ragione. Per poter rispecchiare il tutto, questa deve ritrarsi nel nulla. 
La naturalizzazione della ragione non può spiegare l’originalità del fatto conoscitivo. 
In tal senso, sembrerebbero coincidere la concezione aristotelica dell’intelletto come 
pura potenza (cfr. De Anima, III, 429a lOss.) e la risposta di Hegel a Jacobi circa la 
necessità speculativa del “nichilismo” (cfr. Glauben und Wissen, B; Scienza della lo- 
gica, sez. I, cap. 1). Nondimeno, l’infinità dell’intelletto per Aristotele non s’identi- 
fica con una mediazione logica, ossia con un oggetto, ma con la capacità operativa 
con cui l’intelletto stesso risulta ogni volta capace di scorgere in ogni istanza dell’es- 
perienza l’elemento sostanziale o assoluto. Ora Jacobi, seppure non elabori una on- 
tologia della ragione, sembra procedere in tale linea quando insiste sull’apparten- 
enza della ragione alla persona (un aspetto ancora ambiguo in Aristotele) e sulla ne- 
cessità di una “percezione razionale” a quella direttamente connessa. La percezione 
dell’elemento trascendentale, l’esistenza, che è il criterio supremo di ogni giudizio, 
è, infatti, essenzialmente condizionata alla situazione e alla stessa realtà dell’io. 



III.L’io esistente in Jacobi 


139 


vivente e l’immediata coincidenza di vita e coscienza consente a Ja- 
cobi da un lato di superare una connotazione empiristica dell’essere, 
con l’esclusiva ascrizione dell’individualità dell’io all’ambito oggetti- 
vo. D’altro lato, tale impostazione gli consente di articolare nell’unità 
della persona la sensibilità e la ragione, quindi l’individualità e l’uni- 
versalità. Tale soluzione si appoggia, infine, su di una concezione al- 
ternativa di razionalità rispetto a quella proposta da Kant e da Fich- 
te. La ragione è una forma, non già come norma autonoma o come 
soggetto in sé, ma come luce e principio ordinatore immanente di 
una materia dotata di una sua interna positività, la complessità del- 
l’essere vivente personale. 

Deve essere infine osservato come la posizione di Jacobi non ha 
mancato di sollecitare Fichte ad una profonda rimeditazione del rap- 
porto tra riflessione e vita, specialmente a partire dalla Lettera a Fi- 
chte (1799) 22 ’. Ed infatti, nella Bestimmung des Menschen (1800) egli 
ha fatto proprio il problema denunciato da Jacobi, che aveva già tor- 
mentato Kant, di come assicurare nell’immanenza del pensiero l’es- 
sere dell’io. Tale riflessione, dapprima abbozzata e poi organicamen- 
te sviluppata nell’opera successiva all’ Atheismusstreit, fa perno su di 
una rinnovata concezione dell’essere come atto presupposto e fonda- 
mento del pensiero oggettivo; precisamente, come appare nella Wis- 
senschaftslehre del 1804, come vita in sé attiva e luminosa. Fichte 
raccoglie dunque l’istanza ontologica avanzata da Jacobi cercandone 
un’esposizione sistematica capace di renderne conto sul piano critico 
e di svilupparne coerentemente l’intero contenuto. Rimane ora da 
verificare se e quanto la formulazione rinnovata della filosofia tra- 
scendentale soddisfi tale istanza o se la filosofia di Jacobi non con- 
tenga già i principi e il metodo più adeguati allo scopo. 


12 ' Cfr. M. Ivaldo, Vita, e sapere tra Jacobi e Fichte , «Annuario filosofico» 9 (1993), 
pp. 219-251. 



140 



4. Jacobi e Leibniz. Sul progetto incompiuto del 
“David Hume” 


La varietà dell’atteggiamento di Jacobi verso Leibniz suscita un in- 
terrogativo circa la sua definitiva coerenza 224 . Del resto, è una que- 
stione che i contemporanei non mancarono di porgli; e la sua rispo- 
sta piuttosto evasiva ne riconferma l’interesse 22 ’. In effetti, la presen- 
za di Leibniz nell’opera di Jacobi non è scarsa né marginale. Ciò ap- 
pare specialmente nel David Hume , il cui esteso ricorso alla “mona- 
dologia” non è derubricabile senza difficoltà ad un mero stratagem- 
ma dialettico. Lo stesso progetto del dialogo è, infatti, legato a quan- 
to ad un certo punto Jacobi ritenne di scorgere nel pensatore di Lip- 
sia, pur essendo già avvertito della sua caratteristica ambiguità 226 . 

«Leibniz ha cercato di adattare le sue idee a troppe teste e sistemi, troppo 
spesso ha cercato, per cosi dire, di interpolare la verità all’errore, ed era in 
generale, volente o nolente, troppo pieno di riguardi, così che nello stato in 
cui si trovano i suoi scritti, è facile, anche nutrendo per lui la più grande ri- 
verenza, fraintenderlo per un qualunque pregiudizio che si abbia o semplice- 
mente per ignoranza; ma è poi infinitamente più facile, se ci si impiega un 
po’ di malizia, metterlo in contraddizione con se stesso. Sfrutti pure, ciascu- 


224 Cfr. K. Hammacher, “Die Vernunft hat also nicht nur Vorstellungen, sondern 
wirkliche Dinge zu Gegenstànde” . Zur nachkantischen Leibniz-Rezeption, vornehm- 
lich bei F. H. Jacobi , cit.; G. Zingari, Leibniz, Hegel e l’idealismo tedesco , Mursia, 
Milano 1991, pp. 18-25; M. Ivaldo, Fichte e Leibniz. La comprensione trascendentale 
della monadologia , Guerini e Associati, Milano 2000, pp. 32-41. 

225 Cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 154 e ss., 245. Sulla prima ricezione di Leib- 
niz: cfr. G. Tonelli, Leibniz on Innate Ideas and thè Early Reactions to thè Rnblica- 
tion of thè Nouveaux Essais (1765), «Journal of thè History of Philosophy» 12 
(1974), pp. 437-454; C. Wilson, “The reception of Leibniz in thè eighteenth cen- 
tury”, in N. Jolley (a cura di), The Cambridge Companion to Leibniz, Cambridge 
University Press, Cambridge 1995, pp. 442-474. 

226 Cfr. David Hume, W 2/1, 9, 63 in nota, e ss. L’opera avrebbe dovuto essere ori- 
ginariamente divisa in tre dialoghi, di cui il primo avrebbe portato il titolo poi pres- 
celto per il testo intero, mentre il terzo avrebbe dovuto intitolarsi: “Leibnitz, oder 
uber die Vernunft”: Cfr. W 2/2 (apparato critico), 447. 



142 


4 .Jacobi e Leibniz. Sul progetto incompiuto del “David Hume 


no a suo modo, questo inestimabile tesoro che egli ha lasciato agli 

• • 227 

uomini» . 

In una nota alla seconda edizione del testo (1815), Jacobi ne riba- 
disce la tesi sorprendente: non già la somiglianza, ma il suo «accordo 
con le vedute fondamentali ( Grundansichten ) di quel filosofo» 228 . 
Pure, il dialogo gli appare ora come interrotto e sembra suggerirne il 
motivo nella delusione della fiducia allora riposta in Leibniz. Tutta- 
via, come risulta dal brano che abbiamo riportato, il filosofo era pre- 
parato ad una tale eventualità. Si può, quindi, dar credito a ciò che 
egli aggiunge in quella nota: ch’egli fosse, in realtà, insoddisfatto di 
se stesso, ossia dello sviluppo raggiuntovi di quelle stesse “vedute 
fondamentali”. Tale considerazione ci spinge ad approfondire la fun- 
zione degli elementi leibniziani nel pensiero di Jacobi. 

Procediamo da alcuni passi nei quali il filosofo assume una diver- 
sa posizione nei confronti di Leibniz (§ 1); di qui passiamo al David 
Hume (d’ora in poi in questo capitolo: DHU), dove l’autore si avvici- 
na alla “monadologia”, cercando di evidenziare alcune tesi di fondo 
(§ 2); infine, proponiamo un’ipotesi circa la coerenza di queste tesi 
nel complesso dell’opera di Jacobi (§§ 3 e 4). 

1. Oscillazioni nell’interpretazione jacobiana di Leibniz 

Per circoscrivere l’atteggiamento di Jacobi verso Leibniz e per conte- 
stualizzare il DHU sotto tale profilo, consideriamo gli estremi della 
sua produzione: ha Dottrina di Spinoza (1785), la Introduzione gene- 
rale (1815). 

Ne La dottrina di Spinoza, Jacobi confronta in diversi punti la filo- 
sofia di Leibniz con la filosofia di Spinoza, giungendo infine a soste- 
nere la loro coincidenza su di un punto capitale: il fatalismo. Da tale 
conclusione emergerebbe la sostanziale riducibilità della prima alla 
seconda. 

«La filosofia leibniziana-wollfiana non è meno fatalistica della spinoziana, e 

riconduce il pensatore conseguente ai principi di quest'ultima» 229 . 


227 Ibidem, 80; trad. it., p. 135. 

228 Ibidem, 64, in nota; trad. it., p. 159. 

229 La dottrina di Spinoza, W 1/1, 123; trad. it., pp. 140-141. 



1. Oscillazioni nell’interpretazione jacobiana di Leibniz 


143 


La tesi è ripresa ed esaminata nella sesta appendice alla seconda 
edizione del testo (1789), pur senza giungere né ad una smentita né 
ad una chiara conferma. Vi si percepisce una certa esitazione, o al- 
meno il riconoscimento delle difficoltà di una decisione univoca. 
D’altra parte, Jacobi evidenzia qui alcuni aspetti del pensiero di 
Leibniz, le quali, oltre al loro valore intrinseco, rappresentano altret- 
tante obiezioni per l’assimilazione di questo al monismo spinoziano. 

«[D]ella possibilità interna di tali cose particolari nel continuum assoluto 
della sua sostanza egli [Spinoza] non dà nessuna ragione, nessuna ne dà del- 
la loro separazione, del loro influsso reciproco (...) Questa ragione doman- 
dava ora Leibniz; ma non immediatamente ed esclusivamente a Spinoza: egli 
la domandava alle sètte allora dominanti dei cartesiani, dei gassendiani, e in 
generale a tutti i filosofi che ritenevano possibile un realmente unito senza 
unione comune e interna ; cose indivisibili senza un vincolo indivisibile, una 
comunione degli esseri, senza un fondamento a priori dell’armonia , movi- 
mento senza propria forza, vita senza spirito » 230 . 

Gli ultimi elementi qui sottolineati, l’ordine finalistico del mondo, 
l’unità della sostanza vivente ed il legame tra vita e spirito, corrispon- 
dono, come vedremo (cfr. infra, § 2), ai punti della filosofia leibnizia- 
na sviluppati nel DHU, che è di poco precedente la stessa sesta ap- 
pendice. Potremmo sintetizzarli in un’ontologia alternativa al mecca- 
nicismo, la quale poggia su di alcune istanze speculative, successiva- 
mente elaborate ed applicate in altri contesti, ma che appaiono già 
chiaramente definite nel loro contenuto essenziale: l’inderivabilità 
del determinato dall’indeterminato, la connessione degli esseri in un 
ordine intelligibile del mondo e la valenza paradigmatica dell’indivi- 
duo vivente e spirituale. 

Nell 'Introduzione generale, troviamo il più franco riconoscimento 
del fenomenismo della filosofia leibniziana; precisamente, come l’a- 
spetto per il quale, se essa non è ascrivibile al meccanicismo cartesia- 
no, appartiene tuttavia a quel medesimo processo di riduzione del- 
l’essere, operante nella filosofia moderna, che ha il suo esito nel ni- 
chilismo. Diversamente da quanto sostenuto nel DHU, Leibniz man- 
ca nella assicurazione del sensibile, né può innalzarsi alla conoscenza 


2,0 Ibidem, 234; trad. cit., p. 209, corsivo nostro. 



144 4 .Jacobi e Leibniz. Sul progetto incompiuto del “David Hume” 

del soprasensibile, se non in modo arbitrario, come aveva già rilevato 
Kant 231 . 

«[Leibniz], si sottrae, sì, in maniera abbastanza felice al materialismo e al 
nudo sensualismo, ma non riesce per nulla a sollevarsi realmente al di sopra 
del mondo sensibile che egli stesso ha dissolto e ridotto simile al nulla, e a pro- 
cedere verso la sfera del soprasensibile che è la sola veramente reale. A che 
serve innalzarsi al di sopra del nulla se poi ci si trova in quel vuoto in cui, se 
non i fenomeni, continuano però ad illuderci poetiche fantasie? (...) Kant 
questo sogno ha distrutto; e con questo atto si è innalzato al di sopra di 
Leibniz» 232 . 

La filosofia leibniziana non offrirebbe dunque un autentico acces- 
so all’essere, sia sul piano sensibile sia sul piano soprasensibile; per- 
ciò essa non può servire per il superamento del fenomenismo di 
Kant. Gli stessi esiti negativi della Critica della ragion pura mostre - 

231 Una critica sistematica della metafisica leibniziana si trova nella seconda edizio- 
ne (B) della Critica del ragione pura nella “Nota all’anfibolia dei concetti della rifles- 
sione”: cfr. KrV, B 324 e ss. Si badi che nella prima edizione del DHU Jacobi non 
poteva farvi riferimento. Cfr. David Hume, W 2/1, 103 in nota. 

232 Introduzione generale, W 2/1, 383; trad. it., pp. 14-15, corsivo nostro (la tradu- 
zione di Bobbio sottolinea il platonismo della concezione espressa più di quanto il 
testo e la stessa dottrina jacobiana non consentano: «la sfera del soprasensibile che è 
la sola veramente reale»; nell’originale, non leggiamo, infatti, tale connotazione 
esclusiva: «zu einem Uebersinnlichen, wahrhaft Realen»), E pur certo che per il filo- 
sofo tedesco l’intuizione della realtà soprasensibile, che rappresenta la realtà per ec- 
cellenza, garantisca anche per la realtà del sensibile (ossia per la referenzialità del 
“fenomeno”): cfr. Lettera a Lichte, W 2/1, 208, 210; Sulle cose divine, W 3, 122-123. 
Nondimeno, l’accesso ad un soprasensibile che sia reale e non fittizio è vincolato al- 
tresì, per Jacobi, alla rilevanza ontologica accordata all’esperienza sensibile: cfr. ibi- 
dem, 209: «Se l’uomo è reciso dalla ragione che, espressa nel mondo sensibile che lo 
circonda, ordina con autorità la sua immaginazione, quando cade febbrile dai sensi 
nel sogno, allora diviene /«-sensato. La ragion pura, che lo accompagna sempre do- 
vunque, non gl’impedisce, perciò, di pensare, di assumere e di ritenere per certa la 
cosa più assurda. Col perdere i sensi, perde anche l’intelletto e la sua umana ragio- 
ne». Si confronti ancora il passo seguente tratto dalla prima appendice de Sulle cose 
divine : «Perché questo sistema dell’assoluta oggettività [Spinoza] si trasformasse in 
un sistema dell’assoluta soggettività, l’essere esteso doveva prima essere privato della 
sostanzialità. Malebranche, Leibniz e Berkeley hanno cercato di mostrare la non-so- 
stanzialità dell’essere esteso» (ivi, W 3, 121; trad. it., p. 144). Tuttavia, come avremo 
modo di notare ancora, lo scambio funzionale tra la percezione sensibile e la perce- 
zione della ragione, di cui il filosofo assicura l’analogia ma anche la rispettiva indi- 
pendenza, non risulta definitivamente chiarita. In ciascuna di esse, forse per una re- 
ciproca compenenetrazione a diversi livelli, si dà comunque, per il Nostro, l’avver- 
tenza del vero, ossia il senso del reale in quanto tale. 



1. Oscillazioni nell’interpretazione jacobiana di Leibniz 


145 


rebbero la necessità di una via alternativa. La reale intenzionalità del- 
la conoscenza sensibile e la sua integrazione nel dinamismo che ha 
per termine l’attingimento razionale della realtà soprasensibile è in 
effetti l’istanza maggiore fatta valere nel DHU nei confronti del filo- 
sofo di Kònigsberg. La medesima istanza è ripresa nell ’ Introduzione 
generale, ma attraverso una dottrina della ragione la cui complessa 
articolazione lascia trasparire, con l’avanzato sviluppo dei motivi già 
presenti nel DHU, una profonda meditazione dell’opera di Kant 
nonché del successivo sviluppo dell’idealismo trascendentale. 

Potremmo concludere che sia a proposito della fondazione di un 
realismo che garantisca la reale consistenza del mondo sensibile ma 
che sia altresì aperto alla realtà soprasensibile, quale realtà effettiva 
ed anzi eminentemente tale, che la filosofia di Leibniz diviene per Ja- 
cobi dapprima oggetto di interesse e poi di delusione. Il che lascia 
impregiudicata la sua assimilazione della filosofia leibniziana indi- 
pendentemente da tale aspetto; segnatamente per quegli argomenti 
dei quali il filosofo ha riconosciuto l’efficacia nei confronti di Spino- 
za e dell’ontologia del meccanicismo, che poi si riscontrano in tutta 
la sua produzione. 

2. Le tesi leibniziane nel “David Hume” 

Nel DHU l’attenzione di Jacobi si concentra su tre punti capitali del- 
la filosofia di Leibniz: a) la concezione della sostanza come monade; 
b) l’innatismo della conoscenza; c) la continuità di senso e ragione 23 ’. 
Ci limitiamo ad illustrare la declinazione di questi punti in tale con- 
testo, per passare poi (cfr. infra, § 3) all’interpretazione del loro si- 
gnificato complessivo nell’opera del filosofo. Va premesso che la loro 
introduzione appartiene alla sezione in cui l’autore tenta una soluzio- 
ne dei paradossi nichilistici ch’egli ravvisa nella epistemologia di 
Kant. 


233 Le citazioni di Leibniz nel DHU, come ne La dottrina di Spinoza, sono numero- 
se e piuttosto estese. Jacobi attinge ad una notevole varietà di testi, sia dell’opera 
pubblicata sia dell’epistolario; tra i più significativi: i Nuovi saggi sull’intelletto uma- 
no e l’epistolario con B. des Bosses. 11 filosofo sottolinea la speciale importanza di 
quest’ultimo: cfr. David Hume, W 2/1, 79. 



146 


4 .Jacobi e Leibniz. Sul progetto incompiuto del “David Hume 


«[S]e il nostro intelletto si riferisse unicamente a una forma di sensibilità che 
non ci rivela proprio nulla delle cose stesse (...) io non so proprio come potrei 
vivere con tali sensi e con tale intelletto ; (...) Io sono ogni cosa, e fuori di me 
propriamente parlando non vi è nulla. Eppure io, per tutto quello che sono, 
non sono alla fine che una vuota illusione di qualche cosa, la forma di una 
forma , nient’altro che un fantasma come tutte le altre apparenze che chiamo 
cose» 23,1 . 

Notiamo qui preliminarmente, la consistenza dell’io è vincolata al 
riconoscimento del vincolo tra l’intelletto e la sensibilità e del rispet- 
tivo carattere intenzionale; non già, anzitutto, come condizione della 
rappresentazione, ma come garanzia dell’inserzione del soggetto nel 
mondo («come potrei vivere con tali sensi e con tale intelletto»). La 
coscienza dev’essere, cioè, colta nella sua inerenza esistenziale. Il 
problema del realismo (il superamento del rappresentazionismo) va 
dunque risolto al di là di un contesto meramente epistemico. La co- 
noscenza dev’essere, perciò, riguardata nella sua funzione costitutiva, 
ossia nei suoi presupposti antropologici e metafisici. Consideriamo 
ora i punti sopra indicati. 

a) La monade 

La concezione leibniziana della sostanza serve a Jacobi per eviden- 
ziare l’inerenza essenziale della forma (cioè del principio reale di 
identità ed attività) alla materia, sia nella realtà sensibile, in quanto 
questa è dotata di unità ed attività interna, sia nel soggetto finito. 
Una tale determinazione del reale secondo un ordine immanente do- 
vrebbe in primo luogo garantire l’aggancio realistico del pensiero. 
Altrimenti, si avrebbe una determinazione estrinseca o arbitraria del- 
la materia da parte della forma. Conforme alla stessa fonte leibnizia- 
na, l’autocoscienza è assunta come criterio o riferimento privilegiato, 
riflettendo essa direttamente la sintesi reale ed immediata in cui con- 
siste la concreta realtà dell’io (unità e molteplicità; attività-passività; 
coscienza-corpo, mondo; soggettività-oggettività). 

«[I]l suo corpo è composto di un’infinità quantità di parti, da esso ricevute e 
poi restituite, modo tale che neppur una gli può appartenere per essenza. 
Però Ella sente che queste parti le appartengono e lo sente mediante una 


234 David Hume, W 2/1, 61; trad. it., p. 122, corsivo nostro. 



2. Le tesi leibniziane nel “David Hume 


147 


forma invisibile (...) Solo in virtù di questa forma Ella sente tutte le parti, e le 
sente in un unico punti, immutevole ed indivisibile, che Ella chiama il suo Io 
(...) Questo qualcosa che non può non essere alcunché di reale, è chiamato 
da Leibniz la forma sostanziale dell’essere organico, il vinculum compositio- 
nis essentiale o la monade. Perciò io ho aderito con tutta l’anima alla dottri- 
na delle monadi» 235 . 

Questi punti si consolidano nell’intuizione della vita come deter- 
minazione trascendentale (o esemplare) dell’essere e nell’affermazio- 
ne dell’intimo rapporto che qui si può scorgere, a diversi livelli, tra 
l’unità e la molteplicità. La molteplicità spazio-temporale del vivente, 
a differenza della realtà artificiale, è infatti integrata da un principio 
immanente, in sé unitario, attivo e percettivo: «la forma sostanziale 
dell’essere organico». L’anima che costituisce l’individualità coscien- 
te propria dell’uomo è, così, un rappresentante, pur eminente, della 
medesima struttura generale della vita. 

«La nostra anima null’altro è che una determinata forma della vita (...) Il 
molteplice, soltanto nella vita può compenetrarsi e unificarsi. Dove cessa l’u- 
nità, l’individualità reale, cessa pure ogni esistenza» 236 . 

La realtà dell’individuo vivente rappresenta, in tal senso, la solu- 
zione di un problema altrimenti insolubile speculativamente, o a 
priori: la sintesi immediata dell’uno (la forma) e del molteplice (la 
materia), di coscienza ed essere 23 '. La composizione delle opposizio- 
ni in tale sintesi è oggetto di un’intuizione, non il risultato di una co- 
struzione. Una costruzione non sarebbe possibile se non a costo di 
concepire l’io, il mondo e lo stesso rapporto tra l’io e il mondo in 
maniera estrinseca o artificiale, cioè in maniera tale che tali termini 
siano dati dapprima isolatamente e non nello stesso vincolo che li 
lega; dove perciò la forma non compenetra la materia ma soltanto la 
riveste. Ancora, la necessità dell’intuizione è obbligata dalla stessa 
immediatezza della coscienza della vita, poiché la presentazione esi- 
stenziale di questa esclude ogni mediazione rappresentativa. 

L’ontologia dell’individuo vivente, perciò la monadologia, veico- 
la, dunque, per Jacobi il senso fondamentale dell’esistente e condi- 

235 Ibidem, W 2/1, 82-83; trad. it, 138, traduzione leggermente corretta. 

236 Ibidem, 84; trad. it., p. 139. 

237 La stessa problematica è ripresa in maniera più articolata in Sull’impresa del cri- 
ticismo, W 2/1, 289. 



148 


4 .Jacobi e Leibniz. Sul progetto incompiuto del “David Hume 


ziona l’impostazione della problematica critica, poiché ne assicura gli 
stessi presupposti: la realtà positiva dell’oggetto e del soggetto. 

b) L’innatismo della conoscenza 

A questo nucleo della filosofia leibniziana Jacobi riconduce, nelle pa- 
gine conclusive del DHU, l’originale deduzione delle categorie pro- 
posta nella sezione centrale. Mentre la deduzione kantiana non può 
assicurare il riferimento delle categorie dell’intelletto alla realtà in sé, 
a causa del loro carattere soggettivo e formale, il procedimento di Ja- 
cobi punta alla ricognizione delle categorie nella stessa struttura del- 
l’individualità che si riviene nel soggetto conoscente. 

«Tutte le cose veramente reali sono individui o cose singole; e come tali, es- 
seri viventi, principia perceptiva et adiva , l’uno accanto all’altro. Di conse- 
guenza, essendo posto un individuo, devono necessariamente esser posti in 
lui nello stesso tempo i concetti di unità e molteplicità, dell’agire e del pati- 
re, dell’estensione e della successione. Il che vuol dire che questi concetti 
sono innati in ogni individuo» 238 . 

Come si vede, tale procedimento avanza dal concreto reale, svol- 
gendone come dall’interno le proprietà costitutive. L’oggettività dei 
concetti in cui queste proprietà sono espresse è assicurata dall’imme- 
diata certezza del termine cui esse si riferiscono: la realtà dell’indivi- 
duo vivente, cioè dello stesso soggetto. Se ciò si avvicina ad una sorta 
d’innatismo, va notato, però, il senso peculiare in cui la corrispon- 
dente concezione leibniziana è recepita da Jacobi. Non può dirsi nel 
suo caso, come per l’autore dei Nuovi saggi sull’ intelletto umano, che 
l’anima derivi il contenuto o le matrici razionali dell’esperienza dal 
proprio fondo, se con ciò si ammette una corrispondenza estrinseca 
e meramente rappresentativa tra la realtà dell’anima e la realtà sensi- 
bile, con la riduzione di questa a fenomeno. Sì, invece, se la realtà 
dell’anima è colta nella sua immediatezza, nella sua esemplarità e nel- 
la sua concrezione esistenziale, ossia nella sua inerenza causale al 
mondo sensibile. D’altra parte, l’affermazione della continuità tra es- 
sere e pensiero e la sottolineatura della essenziale funzione della pas- 
sività non va disgiunta, per Jacobi, dal riconoscimento dell’irresolu- 


238 David Hume, W 2/1, 85; trad. it., p. 140. 



2. Le tesi leibniziane nel “David Hume 


149 


bile differenza che sussiste tra lo spirito e la materia, perciò l’inderi- 
vabilità della conoscenza dalla causalità 2 ’ 9 . 

«L’oggetto esteriore non può produrre nessuna determinazione del pensiero 
come tale, allo stesso modo che non può produrre né il pensiero stesso né la 
natura pensante. Effettivamente sull’assurdità della tesi opposta si insiste 
troppo poco se si domanda, con Spinoza, se l’anima sia una tavola inanima- 
ta, che venga soltanto incisa dalle cose, o con Leibniz, se essa abbia finestre 
o altre aperture attraverso cui s’introducano le cose» 240 . 

La dottrina deH’innatismo è, quindi, interpretata da Jacobi nei li- 
miti del suo realismo che ha per termini sì la realtà dell’anima come 
principio ontologico ed epistemico, quale modello della sostanzialità, 
sì l’affermazione del legame, pur nell’emergenza, tra lo spirito e la 
materia, ma altresì la reale consistenza di questa, non potendo il cri- 
tico dell’idealismo trascendentale leggere le categorie costitutive del- 
l’individualità sensibile (la successione, l’estensione e la causalità) 
come un mero fenomeno, sebbene cum fundamento in re 241 . Prova ne 
sia la continuata critica del filosofo alla riduzione epistemica della 
nozione di causalità all’ordine della successione o al principio di ra- 
gion sufficiente 242 . 

c) La continuità di senso e ragione 

Nel corso del DHU Jacobi viene vincolando il realismo della cono- 
scenza ad una concezione del rapporto tra la sensibilità e la ragione 
tale per cui tra la prima e la seconda sussiste una profonda continui- 
tà, sia sotto il profilo formale sia sotto il profilo funzionale. Come il 
senso, così la ragione deve riprodurre, ma ad un più alto grado di 
chiarezza, le articolazioni da cui emerge l’essere vivente e la sua si- 
tuazione. Anche la ragione, come la sensibilità, deve aderire alla ma- 
teria dell’esperienza, in forza del rapporto attivo-passivo ch’esse in- 


2,9 A tale proposito, Baum (Vernunft und Erkenntnis , cit., pp. 105-112) nota l’am- 
biguità del realismo jacobiano, anzi la sua assimilabilità all’idealismo di Berkeley. 
Ma questa interpretazione paradossale sembra presupporre da parte sua l’identità 
tra il realismo e il materialismo. 

240 David Hume, W 2/1, 77; trad. it., pp. 133-134. 

241 Cfr. G. W. Leibniz, Nouveaux Essais sur l’entendement humain, 1. 1, in Id., Ehilo- 
sophische Schriften, VI. 6, Akademie Verlag, Berlin 1990, pp. 145-146. 

242 Cfr. David Hume, W 2/1, 49 e ss. 



150 


4 .Jacobi e Leibniz. Sul progetto incompiuto del “David Hume 


trattengono con la realtà e vicendevolmente. Alla delineazione di tale 
prospettiva, Jacobi associa a Leibniz un autore d’impostazione wol- 
ffiana o leibniziana, Johann Georg Sulzer (f 1779). 

«Sulzer fa derivare la sfera della ragione dalla sfera del gusto e trova il suo 
vero fondamento nell’attenzione prodotta dalla chiarezza delle rappresenta- 
zioni. Ora è necessario che tale chiarezza delle rappresentazioni, che è causa 
dell’attenzione, sia a sua volta causata dalla completezza delle impressioni; il 
che conduce inevitabilmente alla conclusione che la caratteristica della ra- 
gione, intesa come segno distintivo dell’uomo in confronto delle bestie, stia 
nella sensibilità particolare dell’ uomo» 243 . 

Nelle pagine seguenti, Jacobi spiega che si deve ad una sorta di 
percezione della ragione la distinzione del riferimento oggettivo dei 
concetti dalla loro forma rappresentativa, ossia il senso della realtà in 
quanto tale. Tale funzione assicura, congiuntamente ai sensi, che 
l’uomo viva una vita desta e non in un sogno 244 . Inoltre, la ragione in- 
tegra la funzione discriminativa dei sensi in misura proporzionale al 
grado di vita, ossia all’unità, alla coscienza e alla spontaneità che con- 
vengono all’essere personale. Nondimeno, la sensibilità superiore 
della ragione corrisponde sempre alla sensibilità inferiore, per cui 
non è possibile una ragione pura, se non in Dio. Solo in Dio, la ra- 
gione è svincolata dal plesso della materia e della sensibilità. 

Ora, tale concezione è esplicitamente criticata nella Introduzione 
generale. Nel DHU non emergerebbe e sembra anzi contraddetta la 
tesi fondamentale che Jacobi ora sostiene: la ragione si riferisce diret- 
tamente ad un campo oggettuale proprio: la realtà soprasensibile. 
Essa è sì una funzione percettiva; soltanto, non è limitata a rischiara- 
re i rapporti formali dati nel sensibile; tale funzione è adesso assegna- 
ta all’intelletto. L’intelletto riproduce o costituisce attivamente i rap- 


243 Ibidem, 66; trad. it., p. 125. 

244 Si badi che l’apparente paradossalità della comparsa di Leibniz nel DHU a so- 
stegno del realismo era esplicitamente sottolineata dall’autore sotto questo riguardo: 
cfr. ibidem, 71 e ss. Infatti, Leibniz tende a identificare la realtà con la consistenza 
logica del suo contenuto oggettivo. L’esistenza riceve perciò una connotazione em- 
pirica e non ha una garanzia assoluta di certezza. In tal senso, egli non pare ricono- 
scere ciò che Jacobi chiama la percezione della “differenza apodittica” tra la veglia e 
il sogno: cfr. G.W. Leibniz, De modo distinguendi phaenomena realia ab imaginariis, 
in Io., Philosophische Schriften, VI.4.b, Akademie Verlag, Berlin 1999, pp. 1500- 
1504. 



2. Le tesi leibniziane nel “David Hume 


151 


porti che articolano la vita sensibile. La ragione, conforme alla digni- 
tà spirituale della persona, attinge intuitivamente le “idee” che stan- 
no al di là del sensibile: lo spirito, la libertà, il vero (l’ente veramente 
essente), il bene, il bello, Dio. 

«Noi siamo partiti da questa domanda: è la ragione umana soltanto un intel- 
letto che emerge dalle intuizioni dei sensi e ad esse soltanto si riferisce; op- 
pure è una facoltà superiore che non adesca già l’uomo con immagini vuote 
e senza riferimento oggettivo, ma gli rivela realmente il vero, il buono e il 
bello in sé? Abbiamo mostrato che la prima tesi è accolta da tutte le filosofie 
che sorsero da Platone [s’intende, escluso] a Kant, ivi compresi Aristotele e i 
suoi successori, tanto nei cosiddetti sistemi razionalistici, di un Leibniz, di 
un Wolff e di un Sulzer, quanto in quelli dichiaratamente sensistici di un 
Locke, di un Condillac e di un Bonnet» 245 . 

Sia Sulzer sia Bonnet figuravano tra le maggiori fonti citate nel 
DHU; specialmente il secondo sembra aver avuto una speciale im- 
portanza durante la prima formazione di Jacobi. Ma è precisamente 
alla sua prima filiazione leibniziano-wolffiana che il filosofo alla fine 
imputa i limiti del DHU nell’impostazione del rapporto tra senso, in- 
telletto e ragione 246 . Del resto, nella nota dell ’ Introduzione generale 
che abbiamo citato, il riferimento a Leibniz nel DHU è riconosciuto 
se non errato o inutile, tuttavia come manchevole per la concezione 
del soprasensibile, qual essa viene ora per lui configurandosi. Leib- 
niz (leggi: la posizione leibniziana maturata nel DHU), poiché non 
distingue qualitativamente il piano sensibile dal piano soprasensibile, 
avrebbe portato al massimo ad «intellettualizzare i fenomeni», come 
aveva notato Kant 247 ; avrebbe, cioè, portato a modificare la forma 
rappresentativa della realtà cui hanno accesso i sensi, la natura, ma 
non il suo contenuto. Ciò che, dalla posizione ora finalmente rag- 
giunta, risulta a tutti gli effetti come un «platonismo mutilato» 248 . 

245 Introduzione generale, W 2/1, 408-409; trad. it., pp. 40-41. 

246 «Come al tempo del suo primo apparire, in cui l’autore, tra il sistema ancor do- 
minante della scuola leibniziana e wolffiana, coi seguaci della quale aveva avuto so- 
prattutto rapporti, e la nuova dottrina di Kant, vigorosamente in ascesa, si era venu- 
to a trovare, con le sue convinzioni dall’una e dall’altra dissenzienti, in una posizione 
intermedia» (ibidem, 375; trad. it., p. 6). 

247 Cfr. KrV, B 327. 

248 Cfr. Introduzione generale, W 2/1, 387; trad. it., p. 19. 



152 4 .Jacobi e Leibniz. Sul progetto incompiuto del “David Hume” 

Peraltro, nell’ultima fase dell’opera di Jacobi appare specialmente 
marcata l’emergenza dello spirito sulla natura e l’impossibilità di una 
mediazione della natura per la conoscenza della realtà soprasensibile. 
Nel confronto con questa, la natura assume anzi talvolta una caratte- 
rizzazione fenomenica, anche in ragione dello stretto vincolo ch’essa 
intrattiene con l’intelletto. La realtà trans-fenomenica tende quindi a 
coincidere sempre più, piuttosto che con la realtà del mondo, con la 
realtà soprasensibile cui solo ha accesso la ragione. 

Nella genesi di tale integrale “platonismo” e nel corrispondente 
superamento deH’awicinamento a Leibniz realizzato nel DHU, si av- 
verte quanto profondamente Jacobi abbia assimilato la Critica della 
ragion pura. Nondimeno, egli ha costantemente tentato un supera- 
mento degli esiti della Dialettica trascendentale, ma in maniera alter- 
nativa alla via pratico-postulatoria proposta dallo stesso Kant; preci- 
samente approfondendo in senso metafisico la concezione percettiva 
della ragione già delineata nel DHU. 

3. La tesi leibniziane nell’opera di Jacobi 

La concezione della ragione finalmente raggiunta da Jacobi delimita 
la portata delle indicazioni presenti in tal senso nel DHU. Tuttavia, il 
filosofo lascia al lettore il compito di determinare quanto del testo 
possa rimanere ancora valido. Rimane perciò da valutare l’incidenza 
complessiva della filosofia di Leibniz nella sua opera. Va detto che 
non ci sono indicazioni precise in tal senso, né l’argomento, a quanto 
pare, è stato ancora oggetto di uno studio sistematico. Nello spazio 
presente, ci limitiamo ad abbozzare alcune ipotesi di lavoro. Ripren- 
diamo anzitutto i punti della filosofia leibniziana già evidenziati ed 
osserviamo la corrispondenza tra essi ed alcuni elementi chiave del 
pensiero di Jacobi. 

a) La monade 

La nozione leibniziana della sostanza soddisfa l’esigenza di reperire 
un principio di unità e di attività intrinseco alla materia e al comples- 
so dei fenomeni, che possa esibirsi immediatamente 249 . Ad essa corri- 


249 Cfr. J. Jalabert, La théorie leibnizienne de la substance, Puf, Paris 1947; M. J. 



3. La tesi leibniziane nell’opera di Jacobi 


153 


sponde la concezione jacobiana della persona, come realtà che soddi- 
sfa in maniera esemplare le determinazioni categoriali dell’esistente 
(rindividualità sostanziale e la causalità) e la cui esistenza sia imme- 
diatamente manifesta alla coscienza 2 ’ 0 . 

«L’uomo stesso è inconfrontabile, è un’unità per se stessa e senza riferimen- 
to ad un’altra, ed è tale per opera del suo spirito particolare che fa sì che egli 
sia quello che è, cioè quest’uno e non quell’altro (...) Egli sa di essere questa 
unità personale, che è se stessa e non è né può essere nessun altro, perché la 
certezza immediata che lo spirito ha di se stesso, è inseparabile dallo spirito, 
dalla personalità, dalla sostanzialità» 251 . 

E da osservare che la tesi di fondo qui sostenuta, il carattere so- 
stanziale e l’immediatezza della soggettività personale, di contro ad 
una sua interpretazione coscienzialistica o dialettica si trova analoga- 
mente espressa in altri testi contemporanei, ma si trovava già analo- 
gamente formulata nel DHU in diretto riferimento a Leibniz 2 ’ 2 . Inol- 
tre, la difesa della persona in tal senso coincide spesso con gli ele- 
menti metafisici rilevati ne La Dottrina di Spinoza : l’inderivabilità 
della vita e dello spirito, la necessità di un’unità e attività interne (cfr. 
supra § 1). 

b) L’innatismo della conoscenza 

Le supreme idee speculative, come l’essere, l’identità e la causalità, 
sono garantite per Leibniz dalla loro inerenza reale allo stesso sog- 
getto conoscente, l’anima 2 ”. A tale impostazione corrisponde il radi- 

Soto Bruna, Individuo y unidad: la substancia individuai segun Leibniz , Eunsa, Pam- 
plona 1988; M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi, Torino 2001. 

250 Cfr. Corrispondenza di Allwill, W 6/1, 224. 

251 Su di una profezia di Lichtenberg, W 3, 26; trad. it., pp. 59-60. 

252 Ad esempio, nel sostenere il carattere esistenziale e non rappresentativo dell’au- 
tocoscienza Jacobi rinvia ad un passo dei Nuovi Saggi sull’intelletto umano (1. IV, § 
9), dove Leibniz identifica nell’ “appercezione immediata della nostra esistenza” la 
fonte delle prime verità a posteriori: cfr. David Hume, W 2/1, 83. 

255 Cfr. G. W. Leibniz, Nouveaux Essais sur l’entendement humain, 1. 1, in Id., Philo- 
sophische Schriften, VI.6, Akademie Verlag, Berlin 1990. Cfr. G. Zóller, From Inna- 
te to a priori. Kant’s radicai transformation of a Cartesian-Leibnizian legacy, «The 
Monist» 72 (1989), pp. 222-235. Lo studioso sottolinea il carattere oggettivo piutto- 
sto che virtuale dei primi principi nella dottrina leibniziana, identificandovi la mag- 
giore differenza rispetto a Kant. A nostro avviso, è invece l’oscillazione del filosofo 
di Lipsia tra questi estremi la sua più notevole ed interessante ambiguità. 



154 


4 .Jacobi e Leibniz. Sul progetto incompiuto del “David Hume 


camento del realismo jacobiano nella prospettiva intenzionale conna- 
turata alla persona. La determinazione razionale della struttura del- 
l’essere è primariamente vincolata, per Jacobi, alla garanzia, o piutto- 
sto, all’interpretazione dell’esistente ( Daseyn ). A questo riguardo, il 
principio dell’inderivabilità del determinato dall’indeterminato, che 
Jacobi, con Leibniz, ha rivolto verso Spinoza, trova riscontro nella 
sua critica alla nozione kantiana di appercezione pura e all’estensio- 
ne idealistica del principio di autonomia. Di qui la sua costante enfa- 
si sull’inerenza della conoscenza all’“organizzazione”, ovvero al com- 
plesso di disposizioni naturali e di relazioni pratico-intenzionali da 
cui risulta la concreta identità del soggetto. Peraltro, la costante sot- 
tolineatura da parte del filosofo di Dusseldorf del carattere virtuale e 
tendenziale (“istintivo”) dei principi supremi della ragione, sia d’or- 
dine teoretico sia d’ordine pratico, coincide con un altro importante 
motivo anti-cartesiano dell’innatismo leibniziano. Per Leibniz, come 
per Jacobi, la vita, ai suoi diversi livelli, realizza una “logica 
naturale”, cioè un insieme di certezze manifeste dapprima al senti- 
mento che alla riflessione, che si deposita poi nel cosiddetto “senso 
comune”. 

«L’uomo ha appreso la lingua e la religione, come ha appreso a vedere e udi- 
re. Egli (...) non avrebbe mai imparato a udire se già non si fosse trovato in 
una natura articolata, ritmica, piena di suoni, accenti e sillabe. Questa dove- 
va essere già preparata e ordinata per lui; doveva essere già organizzata per 
lui, come egli per essa, se doveva essere guidato da lei, articolarsi con lei, se 
egli doveva sentire, vivere, pensare, volere, agire. Isolato, solo per sé, egli 
non è nulla, un essere impossibile» 254 . 

L’immediatezza delle idee, sostenuta infine da Jacobi, sopravanza 
la realtà ontologica dell’anima e della natura, perciò il piano imma- 
nente delle “categorie”, sporgendosi verso la realtà soprasensibile, 
termine della coscienza morale e religiosa. Pur se l’appartenenza vi- 
tale dell’io è così estesa oltre l’ambito sensibile, vi si trova ancora l’i- 
dea leibniziana già evidenziata nel DHU e nella sesta appendice La 
Dottrina di Spinoza circa la necessità di “un fondamento a priori del- 
l’armonia”, ossia di un’articolazione della soggettività con l’essere, 
antecedente alla stessa coscienza. 

254 Su di una profezia di Lichtenberg , W 3, 14; trad. it. p. 48. 



3. La tesi leibniziane nell’opera di Jacobi 


155 


c) La continuità di senso e ragione 

Le tesi dell’ontologia leibniziana connesse a questo punto, anzitutto 
la corrispondenza originaria tra forma e materia, tra anima e corpo, 
sono citate da Jacobi nel DHU per garantire il realismo della cono- 
scenza nei confronti del corrispondente dualismo di Kant. Tali tesi 
sono, quindi, recepite da Jacobi in senso generale, poiché consenta- 
nee alla garanzia del radicamento esistenziale del pensiero; perciò 
sono recepite indipendentemente dalla loro eventuale declinazione 
fenomenistica, già chiaramente intercettata dall’autore. Inoltre, gli 
stessi termini e le stesse istanze si ritrovano nei testi posteriori in cui 
il filosofo affronta nuovamente la dottrina kantiana, ma senza un 
esplicito riferimento a Leibniz. Del resto, esse appaiono connesse 
agli elementi nucleari della concezione di Jacobi, sopra citati (cfr. su- 
pra, a, b). 

Ma la tardiva ascrizione all’intelletto di quella continuità funzio- 
nale con i sensi, dapprima attribuita alla ragione, e la mera analogia 
rimasta tra i sensi e la ragione, lasciano aperta la determinazione del 
rapporto tra queste tre facoltà. Come abbiamo già anticipato, le indi- 
cazioni dell’ Introduzione generale a tale riguardo appaiono suggesti- 
ve ma anche piuttosto vaghe se si bada alla funzione definitivamente 
chiarificatrice che il filosofo le assegna. Tra le difficoltà che sembra- 
no frapporsi ad una tale sintesi registriamo ancora una volta: 1) la 
progressiva sottolineatura del carattere formale e costruttivistico del- 
l’intelletto, ad esempio nella Lettera a Fichte ; 2) la sempre più marca- 
ta contrapposizione tra lo spirito e la natura, ad esempio ne Sulle 
cose divine. 

Il platonismo integrale finalmente raggiunto da Jacobi sembra 
confliggere con le istanze aristoteliche inizialmente veicolate dallo 
stesso Leibniz. Nell’ultima fase Jacobi sembra, infatti, concentrarsi 
sull’interiorità e sull’orizzonte trascendente dell’individualità spiri- 
tuale piuttosto che sulla struttura categoriale del suo essere nel mon- 
do, ch’era uno tra i principi fondanti del realismo sostenuto nel 
DHU. 



156 


4 .Jacobi e Leibniz. Sul progetto incompiuto del “David Fiume 


4. Ipotesi di soluzione: un diverso concetto di vita 

Riprendendo da quest’ultimo punto la problematica di fondo per cui 
Jacobi si era accostato a Leibniz, la sintesi degli elementi che confi- 
gurano il rapporto tra la soggettività e l’essere (intelletto, ragione, 
sensibilità; forma, materia), si potrebbe notare come il cambiamento 
più significativo della sua impostazione, perciò del suo atteggiamen- 
to verso il filosofo di Lipsia, concerna anzitutto lo stesso concetto di 
vita, il quale, come si è visto, ne rappresentava la chiave di volta. 

Il concetto di vita presentato nel DHU sembra inclusivo o analo- 
gico. La soggettività corrisponde al concetto aristotelico di forma o 
anima. Conforme a tale impostazione, l’anima può comprendere nel 
suo seno i diversi gradi dell’essere, dalla vita sensibile alla vita spiri- 
tuale, e tale sintesi può venire spiegata in una filosofia della natura. 
Più precisamente, tale inclusione è resa possibile da una concezione 
vitalistica od organicistica della natura. 

Nell’opera successiva appare, invece, una concezione meccanici- 
stica, in diretta connessione con una concezione costruttivistica del- 
l’intelletto 253 . La natura e l’intelletto appaiono ora come i rappresen- 
tanti della necessità. Conseguentemente, la realtà dell’anima è identi- 
ficata da Jacobi con la realtà dello spirito, sede della vita morale e re- 
ligiosa. La libertà dello spirito non è contrapposta alla natura, così da 
sostenere espressamente una sorta di dualismo 25 '’. Ma l’unità di que- 
sti aspetti risulta adesso come un fatto impiegabile 23 '. 

All’origine di tale cambiamento si può in primo luogo notare an- 
cora una volta l’influsso di Kant, per quanto Jacobi continui ad insi- 
stere fino all’ultimo, in opposizione a questi, sul carattere intenziona- 

255 Cfr. V. Verrà, “Lebensgefiihl, Naturbegriff und Naturauslegung bei F.H. Jaco- 
bi”, in K. Hammacher (a cura di), Friedrich Heinrich Jacobi. Philosoph und Literat 
der Goethezeit, Klostermann, Frankfurt a.M. 1971, pp. 259-271. Anche O. Bollnow, 
nel suo importante studio dedicato alla filosofia della vita di Jacobi ( Die Lebensphi- 
losophie F. H. Jacobis , cit.), nota un’evoluzione del filosofo a tale riguardo, rico- 
noscendovi, anzi, tra gli altri indizi, una complessiva involuzione razionalistica della 
sua primigenia ispirazione esistenziale. Come avremo modo di notare ancora, tale 
valutazione non sembra, però, apprezzare abbastanza la specifica intenzionalità e gli 
elementi di continuità della concezione jacobiana della ragione. 

2511 S’intende, Jacobi sostiene sempre il dualismo, cioè la distinzione delle opposte 
proprietà dell’io (così pure come la reale distinzione dell’io e del mondo, etc.), ma 
non sostiene un dualismo di sostanze, poste in relazione negativa o accidentale. 

257 Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 234. 



4. Ipotesi di soluzione: un diverso concetto di vita 


157 


le della sensibilità e per quanto egli tenda sempre più a spostare l’i- 
stanza di fondo del proprio realismo, la sintesi di ragione e vita, sullo 
stesso piano metafisico dei “postulati della ragione pratica” 258 . Non è 
infine improbabile che nella rinuncia di Jacobi ad elaborare una me- 
tafisica comprensiva della natura e dello spirito, conforme ai principi 
leibniziani stabiliti nel DHU, abbia giocato un ruolo decisivo l’analo- 
go tentativo di Schelling, la cui ripresa dell’individualità leibniziana 
in senso spinoziano porta ad infrangere la cornice personalistica che 
è caratteristica del pensiero del filosofo di Dusseldorf ’ 9 . Precisamen- 
te tale cornice sembra essere, infine, la chiave della sua originale assi- 
milazione della monadologia. 

Infine, se l’ambigua presenza di Leibniz nell’opera di Jacobi su- 
scita un’autentica difficoltà intorno alla unità teoretica di questa, gli 
elementi di continuità che abbiamo rilevato dovrebbero invece con- 
fermarla, oltre ad attestare la libertà del nostro autore rispetto alle 
proprie fonti. 


258 Pur è da notare una certa evasività di Jacobi sulla Crìtica del giudizio , che cita 
assai di rado e la cui maggiore considerazione avrebbe forse modificato la sua filoso- 
fia della natura. 

255 Cfr. F. W.J. Schelling, Ideen zu einer Philosophie der Natur, in Schellings Wer- 
ke, Beck, Miinchen 1979, Bd. I; F. Moiso, Vita, natura, libertà. Schelling (1795- 
1809), Mursia, Milano 1990, pp. 65-70; E. Booth, Leibniz and Schelling, «Studia 
leibnitiana» 32/1 (2000), pp. 86-104. 



158 



5. Jacobi e l’interpretazione fìchtiana della 
“Lettera a Fichte” 


L’opera di Fichte sembra conoscere un sensibile cambiamento nei 
confronti della nozione più esposta alle pretese costruttive dell’idea- 
lismo: l’essere. Alla limitazione del tema durante l’insegnamento del 
filosofo a Jena (1794-1799) si oppone la speciale importanza ch’esso 
viene ad assumere nell’opera posteriore del periodo berlinese. A tale 
proposito, nella letteratura recente emerge l’importanza di Jacobi, e 
specialmente della sua critica formulata nella Lettera a Fichte (1799). 
Com’è noto, la critica di Jacobi in questo scritto culmina nella de- 
nuncia del vincolo tra idealismo e nichilismo. La rilevanza di tale cri- 
tica si può osservare già dal fatto che tale vincolo è stato riconosciuto 
di lì a poco dallo stesso Fichte ne La Destinazione dell’uomo (1800), 
spingendolo ad una più rigorosa delimitazione dell’ambito del pen- 
siero e all’affermazione della sua trascendenza. 

In quale misura tale riconoscimento e la sua conseguente elabora- 
zione sono in contrasto o sono invece coerenti con la primigenia im- 
postazione dell’idealismo? In quale misura la ripresa dell’essere nella 
tarda filosofia di Fichte soddisfa l’istanza jacobiana di salvare il pen- 
siero riflessivo dalla caduta nel nichilismo? 

I. Realismo e idealismo: l’istanza di una mediazione 

1. Le nozioni ontologiche fondamentali: essere ed esistenza 

Assumiamo in primo luogo che “essere” significa per Jacobi lo stesso 
che “esistenza”. Nella sua opera non c’è una distinzione esplicita tra 
queste nozioni, particolarmente nei contesti pertinenti il suo con- 
fronto con l’idealismo: nella formulazione del realismo e nella deter- 
minazione dell’essenza dell’uomo. Quanto al primo aspetto, l’essere, 



160 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


come principio in cui consiste la verità del pensiero, vi si trova 
espresso coi termini seguenti: l’“ente reale” (das Wahre Wesen ) e 
1’“ effettività” (’ Wirklichkeit ); i quali si oppongono all’“ente mentale” 
e alla mera possibilità prefigurata nel concetto. Quanto al secondo 
aspetto, l’essere viene a caricarsi delle connotazioni tipiche della real- 
tà finita, ma particolarmente della vita umana: l’individualità, l’in- 
treccio di unità e molteplicità, di attività e passività; la causalità, la 
temporalità e la finalità. Del resto, come vedremo, tali aspetti sono 
connessi: il realismo è congiunto, per Jacobi, ad una ontologia che ha 
nell’esistenza umana la sua fonte ed il suo criterio fondamentale. 

L’opera di Fichte presenta, invece, una terminologia ontologica 
piuttosto articolata. Per Fichte, ad esempio, c’è una distinzione con- 
cettuale tra la nozione di “essere” (Sein ) e la nozione di “esistenza” 
(. Dasein ). La prima corrisponde all’ “assoluto”, nella sua semplice ed 
eterna identità; la seconda corrisponde alla manifestazione dell’“as- 
soluto” nella coscienza 260 . L’ontologia di Fichte è, inoltre, guidata da 
alcuni principi assai differenti da quelli di Jacobi, che anzi questi 
contesta. Ad esempio, l’esclusivo carattere attivo e riflessivo dell’io, 
la funzione costitutiva del principio di identità, l’istanza di una giu- 
stificazione immanente ed assoluta del sapere. L’attività dell’io è, per 
il filosofo tedesco, il presupposto di ogni oggettivazione e “realizza” 
la funzione fondante del principio d’identità. L’io è, perciò, il fonda- 
mento soggettivo ed oggettivo, formale e materiale, del sapere. In ge- 
nerale, il dato di coscienza, quanto appare come un fatto, dev’essere 
dedotto da un’istanza a priori. Il dato esistenziale dev’essere, cioè, 
interpretato e garantito da un principio che è vero, poiché è necessa- 
rio ed è vincolante la stessa possibilità della coscienza. Tale principio 
è dapprima individuato da Fichte nell’autonoma attività dell’io, infi- 
ne nell’essere. 


260 La nozione di esistenza riceve una caratterizzazione in tal senso nelle due opere 
nelle quali Fichte ha riconosciuto ad un certo punto il vertice della propria filosofia, 
almeno quanto alla forma espositiva: La Dottrina della scienza del 1804 (2‘ esposi- 
zione) e V Introduzione alla vita beata (1806). Cfr. M. Ivaldo, La visione dell’essere 
nella ‘Dottrina della scienza 1804-II' di Fichte, «Acta Philosophica» 7 (1998), pp. 41- 
64. 



I.Realismo e idealismo: l’istanza di una mediazione 


161 


2. Profilo della critica di Jacobi: pensiero ed esistenza 

Per istituire un confronto in tale contesto, riteniamo come direttiva 
la semantica utilizzata da Jacobi nella Lettera a Fichte (d’ora in poi in 
questo capitolo, nel corpo del testo: Lettera ) 261 . Si potrà cogliere dal 
vivo il modo in cui Fichte accoglie il vulnus ontologico qui inferto da 
Jacobi, fornendone una propria interpretazione. Come vedremo, la 
risposta di Fichte alla Lettera ne riceve alcune istanze, ne mutua la 
terminologia, pur ridefinendone il significato. Leggiamo un passo 
della Lettera dove si possono trovare gli elementi essenziali della cri- 
tica di Jacobi all’idealismo trascendentale. 

«L’uomo conosce soltanto nel concepire (indem er begreift), e concepisce 
solo in quanto, trasformando la cosa in pura forma, fa della forma la cosa e 
della cosa un nulla (Gestalt zur Sache, Sache zu Nichts macht). Più chiara- 
mente! Noi afferriamo una cosa nella misura in cui ci riesce di costruirla e di 
farla sorgere dinanzi a noi nel pensiero. In quanto non possiamo costruirla e 
produrla nel pensiero, allora non Tafferriamo. Se, dunque, un ente deve di- 
venire un oggetto da noi compiutamente colto (ein Wesen ein von uns voll- 
standig begriffener Gegestand ), dobbiamo rimuoverlo col pensiero nella sua 
oggettività, come in sé sussistente, (objectiv als fiir sich bestehend) e farlo di- 
ventare del tutto soggettivo, una nostra propria creatura, un mero schema 
(Schema). Non deve rimanervi nulla o presentare alcun elemento essenziale 
del suo concetto che non sia nostra azione, un mero dispiegamento della no- 
stra immaginazione produttiva. In tal modo, lo spirito umano, poiché il suo 
comprendere filosofico non si estende affatto al di là del suo produrre, per 
penetrare nel regno degli enti e conquistarlo col pensiero, deve divenire 
creatore del mondo e creatore di se stesso. Solo quando ciò gli riesca potrà 
allora avanzare nel primo. D’altra parte, può essere creatore di se stesso solo 
alla condizione universale sopra addotta: deve annullarsi nell’essere per rina- 
scere e possedersi (sich zu haben) soltanto nel concetto: nel concetto di un 
puro, assoluto uscire ed entrare, originariamente dal nulla al nulla, per nulla 
nel nulla; oppure nel concetto di un movimento pendolare, che, in quanto 
tale, cioè in quanto movimento pendolare, genericamente si pone di necessi- 
tà dei limiti, ma che ha dei limiti determinati, corrispondenti alla sua parti- 
colarità, per un’inconcepibile delimitazione» 262 . 


261 Cfr. Lettera a Fichte , W 2/1, 187-258. Per un’analisi di questo testo, specie per 
le fonti e per la vicenda redazionale: cfr. A. Iacovacci, Idealismo e nichilismo. A par- 
tire dalla “Lettera a Fichte”, Cedam, Padova 1991. 

262 Lettera a Fichte, W 2/1, 201-202. 



162 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


Riguardando il passo all’interno dell’intero testo cui esso appar- 
tiene, potremmo sintetizzarne il contenuto nel modo seguente: 

a. Il sapere coincide con l’attività rappresentativa dell’intelletto. 
Tale attività è originariamente riflessa e produttiva: essa non ha, cioè, 
presupposti 26 ’. Ciò comporta la riduzione a fenomeno del mondo, 
nonché dello stesso soggetto cui si apre tale visione. Ma la comune 
connotazione referenziale del fenomeno, e con ciò il senso della co- 
noscenza come manifestazione di qualcosa a qualcuno, risultano mo- 
dificati. L’intenzionalità in cui consiste il pensiero oggettivo non ha 
portata reale. Il pensiero deve tornare dalle determinazioni opposte, 
costitutive del fenomeno, l’io e il mondo, alla propria originaria, so- 
stanziale identità 264 . 

b. La finitezza è una proprietà necessaria dell’oggettività. Ma que- 
st’ultima è un determinazione dell’attività in sé infinita dell’io pen- 
sante. Ora, non ci può essere un vincolo determinato tra l’infinito e il 
finito. La finitezza è, dunque, a priori un prodotto della autodeter- 
minazione del pensiero. Ma la sua manifestazione fattuale concreta 
non è rilevabile altrimenti che empiricamente 265 . 

c. Il risultato di tale impostazione è, secondo Jacobi, la distruzio- 
ne speculativa dell’esistente, poiché l’identità reale in cui esso ci si 
presenta, anzitutto nell’io, l’essere in sé sussistente e l’avere una de- 
terminazione individuale specifica, appaiono in contraddizione con 
la tesi idealistica circa il carattere immanente e sostanziale del pensie- 
ro 266 . L’assunzione dell’assoluta autonomia del pensiero, in tal senso, 
venendo a risolvere l’oggetto ed il soggetto finito nell’identità univer- 
sale del suo atto, comporta l’elevazione dell’indeterminazione, perciò 
del nulla, al rango di unica sostanza, e la subordinazione dell’ente fi- 
nito a sua manifestazione fenomenica o accidentale. Ma il fenomeno 
del nulla risulta, finalmente, anch’esso un nulla; o piuttosto, l’appa- 

263 A tale proposito, Jacobi riconosce in Fichte la rigorizzazione del principio “vi- 
cinano” di Kant: «Il nocciolo della filosofia kantiana sta nella seguente verità (...): 
noi concepiamo un oggetto soltanto in quanto siamo in grado di trasformarlo in un 
contenuto di pensiero, di produrlo nellintelletto» (Sulle cose divine, W 3, 78; trad. 
it.,p. 104). 

264 Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 194-195, 229. 

265 Cfr. ibidem, 203-206. 

2611 Sotto questo profilo, Jacobi riconosce nell’idealismo il compimento della meta- 
fisica del razionalismo, che ha in Cartesio il suo iniziatore e in Spinoza il suo para- 
digma: cfr. ibidem, 194. 



I.Realismo e idealismo: l’istanza di una mediazione 


163 


rente varietà dell’esistente non è che l’arbitraria modificazione di un 
unico soggetto, in sé indifferenziato. 

Per cogliere il senso di questa conclusione, nella quale Jacob i stig- 
matizza l’esito nichilistico dell’idealismo, si deve notare che il nulla 
coincide per il filosofo di Dusseldorf non già, soltanto, con il non- 
esistente, ma con l’indeterminato. Infatti, egli identifica il nulla con il 
concetto platonico, negativo o quantitativo, di infinito 267 . Il finito è, 
invece, per lui contrassegnato da un’intrinseca, seppure relativa, po- 
sitività. L’esistenza è legata all’individualità, e l’individualità, o la de- 
terminatezza, ha una valenza “trascendentale”, cioè originariamente 
costitutiva, non già meramente privativa. 

Tale critica risulta coerente con l’impianto del pensiero jacobiano 
ed è, infatti, confermata nell’ultima sintesi svolta nell’ Introduzione 
generale (1815). In essa si legge la continuità delle idee abbozzate ne 
La dottrina di Spinoza (1785/89) e nell’interpretazione dell’idealismo 
fichtiano come “spinozismo rovesciato” ( umgekehrter Spinozismus ) 
condotta nella Lettera, poi approfondita rispetto a Schelling ne Sulle 
cose divine (1811). Del resto, tale critica si regge su di una soluzione 
che dovrebbe avvantaggiarsi della vivida rappresentazione della pa- 
radossalità dell’idealismo come una “molla” per compiere quell’acro- 
bazia per cui Jacobi è ricordato: il “salto mortale”, l’affermazione im- 
mediata dell’essere e del teismo 268 . 

3. Profilo della risposta di Fichte: il superamento immanente del 
pensiero 

Una volta colto l’andamento della critica svolta nella Lettera, è assai 
sorprendente notare come Fichte e Schelling ricalchino successiva- 

267 Cfr. ibidem, 210, 214. La concezione del finito e dell’infinito di Platone, special- 
mente del Filebo, sono particolarmente apprezzati da Jacobi nell’ultima lettera rac- 
colta nella Corrispondenza di Attivili, la “Lettera aggiunta a Erhard O.” (cfr. W 6/1, 
237 e ss.). Il filosofo rimanda specialmente a questo scritto per un’adeguata inter- 
pretazione della Lettera : cfr. Lettera a Fichte , W 2/1, 200. 

268 «Io me la cavo con un salto mortale (...): dal fatalismo concludo immediatamen- 
te contro il fatalismo e tutto ciò che vi è connesso» ( Sulla dottrina di Spinoza, W 1/1, 
20; trad. it., pp. 69-70). Per un’interpretazione del “salto mortale” nel complesso 
della epistemologia di Jacobi: cfr. B. Sandkaulen, Grand und Ursache. Die Vernunft- 
kritik Jacobis, cit.; S. Schick, Vermittelte Unmittelbarkeit, Kònigshausen & Neu- 
mann, Wiirzburg 2006. 



164 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


mente questi stessi passi, ossia l’assimilazione della negatività del 
pensiero oggettivo (concettuale o rappresentativo), quale medio per 
l’affermazione dell’essere. Pure, essi intendono dare a tale procedi- 
mento una giustificazione sistematica. La tesi dell’essere è, così, ri- 
guadagnata attraverso l’esperienza della nullità del pensiero, da cui è 
confermata, per un passaggio immanente, la sua essenziale referen- 
zialità 269 . 

Nondimeno, Jacobi presentava già una propria soluzione: la nega- 
tività del pensiero, che egli, infine, attribuisce al potere astrattivo 
dell’ “intelletto” ( Verstand ), era per lui superata da una originaria po- 
sitività, la funzione percettiva della “ragione” (Vernunft ) 1 ' 0 . La ragio- 
ne, attingendo immediatamente l’essere (ed essendo perciò altrimen- 
ti connotata come “fede”, Glaube, “senso” o “intuizione”) 271 , supera 
la disposizione costruttiva dell’ “intelletto”, aggirando la premessa da 
cui era obbligata la caduta nel nichilismo. 

Tuttavia, ci si potrebbe chiedere se tale soluzione non sia anch’es- 
sa debitrice del suo trascorso dialettico, ossia dal lungo, accidentato 
percorso del “filosofo della fede” attraverso le conseguenze del “ra- 
zionalismo” (Spinoza, Kant, Fichte, Schelling) 272 . In tal caso, avreb- 
bero, forse, ragione Fichte e Schelling nel reintegrare il loro primo 
idealismo in una sintesi superiore di realismo e idealismo? Ma se così 

265 Per il rapporto tra Jacobi, Fichte e Schelling: cfr. C. Ciancio, II dialogo polemico 
tra Schelling e Jacobi, cit.; B. Sandkaulen, Ausgang vom Unbedingten: ùber den An- 
fang in der Fhilosophie Schellings, Vandenhoeck & Ruprecht, Gòttingen 1990; J. 
Cruz Cruz, Razones del corazon. Jacobi entre el romanticismo y el clasicismo, Eunsa, 
Pamplona 1993; M. Ivaldo, Filosofia delle cose divine. Saggio su Jacobi, Morcelliana, 
Brescia 1996. 

2,11 Per la tarda giustificazione di questi termini, con particolare riferimento alla tra- 
dizione e a Kant: cfr. Introduzione generale, W 2/1, 377 e ss.; Su di una profezia di 
Lichtenberg, W 3, 28-29 in nota. 

2.1 II diverso impiego di questi termini corrisponde alla progressiva maturazione 
del pensiero di Jacobi, che giunge infine a chiarire il senso del primo, provocatorio 
impiego del termine “fede” quale equivalente della funzione ricettiva dell’esistenza. 
A tale chiarimento è dedicato l’intero David Fiume. 

2.2 In tale prospettiva è sottolineato l’aspetto, per così dire, “patetico” dell’opera di 
Jacobi, in particolare della nozione di “salto mortale”, sia che se ne denunci l’incon- 
sistenza, per la sua funzione reattiva: cfr. E. Dusing, Grundprobleme des Nihilismus. 
Von Jacobis Fichte-Kritik zu Heideggers Nietzsche-Rezeption , «Perspektiven der Phi- 
losophie» 50 (2007), pp. 177-226; sia che si apprezzi il valore e la portata teoretica 
dell’ispirazione morale che esso rappresenta: cfr. M.M. Olivetti, Nichilismo e anima 
bella in Jacobi, «Giornale di Metafisica» (1980) fase. II, pp. 11-36. 



I.Realismo e idealismo: l’istanza di una mediazione 


165 


fosse, sarebbe risolto il problema del nichilismo, così come esso era 
stato formulato da parte di Jacobi? 

Prendiamo ad esempio l’insieme degli scritti di risposta di Fichte 
alla Lettera, e specialmente una missiva a Jacobi del 1810 dove il filo- 
sofo sembra tracciarne un ultimo rendiconto 2 '’. Secondo Fichte, il 
pensiero tradirebbe la sua limitazione soggettiva per la sua essenziale 
referenzialità all’essere. Tale referenzialità è nondimeno immanente: 
l’essere significa l’assoluto, e l’assoluto, in quanto tale, non può esse- 
re oggetto, ma il “soggetto” sostanziale del pensiero. L’intera realtà 
descritta nel pensiero oggettivo, l’io e il mondo, dev’essere, perciò, 
ricondotta ad un unico fondamento, quale sua manifestazione empi- 
rica o “schema”. 

Vi è, dunque, una modalità doppia per cui il pensiero è relativo. 
Il pensiero è relativo per la sua immediata intenzionalità rispetto al 
mondo. E questa l’accezione realistica della referenza ontologica. In 
una seconda modalità, corrispondente ad un passaggio riflessivo ca- 
ratteristico dell’impostazione trascendentale, l’atto e il contenuto in 
cui consiste l’intenzionalità del pensiero rinviano ad un principio as- 
soluto. Infatti, né l’io né il mondo, per l’alterità e correlazione in cui 
essi si presentano, possono valere l’assoluto. Da un lato, il pensiero 
(“l’io”), cui pur è da attribuirsi la struttura soggettiva e il molteplice 
contenuto dell’esperienza, è obbligato dalla propria struttura relazio- 
nale a rinviare ad un fondamento 2 ' 4 . D’altro lato, tale fondamento 
non può manifestarsi come tale, ma solo tramite e sotto la condizione 
finita del pensiero. Infine, poiché il pensiero non può essere trasceso 
e per il carattere formale del fondamento, l’assolutezza, la relazione 
del pensiero al fondamento non è oggettiva o estrinseca (intenziona- 
le) ma immanente. Il pensiero, e con esso l’intero contenuto dell’e- 
sperienza, non è una possibile espressione dell’assoluto, da parte di 
un certo soggetto, ma è la necessaria manifestazione ^//'assoluto, 
quale suo reale “soggetto”, qualora esso debba manifestarsi. 


273 Cfr. Fichte, GA III/6, 327-331. 

274 A tale proposito, Juan Cruz Cruz evidenzia nell’opera di Fichte la continuità di 
un medesimo movimento “riduttivo”: dall’esperienza all’io, cui corrisponderebbe il 
momento idealistico della prima dottrina della scienza del periodo jenese, e dall’io 
all’assoluto, l’ultimo sviluppo metafisico del periodo berlinese. Cfr. J. Cruz Cruz, Fi- 
chte. La subjetividad come manifestación del ahsoluto , Eunsa, Pamplona 2003. 



166 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


«Solo lo schema (Schema) assoluto di Dio, così come quello esiste, cioè, sem- 
plicemente, come mero apparire di Dio, è, secondo essa [la dottrina della 
scienza], il reale nel fenomeno (das Reale in der Erscheinung). Questo de- 
v’essere colto semplicemente così come è, attraverso se stesso, senza un ulte- 
riore fondamento esterno: semplice, immutabile, senza tempo, senza alcuna 
forma d’intuizione o di pensiero (...) Ma in quanto esso viene osservato, e 
viene osservato in relazione alla facoltà che osserva se stessa (l’io), allora 
quella unità si rompe in una molteplicità, secondo leggi da dimostrare» 275 . 

In modo analogo, Schelling, in un opera tarda dove anch’egli ten- 
ta una assimilazione critica delle istanze di Jacobi, vincola la rivela- 
zione dell’assoluto, come assoluto essere, all’intrinseca mediazione 
del pensiero. Ciò significa: l’inizio è, per noi, il pensiero oggettivo, ri- 
ferentesi all’ente finito. Tale dualità tra il pensiero e l’ente finito de- 
v’essere risolta dalla speculazione. Il pensiero deve, allora, dare pro- 
va di essere l’assoluto: esso dovrebbe rappresentare “realmente” la 
totalità dell’ente finito. Ma l’identificazione del pensiero, come tota- 
lità dell’ente finito, con l’assoluto è contraddittoria: ci sarebbe, anco- 
ra, una dualità tra il sapere, come totalità o “sostanza”, e il suo mol- 
teplice contenuto. Per mezzo di tale riflessione, il pensiero manifesta, 
dunque, che l’assoluto, l’essere in sé identico, è aldilà di se stesso: «Il 
sapere si assicura dell’essere eccedente annichilandosi» 2 ' 6 . 

In entrambi gli autori questo procedimento è confrontato con la 
posizione realistica di Jacobi, sì riconoscendone, tramite una tale in- 
terpretazione, la verità di fondo, ossia la relazione necessaria del pen- 
siero all’essere, ma denunciandone l’ingenuità, cioè l’assenza di una 
dimostrazione, e l’abbandono dell’unico medio in cui essa può svol- 
gersi: lo stesso pensiero. Sotto questo profilo, si può scorgere in loro, 
con chiarezza, la continuità dell’impostazione trascendentale. 

4. Jacobi e l’ontologia di Fichte: il rapporto di essere ed esistenza 

Ma è così soddisfatto il debito jacobiano? Determinando meglio il 
problema, possiamo chiederci: necessita l’affermazione dell’essere di 
una mediazione immanente o “dialettica”? Lo stesso procedimento 


275 Fichte, GA III/6, 329. 

2 '“ F. W.J. Schelling, Zur Geschichte der neuren Philosophie , in Schellings Werke, 
Beck, Mùnchen 1979, Bd. V, pp. 249-250. 



I.Realismo e idealismo: l’istanza di una mediazione 


167 


di Jacobi prevede in qualche modo la necessità di una tale mediazio- 
ne? Infine, è sufficiente la prova fornita da Fichte (e da Schelling) 
per evadere dal nichilismo, secondo la formulazione datane da Jaco- 
bi? Cominciamo da quest 'ultima questione. 

Un aspetto della critica della Lettera parrebbe, in effetti, supera- 
to: non c’è un’opposizione esclusiva tra il pensiero e l’essere. L’esse- 
re è il “contenuto”, anzi il contenente del pensiero. L’identità assolu- 
ta non può consistere nell’io, quale esponente della soggettività del 
pensiero, ma in un principio al di sopra dell’io. Del resto, questa tesi 
si può trovare nella prima opera di Fichte, seppure non in maniera 
altrettanto recisa né nel contesto di un’assimilazione sistematica del 
realismo. Un esempio al proposito, è l’iniziale, incerta identificazione 
dell’io e dell’assoluto in relazione alla struttura riflessiva dell’autoco- 
scienza, e la prevalente, univoca connotazione empirica e negativa 
dell’essere (come “fatto” e “non-io”), che nell’opera posteriore sono 

• 277 

progressivamente superate . 

Tuttavia, un aspetto ancora emergente della critica di Jacobi è la 
dissoluzione idealistica della consistenza sostanziale dell’esistente fi- 
nito, che pur nella nuova formulazione sembra rimanere invariata. 
L’esistente, che si presume appartenere originariamente al pensiero, 
è trasceso nell’essere, a titolo di fenomeno o accidente dell’assoluta 
sostanza. Ma è così salvaguardata la consistenza reale ed intelligibile 
dell’esistente finito, ossia la sua relativa autonomia ontologica e la 
sua necessaria, cioè costitutiva, funzione epistemica? 

A questo proposito, bisogna osservare che la critica del nichilismo 
di Jacobi presupponeva una determinazione caratteristica dell’esi- 
stente, la quale era riconosciuta come normativa sia per la concezio- 
ne della realtà finita sia per la concezione dell’assoluto. L’esistente 
per eccellenza è la persona 2 ' 8 . L’esistenza della persona implica la so- 

2 " Specialmente nella Dottrina della scienza del 1804 (seconda esposizione) si assi- 
ste a tale superamento. L’essere è qui caratterizzato nei termini assoluti ed intensivi 
dell’actus e della “vita”. Tuttavia, in quest’opera, diversamente da quanto abbiamo 
letto nella lettera di Fichte a Jacobi del 1810 e nelle lettere ed abbozzi di risposta a 
Jacobi successivi al 1804, nei quali l’io è sempre associato alla struttura dell’intenzio- 
nalità e alla manifestazione delU'essere” nella “forma” finita dell’“esistenza”, tale es- 
sere è identificato con l'io, sia pure con un io assoluto. Cfr. C. Asmuth, Transzenden- 
talphilosophie oder absolute Metaphysik? Gnmdsàtzliche Fragen an Fichtes Spdtphilo- 
sophie , «Fichte-Studien» 31 (2007), pp. 45-58. 

278 Sulla persona come istanza fondativa per la concezione dell’essere, nel confron- 



168 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


stanzialità e la libertà. Per entrambe queste note, l’esistente persona- 
le è irriducibile a fenomeno o accidente di un’assoluta sostanza. Del 
resto, secondo Fichte e Schelling, le connotazioni tipiche dell’esi- 
stente finito, infine la personalità, non si possono trovare nell’essere 
assoluto. Da tale punto di vista, non ci può essere una relazione de- 
terminata e significativa tra l’esistente finito e l’essere assoluto. 

«L ’ Introduzione alla vita beata di Fichte è un avviamento all’autodistruzione 
[Selbstvernichtungl . Non essere più, ma lascia essere soltanto Dio: ecco il 
conforto. Se tutti i sé seguissero questa guida e giungessero al compimento 
dell’opera, Dio stesso arriverebbe alla vita beata, cioè ogni esistente cesse- 
rebbe. Ma, poiché l’esistente è inseparabile dall’essere [ Daseyn unzertrennli- 
ch ist vom Seyn\, se per assurdo l’esistente potesse essere compiuto, cioè 
portato a termine [ vollbracht, d.h. Zu Ende gebracht ], anche l’essere cesse- 
rebbe, e non ci sarebbero più né l’essere né l’esistente» 275 . 

Ma paradossalmente la soluzione esposta da Fichte nella Introdu- 
zione alla vita beata e negli altri scritti contemporanei di risposta a 
Jacobi veniva a risolvere una secca alternativa proposta da Jacobi 
nella Lettera tra l’io e Dio, come assoluto fondamento. In tal senso, 
Fichte optava ora nel senso auspicato da Jacobi, cioè per Dio, accu- 
sando, invece, lo stesso Jacobi di ciò che questi, nella Lettera, aveva 
rimproverato a Fichte: il tenersi orgoglioso all’autonoma consistenza 

to di Jacobi con Fichte e con Schelling: cfr. B. Sandkaulen, Dajl, was oder wer? Jaco- 
bi im Diskurs iiber Personen, cit. Su questo punto ha insistito anche George Di Gio- 
vanni, evidenziando l’importanza ontologica, non già soltanto empirica o 
“giuridica”, della nozione di persona quale discrimine tra la concezione della sog- 
gettività di Jacobi e di Fichte: cfr. G. di Giovanni, “The Unfinished Philosophy of 
Friedrich Fleinrich Jacobi”, Introduzione a F. H. Jacobi, The Main Philosophical 
Writings and thè Nove l ’Allwill’ , McGill-Queen’s University Press, Montreal 1994, 
pp. 106-114. 

275 Jacobi, Appunto personale riportato in E. Fuchs (a cura di), Eichte in Gesprdch, 
Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Canstatt 1992, Bd. VI.2, pp. 674-675. Si può 
verosimilmente identificare nel brano seguente un passaggio della Introduzione alla 
vita beata che può avere attirato il commento di Jacobi che abbiamo appena citato: 
«Fintantoché l'uomo desidera ancora essere un qualcosa per conto suo, Dio non 
viene a lui, poiché nessun uomo può diventare Dio. Non appena però egli si anni- 
chila puramente, integralmente e fino nella radice, resta soltanto Dio ed è tutto in 
tutto. L’uomo non può crearsi un Dio, può, però, in qualità di autentica negazione, 
annichilire se stesso e così sprofondarsi in Dio. Questa autoannichilazione è l’ingres- 
so nella vita superiore, del tutto contrapposta a quella inferiore determinata dall’esi- 
stenza di un Sé» (Fichte, GA 1/9, 149-150; trad. it. di G. Boffi e F. Buzzi, San Paolo, 
Cinisello Balsamo 2004, pp. 411-413). 



I.Realismo e idealismo: l’istanza di una mediazione 


169 


dell’io, come fondamento di se stesso, ciò che, in definitiva, conduce 
ad una caduta nel nulla. 

Si confrontino i due passi seguenti. 

[Jacobi] «L’uomo trova Dio, poiché egli può trovare se stesso soltanto in re- 
lazione ( zugleich mit ) con Dio; ed egli è a se stesso imperscrutabile, poiché 
l’essere di Dio gli è necessariamente imperscrutabile (...) perciò l'uomo per- 
de se stesso non appena rifiuta di trovarsi, in maniera inconcepibile al suo 
intelletto, in Dio quale suo creatore, non appena vuole fondarsi soltanto in 
se stesso (...) Lo ripeto: Dio è, ed è un essere fuori di me, vivo e in sé consi- 
stente, oppure io sono Dio. Non c’è una terza possibilità» 280 . 

[Fichte] «La questione è sul dualismo dell’assoluto. Infatti essi vogliono la 
loro autonomia, per il puro entusiasmo del peccato e del male, come sosten- 
gono i manichei. Ora, l’autonomia di Dio non gli è negata. Ma essi la voglio- 
no avere di seconda mano, per mezzo della propria separazione: se egli non 
è fuori di loro, ed essi, come autentici sé, fuori di lui, allora egli non esiste 
(...) Essi si sentono, ma Dio no; vivono in sé ma non in lui» 281 . 

Il contrasto risulta più chiaro se si tiene presente che Jacobi nel 
passo citato aveva inteso contestare la concezione fichtiana dell’io 
come fondamento, ritenendo sotto il profilo metafisico e quale con- 
dizione necessaria della coscienza morale e religiosa, la distinzione 
sostanziale nonché il carattere personale dell’io finito e di Dio. L’i- 
dentificazione di Dio con un essere universale e non personale, per- 
ciò con “un aggettivo” o con un essere indistinto; oppure, l’identifi- 
cazione dell’ “io assoluto” (di cui il soggetto finito sarebbe comunque 
parte o esponente) con Dio è altrettanto assurda. Tale identificazione 
porterebbe, infine, ad un’auto-idolatria (Selbstgótterey) 2 * 1 . 

Secondo Fichte l’attribuzione della sostanzialità all’io finito e a 
Dio va, invece, risolta in maniera alternativa, poiché, identificando 
egli, come Spinoza, la sostanzialità con l’assolutezza (in altri termini, 
l’essere per se con l’essere a se), l’affermazione della loro esteriorità e 
coesistenza riesce in una contraddittoria determinazione empirica 
dell’assoluto o in un aporetico dualismo 282 . Anche Jacobi, come ab- 

280 Lettera a Fichte, W 2/1, 220. 

281 Fichte, Abbozzo di risposta sulla ‘Lettera a Fichte’, 1805/1806, GA 11/11, 43. 

282 Cfr. Lettera a Fichte, 210, 214, 221. 

281 Questo problema era già chiaramente prospettato da Fichte negli scritti appar- 
tenenti all’ Atheismusstreit-, cfr. Uber den Grund unseres Glaubens an eine góttliche 



170 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


biamo letto nel passo citato, sottolineava r“intrinsecità” della rela- 
zione tra l’io finito e Dio, poiché l’identità dell’io può costituirsi solo 
in rapporto ad un’origine che è la stessa fonte del bene e della veri- 
tà 284 . Ma Fichte radicalizza tale assunto arrivando a riconoscere la 
realtà dell’io finito non già, solo, nella sua relazione (causale ed in- 
tenzionale, di origine e di destinazione) all’unico essere divino, ma 
nella sua reale (formale) appartenenza ad esso. La moralità e la reli- 
gione sarebbero, allora, il ristabilimento o l’esplicitazione di tale ori- 
ginaria identità; ciò che comporta, con l’affermazione dell’unico es- 
sere divino, una corrispondente negazione dell’autonoma realtà del- 
l’io. In tal modo, Fichte sembra rigettare l’accusa jacobiana di auto- 
idolatria. Del resto, per Fichte, diversamente da Jacobi, la vivente 
soggettività dell’io non implica la sostanzialità come fondamento, ma 
coincide con essa; né la soggettività coincide con la singolarità pro- 
pria dell’essere personale 288 . 

Per Jacobi, l’autocoscienza è, invece, manifestativa della sostan- 
zialità dell’io, ossia della sua individua esistenza. Tale manifestazione 
non avviene per mezzo della riflessione o di un’operazione associati- 
va, che presupporrebbero sempre il loro oggetto, ma per mezzo di 
una funzione intuitiva specifica, sola capace, di render conto del sen- 
timento dell’io 286 . Del resto, come abbiamo letto, anche per Jacobi 

Weltregierung, Appellation an dem Publikum (cfr. GA 1/5) e Riickerinnerungen, 
Antivorten, Fragen (cfr. GA II/5). 

284 A tale proposito, Hegel aveva notato una contraddizione in Jacobi tra l’afferma- 
zione della separazione e l’affermazione del vincolo tra la soggettività finita e Dio: 
cfr. G. W. F. Hegel, Glauben und Wissen, in Id., Sàmmtliche Werke, Frommann- 
Holzboog, Stuttgart 1965, Bd. I, p. 410. 

285 Anche Jacobi nel David Hume (cfr. W 2/1, 58) aveva identificato nell’io il senso 
originario della sostanzialità; ma tale identificazione non era esclusiva né la sostan- 
zialità era intesa come la “totalità dell’essere”. Sul rapporto tra io e sostanzialità in 
Fichte: cfr. C. Klotz, Der Ichbegriff in Fichtes Eròrterung der Substantialitdt , «Fich- 
te-Studien» 10 (1997), pp. 157-173. Per l’identificazione di soggettività e sostanziali- 
tà, tramite la nozione di autonomia (Selbststàndigkeit): cfr. Sittenlehre, 1798, GA 
1/5, § 10; D. Tafani, Volontà libera e arbitrio nel “Sistema di etica” di Fichte e nell’In- 
troduzione ai ‘Lineamenti di filosofia del diritto’ di Hegel , in A. Bertinetto (a cura 
di), Leggere Fichte, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 2009, pp. 327-338. 

286 Cfr. Lettera di Jacobi a Jean Paul, 16 marzo 1800, in Aus F. H. Jacobi Nachlass. 
Ungedruckte Briefe von und an Jacobi und andere, Engelmann, Leipzig 1869, Bd. I, 
pp. 237-242 (cfr. W. Jaeschke, a cura di, Transzendentalphilosophie und Spekulation. 
Der Streit um die Gestalt einer Ersten Philosophie (1799-1807), 2: Quellenband, Mei- 
ner, Hamburg 1993, pp. 78-79); Su di una profezia di Lichtenberg, W 3, 26 e ss. 



I.Realismo e idealismo: l’istanza di una mediazione 


171 


l’identificazione dell’io richiede la mediazione dell’assoluto, seppure 
non per la sua prima attestazione ma per la comprensione del suo es- 
sere. L’essenza razionale dell’io è, perciò, riguardata nella sua aper- 
tura e finitezza come manifestativa di una ragione infinita. La vita 
dell’io è vincolata a tale intenzionalità dell’assoluto, che si esprime 
nel rapporto, per esso necessario, alle idee del vero, del bene e del 
bello. A tale proposito, nella Lettera Jacobi cita una formula di Fich- 
te improntata a quella medesima radicalità cui abbiamo dianzi accen- 
nato, rileggendo il rapporto tra il finito e l’infinito in modo da mar- 
carne invece la positività ed il carattere intenzionale. Laddove Fichte 
sosteneva (idealisticamente) la sostanzialità della ragione, perciò la 
relazione di opposizione o subordinazione dell’individuale rispetto 
all’universale, Jacobi coglie (realisticamente) l’inerenza della ragione 
al soggetto individuo e sensibile, come funzione per mezzo della 
quale questi si riferisce all’assoluto. 

[Jacobi] «Poiché la ragione ha in vista la divinità, necessariamente essa ha 
Dio dinanzi agli occhi. Per questo la riteniamo, pur da sola, come qualcosa 
di più alto rispetto al nostro sé, nel comune senso sensibile. Sotto tale aspet- 
to potrebbe anche esser sensato e vero “che la ragione sia fine; la personalità 
soltanto mezzo”» 287 . 

[Fichte] «Nella dottrina della scienza (...) la ragione è l’unico in sé, mentre 
l’individualità è soltanto accidentale; la ragione è fine, e la personalità mez- 
zo; quest’ultima è soltanto un modo particolare di esprimere la ragione, ed è 
destinata necessariamente a perdersi nella forma universale di essa» 288 . 

Dal diverso modo in cui Jacobi e Fichte concepiscono l’autoco- 
scienza e la consistenza ontologica dell’io finito, e dal diverso modo 
in cui essi, conseguentemente, interpretano la presenza dell’assoluto 
nel finito si vede confermata la portata speculativa della nozione di 
persona per Jacobi, sia nella concezione generale dell’essere sia nella 
concezione dell’assoluto. La chiarificazione di questo punto sembra 
essere, in effetti, il nucleo più intimo dell’intervento dell’autore della 
Lettera nella celebre disputa sull’ateismo di Fichte, che ne era stata 
l’immediata occasione. 


287 Lettera a Fichte, W 2/f, 2f0. 

288 Fichte, Seconda introduzione alla dottrina della scienza, GA 1/4, 257-258; trad. 
cit., p. 87. 



172 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


«Fosse pure atea la sua filosofia, fossero pure tali le sue opinioni, secondo il 
giudizio (retto, io credo) della ragione naturale che dichiara un’assurdità un 
Dio non personale, un Dio che non è (einen Gott der nicht ist); desse pure 
egli stesso al suo sistema una tale denominazione, la sua colpa sarebbe sol- 
tanto un ente di ragione (Gedankending)» 22,9 . 

Per confermare tale conclusione, potremmo notare come nell’o- 
pera di Jacobi si trovi variamente formulato un argomento che è in- 
teso ricostruire la genesi della nozione di essere e dell’assoluto nella 
prospettiva razionalistica, in maniera coerente con la sua critica del- 
l’idealismo. Se l’essere è inizialmente assunto nel medio del pensiero, 
la risoluzione del finito nell’infinito non può avvenire che per pro- 
gressiva astrazione, o negazione, delle note specificanti la determina- 
tezza dell’ente finito, manifeste nell’esperienza, in un concetto onni- 
comprensivo ma affatto indeterminato. Tale esito dipende dall’inizia- 
le assicurazione dell’essere nell’immanenza del pensiero, la quale 
conduce all’identificazione dell’assolutezza causale e nozionale del- 
l’essere con le proprietà logiche di identità ed universalità. Tale iden- 
tificazione riceve in Spinoza un’immediata interpretazione ontologi- 
ca, come sostanza assoluta. L’idealismo di Fichte e di Schelling rap- 
presenta, per il filosofo di Dusseldorf, il coerente compimento di tale 
impostazione. L’identità e l’universalità caratterizzano, infatti, l’am- 
bito del pensiero, ch’è il medio omogeneo nel quale l’idealismo si 
muove. La radicalizzazione del postulato dell’universalità implica, in- 
fine, sì la destituzione del pensiero, per l’affermazione di un solo ed 
identico essere incondizionato, ma non il recupero della positività 
dell’esistente 290 . L’essere assoluto, poiché ottenuto per negazione 
dell’esistente, coincide piuttosto con il nulla. E dunque, tale essere 
come il nulla non è altro che un vuoto concetto 291 . 

289 Lettera a Fichte, W 2/1, 216. 

290 Significative analogie con tale critica dell’idealismo si possono trovare nell’opera 
di Leonardo Polo: cfr. L. Polo, Nominalismo, idealismo y realismo, Eunsa, Pamplo- 
na 1997. Per un confronto tra tale critica e la dottrina neoparmenidea di Emanuele 
Severino: cfr. J.J. Sanguineti, El ser eterno en Emanuele Severino. Estudio critico a la 
luz de la filosofia de Leonardo Polo, in «Studia Poliana» 5 (2003), pp. 167-198. 

291 Cfr. Introduzione generale, W 2/1, 411-412. Nella prima sezione della Scienza 
della logica, Hegel cita per esteso la critica di Jacobi a Kant svolta ne Sull’impresa 
del criticismo (W 2/1, 289-290) che denuncia l'impossibilità di dedurre l’esistente 
dal pensiero puro, il concreto dall’astratto. Per il filosofo di Stoccarda una via di 
uscita a tale impasse, che comprometterebbe altrimenti il suo stesso progetto specu- 



I.Realismo e idealismo: l’istanza di una mediazione 


173 


Al contrario, per Jacobi, è l’esistente finito l’immediato e costitu- 
tivo referente di ogni concetto e della stessa affermazione ontologica: 
«l’esistente è inseparabile dall’essere» 292 . Donde si torna alla prima 
critica che Jacobi ha rivolto nei confronti di Spinoza e che viene, infi- 
ne, confermata nei confronti di Schelling: l’assoluto, in quanto non 
può essere, a sua volta, un “individuo” (en) in sé determinato e sussi- 
stente, infine una persona, ma una indeterminata “identità” e “totali- 
tà” {pan), non è alcunché di reale ma è un’ipostasi del pensiero (ein 
Gedankending ). 

5. Il realismo di Jacobi: intuizione o dialettica? 

Ma la posizione realistica di Jacobi è autosufficiente o richiede an- 
ch’essa una mediazione per potersi sostenere? Questa questione ri- 
guarda, da un lato, lo statuto dell’esistente, d’altro lato, lo statuto 
della ragione. Secondo Jacobi, la ragione attinge immediatamente 
l’effettività e le determinazioni fondamentali dell’esistente, sia nel- 
l’ordine finito e categoriale (io e mondo, causalità, sostanzialità, spa- 
zio-tempo, finalità) sia nell’ordine trascendentale (essere, bene, bello, 
Dio). Egli attribuisce alla ragione le proprietà di una funzione supre- 
mamente sintetica, ma percettiva del reale nella sua “concretezza”. 
Tale funzione accompagna l’opera astrattiva dell’intelletto, assicu- 
randole il riferimento ontologico. La necessità di tale accompagna- 


lativo, è garantito dalla riflessione sulla determinatezza concettuale od oggettiva del 
nulla. Cfr. G.W.F. Hegel, “Wissenschaft der Logik”, (Teil I), in Samtliche Werke, 
Stuttgart-Bad Canstatt 1965, Bd. IV, p. 105. Dove però si scopre nuovamente il pre- 
supposto trascendentale del pensiero, e, di riflesso, per l’insuperabilità logica di tale 
presupposto, l’inconciliabilità radicale, metafisica, di idealismo e realismo. Ad esem- 
pio, la nozione dell’essere, che per Jacobi è esemplarmente definita dalla posizione 
assoluta dell’esistente, è (platonicamente) definita da Hegel dalla relazione logica di 
identità, ossia dalla forma assoluta di un oggetto o di un genere. Cfr. A. F. Koch, 
“Unmittelbares Wesen und logiche Vermittlung. Hegels Wissenschaft der Logik”, 
in W. Jaeschke-B. Sandkaulen (a cura di), Friedrich Heinrich Jacobi , cit., p. 326. 

292 Tale critica risulta coerente con la critica di Jacobi all’argomento ontologico, ri- 
guardante non già la concludenza della prova, quanto l’identità dello stesso demo- 
strandum, cioè «per quale Dio la prova valga e per quale invece no». L’assoluto esse- 
re come fondamento sostanziale dell’esistente, corrisponde, per Jacobi, al Dio di 
Spinoza. Il concetto di quest’ultimo è in sé possibile, ossia non è contraddittorio, ma 
è assurdo: esso è in opposizione con l’esperienza del mondo e della realtà umana. 
Cfr. David Hume, W 2/1, 44-45. 



174 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


mento è giustificata dalla corrispondenza della ragione, così concepi- 
ta, alla sintesi implicita nella visione naturale del mondo e, negativa- 
mente, dai paradossi in cui incorre rintelletto se è lasciato percorrere 
da solo il proprio cammino. 

La tesi della ragione è perciò confermata dalla negazione della ne- 
gazione, ossia dalla refutazione delle conseguenze derivanti dall’uni- 
lateralità deU’intelletto. Ma tale refutazione si regge sull’assunzione 
della portata normativa dello stesso contenuto della tesi: l’assurdità 
della visione del mondo descritta dall’autonomia dell’intelletto (ossia 
della visione spinoziana ed idealistica) è vincolata alla evidente, og- 
gettiva validità della visione della coscienza naturale. E forse questa 
una soluzione fideistica? Per rispondere a tale interrogativo, bisogna 
vedere in che modo Jacobi, con l’attestazione dell’evidenza della tesi, 
ne giustifica, altresì, positivamente l’indimostrabilità, esibendo l’in- 
tuizione quale l’unica modalità attraverso la quale è possibile verifi- 
carla. 

Ora, la necessità dell’intuizione è giustificata, per il filosofo, dalla 
natura del suo contenuto. L’intuizione corrisponde, infatti, al carat- 
tere col quale egli identifica l’esistenza finita: la sintesi. Tale carattere 
è specialmente manifesto nell’esistente che è il presupposto di ogni 
oggettivazione: nell’io personale. L’esistenza dell’io non si riflette 
senza residui nel concetto e la sua struttura tipica (la temporalità, la 
percezione, la libertà, l’intersoggettività, l’amore) implica una serie di 
opposizioni (attività-passività, unità-molteplicità, sé-altro, tempo- 
eternità, io-mondo, spirito-natura, io-tu, finito -infinito, io-Dio), che, 
per quanto paradossale o misteriosa, non si può sciogliere. In tal 
modo, Jacobi attribuisce all’intuizione la ricezione dell’esistenza, nel- 
la sua indeducibile “fattualità”. La concezione dell’essere e delle sue 
proprietà portanti sono, così, vincolate all’esistenza dell’io e alla sua 
concreta struttura intenzionale, che è, nel suo insieme, il reale e ne- 
cessario presupposto di ogni mediazione riflessiva. In ciò egli sembra 
lontano da un indiscriminato fideismo 293 . 

253 Com’è noto, era questo l’argomento principale della critica formulata da Hegel 
in Fede e sapere, né poi sostanzialmente modificata, denunciarne la trivialità dell’ap- 
pello di Jacobi all’intuizione, per mezzo della quale ogni sorta di dato empirico sa- 
rebbe stato elevato al rango di principio ed ogni opinione avrebbe potuto ricevere 
una facile quanto inappellabile sanzione. Di contro a tale critica, Valerio Verrà rile- 
va, sulla scorta di O. F. Bollnow (Die Lebensphilosophie F. H. Jacobis, cit.), la porta- 



I.Realismo e idealismo: l’istanza di una mediazione 


175 


In sintesi, Jacobi assume l’esistenza finita come un’istanza pro- 
priamente fondante, ossia come il terreno sulla base del quale soltan- 
to è possibile edificare un’ontologia e giungere, di qui, ad una certa 
cognizione dell’assoluto. Se la realtà è manifesta soltanto nell’esisten- 
te individuo, e specialmente nell’io, la determinazione dell’assoluto e 
del suo rapporto col finito potrà avvenire soltanto in accordo con le 
concrete determinazioni con cui l’esistente finito si manifesta. 

6. Prima conclusione. Realismo e idealismo: una differente 
concezione dell’essere 

A questo punto dovrebbe essere chiaro che l’opposizione tra il reali- 
smo di Jacobi e l’idealismo di Fichte non insiste tanto sull’afferma- 
zione dell’essere, quale contenuto o principio del pensiero, né sulla 
esplicitazione di un metodo necessario per attingerlo, quanto sulla 
stessa, preliminare determinazione del suo significato. Più precisa- 
mente, tale opposizione riguarda la determinazione del significato 
ontologico e del valore epistemico dell’esistenza finita e, quindi, del- 
l’io, che è il suo più immediato referente. 

Per Fichte, l’esistenza riceve sin dall’inizio una connotazione in- 
terna all’attività immanente dell’io, sia sul piano della rappresenta- 
zione sia sul piano della prassi. L’esistenza coincide, dapprima, con 
l’intero ambito del fenomeno. La fattualità che l’esistenza in generale 
designa, coincide, perciò, con la posizione di un contenuto nella co- 
scienza. Ma ogni dato dev’essere ricondotto all’attività dell’io, come 
sua origine e suo scopo, altrimenti esso non è spiegato e non potreb- 
be essere mai compreso. Il senso dell’esistenza e di ogni oggetto si 
rinviene, quindi, nel processo di autocostituzione dell’io. Tale pro- 
cesso e la sua stessa ricostruzione riflessiva corrispondono all’istanza 
di una identità assoluta. 

Per Jacobi, invece, l’esistenza è vincolata alla sostanzialità dell’in- 
dividuo, ossia alla reale sussistenza di esso fuori dalla possibilità e 

ta trascendentale dellintuizione jacobiana, poiché essa si riferirebbe non ad un con- 
tenuto oggettivo ma all’esistenza, ch’è la condizione di ogni contenuto: cfr. V. 
Verrà, F. H. Jacobi. Dall’ illuminismo all’idealismo, Edizioni di Filosofia, Torino 
1963, pp. 159-165). Ma osserviamo: l’esistenza riceve da parte di Jacobi una deter- 
minazione categoriale (causalità, temporalità, sostanzialità, etc.) di modo che l’intui- 
zione corrisponde altresì, per il filosofo, alla struttura oggettiva dell’esperienza. 



176 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


dalla rappresentazione. L’io non si costituisce ma è dato a se stesso 
immediatamente. La coscienza consiste nella avvertenza dell’essere, 
nel suo indeducibile “fatto”. L’autocoscienza corrisponde all’indivi- 
duazione esistenziale dell’io nella sintesi delle relazioni che ne defini- 
scono la reale situazione: l’io e il mondo, l’io e il tu, l’io e Dio. Tale 
situazione, che è reale poiché implica la libera operatività e l’apertura 
temporale in cui si dispiega il circuito di rapporti ch’essa contiene, 
non è un mero presupposto empirico ma è il presupposto fondante 
del sapere. 

Da questo punto di vista, sembra che l’opposizione tra Jacobi e 
Fichte non dipenda altro che dal modo opposto con cui, dalla loro 
impostazione realistica o idealistica, essi interpretano il significato 
delle supreme nozioni ontologiche 294 . Tra loro ci potrà essere, quin- 
di, concordanza formale nei termini (come i termini “esistenza”, 
“vita” o “realtà”) o in alcune istanze di fondo, come la necessità di 
trascendere il pensiero nell’essere, ma non nel senso che è loro attri- 
buito. 

IL Approfondimento: articolazione del rapporto tra Fichte e 
Jacobi 

Dal punto precedente, si potrebbe concludere che la problematica 
del nichilismo, così come essa era stata formulata da Jacobi, non toc- 
ca Fichte che esteriormente. Lo scambio tra loro confermerebbe 
un’opposizione o un reciproco fraintendimento. Ma per quanto cor- 
retta tale conclusione risulti, essa rischia la superficialità se non si tie- 
ne conto del fatto che è lo stesso Fichte a tornare alla Lettera in di- 
versi abbozzi e lettere. Un altro fatto è l’impressionante ricorrenza 
nell’opera posteriore del filosofo, sia nell’opera popolare sia nell’o- 
pera scientifica, delle categorie jacobiane. Questi fatti si spiegano 
solo se si riconosce l’interesse non estrinseco con cui Fichte ha rece- 
pito la critica di Jacobi. 

294 Cfr. C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno , Studium, Roma 1969, pp. 549- 
586, 648-656, cap. Vili tot. L’interpretazione di Fabro è discussa da Antonio Livi: 
cfr. A. Livi, “Fabro e i problemi storico-critici relativi al ‘Glaube’ di Jacobi”, in G. 
M. Pizzuti, Veritatem in cantate. Studi in onore di Cornelio Fabro , Ermes, Potenza 
1991, pp. 109-117. 



II. Approfondimento: articolazione del rapporto tra Fichte e Jacobi 


177 


Nel proseguo intendiamo approfondire in che modo i due filosofi 
hanno affrontato i problemi che sono emersi nel loro scambio e che 
abbiamo appena presentato. Soffermiamoci su tre testi dove possia- 
mo cogliere la rilevanza delle osservazioni che, a partire dalla Lettera , 
i due filosofi si sono rivolte. Cominciamo dalla prima risposta di Fi- 
chte: un frammento allegato ad una missiva inviata a Karl Léonard 
Reinhold (f 1823) e allo stesso Jacobi, aU’indomani della Lettera (cfr. 
infra, § 1). Considereremo poi la prima risposta pubblica ne La de- 
stinazione dell’uomo (1800) (§ 2). Infine, esaminiamo una lettera del 
1806 dove Fichte sollecita il suo interlocutore su di una difficoltà in- 
contrata nel rinnovato tentativo ch’egli andava facendo di assimilare 
la Lettera nell’ambito della tarda Wissenschaftslehre (§ 3). 

1. Fichte, “Frammento” (1799): la spiegazione trascendentale 
della coscienza 

Nel primo testo citato, un breve frammento scritto all’indomani della 
ricezione della Lettera , ancora nella sua iniziale veste di missiva pri- 
vata, Fichte appresta una definizione concisa ma assai pregnante del 
rapporto tra la filosofia trascendentale e l’insieme di nozioni nelle 
quali egli identifica la posizione di Jacobi: la coscienza naturale, il 
punto di vista della “vita” 295 . 

«Il nostro sistema, rifiutando le estensioni degli altri, non intende affatto, da 
parte propria, allargare il pensiero comune, l’unico reale; esso vuole, invece, 
soltanto, abbracciarlo in maniera esaustiva ed esporlo (...) Ciò da cui si è 
coinvolti nel proprio stesso essere non si può conoscere. Bisogna uscirvi e 
porsi in un punto ad esso esterno. Questo uscire dalla vita effettiva, questo 
punto fuori di essa è la speculazione» 256 . 

L’idealismo trascendentale non viene, dunque, a negare la validità 
della posizione naturale della coscienza, il realismo, ma viene, invece, 
a giustificarla. Ciò significa, la “speculazione” vuole seguire il movi- 
mento della coscienza verso il mondo sin dalla sua sorgente, mentre 

255 Cfr. S. Kahlefeld, Standpunkt des Lebens und Standpunkt der Fhilosophie. baco- 
bis Brief an Fichte aus dem Jahr 1799, «Fichte-Studien» 21 (2003), pp. 117-130. 

296 Fichte, GA III/3, 331-332. Tale impostazione conferma l’analoga proposta di 
concordanza di realismo e idealismo avanzata da Fichte in una lettera a Jacobi del 
30 agosto 1795: cfr. GA III/2, 392. 



178 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


il pensiero comune, totalmente involto nell’interesse pratico, non ha 
bisogno di ciò, accontentandosi di assumere per i propri scopi o al li- 
mite di descrivere quanto si presenta nell’esperienza. Del resto, in 
tale prospettiva, anche la speculazione avrebbe un carattere descritti- 
vo; soltanto, tale descrizione si rivolgerebbe non già, semplicemente, 
ai contenuti di esperienza, ma agli atti costituenti dell’io e alla corre- 
lazione tra essi e i rispettivi contenuti 2 ”'. In ogni caso, l’oggettività è 
una funzione dell’attività della coscienza. Bisogna, dunque, risalire a 
tale attività e alle sue leggi immanenti (“meccanismo”), per ottenere 
una legittimazione di quanto da essa risulta nella visione naturale. 
Questa altrimenti non si comprende, non procede oltre la propria 
soggettiva certezza fino alla cognizione della propria necessità. 

Vediamo ora un passo di Jacobi dove, a nostro avviso, si può re- 
perire una valutazione di tale proposta di conciliazione. Si tratta di 
una lettera del 1800 a Jean Paul (f 1825), in cui il filosofo dichiara di 
essersi scoperto in maniera molto significativa sulla propria imposta- 
zione, ma specialmente sulle critiche alla Lettera che Fichte andava 
estendendo a Reinhold e allo stesso Jacobi. 

«Questo è proprio soltanto suo, che la filosofia c’è solo per giustificare una 
naturale dissennatezza (um einen natiirlichen Wahnsinn zu rechtfertigen ), 
fondandola a priori. Oltre a tale giustificazione, essa non ha alcuno scopo. 
Essa illustra il sogno dell’esperienza come un sogno, ma di un’interpretazio- 
ne non se ne parla. Essa mi sveglia per annullare me stesso e tutto ciò che si 
trova fuori di me, dinanzi ai miei occhi. Un altro risveglio che non sia quello 
che, con questa teoria del sognare, essa insegna, non c’è: per essere, io deb- 
bo sognare, e non c’è alcun essere, oltre ad un sognante» 298 . 

Si potrebbe rileggere il passo in questi termini: la coscienza natu- 
rale è sì spiegata dalla speculazione, ma a patto che venga sospesa la 
sua pretesa di riferirsi ad una realtà trascendente, per considerare, 
soltanto, la genesi soggettiva del suo contenuto ideale, nonché la ge- 
nesi di quella medesima pretesa. Apparentemente, sembra che la 
speculazione qualora essa giunga al compimento del proprio pro- 
gramma restituisca l’esperienza ordinaria nella pienezza del suo con- 

297 Su questo punto è particolarmente illuminante l’introduzione e la prima parte 
del Diritto naturale di Fichte (cfr. GA 1/3). 

298 Cfr. Lettera di Jacobi a Jean Paul, 16 marzo 1800, Aus F. H. jacobi Nachlass. 
Ungedruckte Briefe von und an jacobi und andere, cit., p. 239. 



II. Approfondimento: articolazione del rapporto tra Fichte e Jacobi 


179 


tenuto, corroborandone anzi la pretesa di validità 291 . Ma l’istanza 
esplicativa della speculazione sottintende una tesi ontologica, il ca- 
rattere puramente immanente della rappresentazione, la quale sov- 
verte il presupposto in cui Jacobi individua la funzione propria della 
coscienza: l’avvertenza dell’essere e la conseguente discriminazione 
tra l’essere reale e l’essere mentale o immaginario. In tale prospetti- 
va, tra la veglia e il sogno, ossia tra un contenuto colto come real- 
mente esistente o come fenomeno, non ci sarebbe una differenza as- 
soluta 300 . In altri termini, il riferimento della coscienza all’esistente 
non rivestirebbe una funzione epistemica essenziale 301 . Infine, il so- 
gno, per ipotesi il contenuto della coscienza naturale, non potrebbe 
avere mai un significato, ossia una portata intenzionale, poiché esso 
realizza una necessità, che la speculazione soltanto riproduce. 

Diversamente, per Jacobi, l’esistenza, come la vita, non è oggetti- 
vabile in una rappresentazione. Essa è, tuttavia, intelligibile ad una 
fonte di conoscenza in certo modo percettiva (che egli chiamerà “ra- 
gione”), la quale accompagna e fonda l’attività del giudizio, ossia la 
discriminazione del valore reale, o veritativo, delle formazioni ogget- 
tive (concetti, proposizioni, etc.). Tale funzione rileva la realtà stessa 
quale fonte originale della propria manifestazione ed assicura il rife- 
rimento oggettivo dei concetti di cui il sapere astrattivo dispone 202 . 

2. Fichte, “La destinazione deH’uomo” (1800): il realismo della 
volontà 

Nel primo paragrafo, si è ricordato come la trascendenza dell’essere 
sul pensiero sia provata, per Jacobi, dalla necessaria trascendenza 
dell’io personale rispetto ad ogni tentativo di (auto-) oggettivazio- 
ne 30 ’. Ora, è interessante notare che è quest’intimo punto di resisten- 

299 Cfr. Lettera a Fichte , W 2/1, 194. 

300 Cfr. ibidem , 209. 

301 Una tale riduzione corrisponderebbe ad un’indebita estensione del metodo ma- 
tematico, nel quale la verità è ristretta alle relazioni necessarie tra le forme descritte 
nellimmaginazione. Perciò nella Lettera a Fichte, Jacobi identifica la Wissenschaf- 
tslehre con il progetto cartesiano di una Mathesis universale, riconoscendo la fun- 
zione in essa dominante dell’immaginazione. Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 195-196, 
202, 207. 

302 Cfr. David Fiume, W 2/1, 32, 69. 

303 Cfr. supra, § 1,5. 



180 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


za, la reazione dell’io a soccombere anch’esso alla riduzione di ogni 
realtà a fenomeno, ciò che, secondo Fichte, ne La Destinazione del- 
l’uomo, mette in crisi l’idealismo 304 . 

«Tu [lo spirito dell’idealismo] mi liberi è vero; tu mi dichiari sciolto da ogni 
dipendenza, perché cangi me stesso in nulla, e insieme cangi nel nulla tutto 
quello intorno a me da cui io potrei dipendere. Togli la necessità col togliere 
e coll’estirpare del tutto ogni essere (...) Potrei consentire che questo mondo 
corporeo fuori di me si cangi per me in pura rappresentazione, e si volga in 
ombra: non ci tengo molto; ma, dopo tutto ciò che s’è detto, dileguo io stes- 
so non meno di lui» 305 . 

La soluzione proposta da Fichte consiste nell’identificazione di 
un nuovo accesso alla realtà, aldilà del pensiero; anzi, di un nuovo 
senso dell’essere: la volontà. La realtà dell’io è assicurata dalla sua di- 
sposizione ad agire nel mondo e dalla legge morale che lo obbliga a 
ciò. In tal modo, l’esistenza non è ristabilita nel suo senso oggettivo, 
ma nel vincolo ch’essa ha con una dimensione della soggettività ecce- 
dente, secondo il suo senso, la sfera della rappresentazione. Il pensie- 
ro riflessivo sospende l’esistenza nell’indifferenza di un’ipotesi. La 
legge morale manifesta, invece, una “necessità” dell’esistenza: l’esi- 
stenza (dell’io) ha in generale un valore, una struttura ed una finalità. 
Tale finalità consiste nella realizzazione dell’ideale prescritto dalla ra- 
gion pratica: l’assoluta autonomia. La libera ricezione della visione 
del mondo aperta dalla legge morale è identificata da Fichte con la 
“fede”. L’effettiva realizzazione dell’ideale, a dispetto delle sue appa- 
renze contrarie, s’identifica con il dominio di una “volontà” assoluta 
nel mondo, che sarebbe il contenuto della “fede”. La vita umana è, 
dunque, determinata dalla tensione asintotica tra la situazione sensi- 
bile nella quale l’uomo di fatto si trova, la quale implica sempre una 
certa forma di dipendenza, e l’ideale razionale ch’egli conserva, che 
è, invece, infinito poiché ha per contenuto la realizzazione oggettiva 
della libertà, l’assoluta autonomia. 


304 Sull’interpretazione de La destinazione dell’uomo di Fichte come risposta alle 
critiche formulate nella Lettera : cfr. I. Radrizzani, Place de la destination de l’homme 
dans l’oeuvre fichtéenne , «Revue Internationale de Philosophie» 52 (1998), pp. 665- 
696. 

305 Fichte, Die Bestimmung des Menschen, GA 1/6, pp. 247-248; trad. it. di R. Can- 
toni, Denti, Milano 1944, p. 116. 



II. Approfondimento: articolazione del rapporto tra Fichte e Jacobi 


181 


Ma la disperazione dell’io rappresentata all’inizio da Fichte è, in 
tal modo, risolta? Sulla scorta del punto di vista di Jacobi, possiamo 
notare che l’esistenza dell’io è pur sempre presupposta alla ricezione 
di un’obbligazione morale. Non già, solo, per l’individua sostanza 
cui debba appoggiarsi una coscienza e l’agire nel tempo, ma per il 
suo stesso significato: la finalità dell’agire richiede l’essenziale coin- 
volgimento del soggetto. La realizzazione dell’ideale morale deve, in- 
fatti, poter inerire all’essere cui esso si rivolge. Altrimenti, tra l’uni- 
versalità dell’ideale e l’individualità della materia in cui esso dovreb- 
be realizzarsi, non ci sarebbe mediazione, poiché la realizzazione del- 
l’universale comporterebbe la dissoluzione dell’individuale 306 . Ma, 
l’ideale dell’autonomia comporta, infine, tale esito, costituendo esso 
una motivazione meramente negativa’ 0 '. L’oggettività pratica è, così, 
sempre determinata dall’eteronomia e la realizzazione dell’ideale mo- 
rale, pur sempre differita, comporterebbe, nondimeno, l’estinzione 
dello stesso soggetto. A questo problema allude un’annotazione di 
Jacobi posteriore alla lettura della Destinazione dell’uomo presente 
nella stessa lettera a Jean Paul che abbiamo già sopra citato. 

«Ed ora il mio volere, che deve consistere nella semplice repulsione. La mia 
libertà, che non ha altro oggetto, altra mira che annullare la natura, l’indivi- 
dualità, la personalità, poiché suo impulso materiale è indipendenza, auto- 
nomia, autosufficienza per mezzo della distruzione di ogni esistenza (durch 
Vertilgung alles Daseyns)» m . 

Ma era anche questa la critica che il filosofo di Dusseldorf aveva 
già formulato nella Lettera : l’univoca identificazione della volontà 
con l’ideale di autonomia, erigendolo da condizione formale a scopo 
dell’agire, finisce per dissolvere la realtà dell’io in una identità “at- 

306 È questa la grande questione già affrontata da Jacobi nella Corrispondenza di 
Attivili. La situazione tragica del protagonista è già contenuta nel suo nome: All-will 
= “vuole (essere) tutto”. 

307 Sulla negatività come tratto caratteristico dell’etica kantiana a confronto con la 
concezione morale di Jacobi: cfr. J. Stolzenberg, “Was ist Freiheit? Jacobis Kritik 
der Moralphilosophie Kants”, in W. Jaeschke-B. Sandkaulen (a cura di), Friedrich 
Heinrich Jacobi, cit., pp. 19-36. L’autore osserva l’appartenenza della concezione 
morale di Jacobi alla cosiddetta “etica delle virtù” di matrice aristotelica. Per una 
valutazione complessiva della lettura jacobiana dell’etica di Kant: cfr. M. Ivaldo, Ja- 
cobi sull’etica di Kant, «Studi kantiani» 17 (2004), pp. 65-102. 

308 Lettera di Jacobi a Jean Paul, 16 marzo 1800, Aus F. H. Jacobi Nachlass. Unge- 
druckte Briefe von und an Jacobi und andere, cit., pp. 239-240. 



182 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


tuosa” e spirituale ma affatto indeterminata; perciò in una “persona- 
lità impersonale” in “un io senza sé” 309 . L’assurdità della visione fe- 
nomenista non sembra, allora, risolta fintantoché non si risalga alla 
consistenza ontologica dell’io cui tale visione, per ipotesi, dovrebbe 
manifestarsi. 

Da questo punto di vista, il problema del nichilismo, così come 
esso era stato presentato nella Lettera, non sembra ancora risolto da 
parte di Fichte. Tale insufficienza non sembra tanto legata alla pro- 
posta di una via pratica all’essere (come abbiamo visto, nel David 
Hume lo stesso Jacobi aveva, in certo modo, precorso tale soluzione, 
individuando, ad esempio, nell’esperienza della libertà la matrice fe- 
nomenologica della nozione di causa), quanto alla sua specificazione, 
cioè alla modalità con cui Fichte, in forza della sua radicalizzazione 
del principio di autonomia, ha determinato la struttura e lo scopo 
dell’esistenza finita in generale. 

3. Fichte, una lettera a Jacobi, 1806: la questione sul 
trascendimento del concetto 

In una lettera di Fichte a Jacobi del 1806, con la quale gli inviava al- 
cune sue nuove pubblicazioni, il filosofo faceva cenno ad un passo 
della propria Introduzione alla vita beata (1806) dove aveva citato il 
proprio interlocutore, elogiandone l’istanza di una morale ispirata ad 
un’idealità superiore a quella dettata dal principio di autonomia. Del 
resto, egli non rigetta ora tale principio, ma ne riconosce la relatività, 
in tal modo assecondando l’analogo rilievo che Jacobi aveva formula- 
to nella Lettera 31 °. A tale considerazione, Fichte aggiunge, però, l’esi- 
genza di riformulare un’altra istanza, sempre presente nella Lettera : 
la necessità di trascendere il concetto nell’essere, che è di per sé “in- 
concepibile”. Sotto questo profilo, il filosofo osserva, la tesi di Jacobi 
era stata enunciata ma non dimostrata: come si può parlare dell’esse- 
re, se esso è riconosciuto dall’inizio come “inconcepibile” ( Unbegrei - 


309 Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 212, 236, 252, 256. Cfr. B. Sandkaulen, “Ichheit 
und Person. Zur Aporie der Wissenschaftslehre in der Debatte zwischen Fichte und 
Jacobi”, prò manuscripto; in corso di pubblicazione in C. Danz-J. Stolzenberg (a 
cura di), System und Systemkritik um 1800, Meiner, Hamburg 2009. 

310 Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 213. 



II. Approfondimento: articolazione del rapporto tra Fichte e Jacobi 


183 


fliche )? Fichte propone un itinerario che procede dalla ricognizione 
del carattere “finito” e puramente referenziale del concetto, ch’è la 
forma attraverso la quale noi concepiamo, determinando, l’essere 311 . 

«Noi, in quanto “noi”, siamo costretti nella forma; dove c’è un io, c’è già an- 
che essa, di necessità, e a tale riguardo essa non può non esserci, così che 
elevandosi, possa spiegarsi da sé. Il concetto concepisce tutto, ma non se 
stesso; altrimenti esso stesso non sarebbe, né sarebbe in modo assoluto. 
Ch’esso si comporti così come ho detto, e perché esso si comporti così, si ca- 
pisce da sé e nel momento in cui ciò è capito, è concepito (begriffen) l’incon- 
cepibile (das Unbegreifliché) come inconcepibile. Ed accade così nello stesso 
atto del concepire. Elevato attraverso l’amore (decima lezione) al di sopra 
del concetto, allora tu stai immediatamente nel senza forma, perciò addentro 
nel puro essere (im formlosen und darum reinen Seyn darinnen)» iu . 

L’essere non è il contenuto di una cognizione concettuale, poiché 
il concetto determina il proprio contenuto secondo una forma finita 
o soggettiva. Ma l’avvertenza di tale relatività del concetto spinge a 
muoversi, in grazia dell’intima tendenza della ragione verso l’assolu- 
to, a ciò che sta al di là del concetto. 

Ora, poiché non disponiamo di una risposta di Jacobi, né, come 
pare, si trovano dei riferimenti in altri testi, considerata la portata ge- 
nerale e in certo modo conclusiva del problema ora avanzato da Fi- 
chte 313 , potremmo ritornare di qui alla Lettera e porci di nuovo la do- 
manda sul significato del realismo jacobiano e sulla via ch’esso pre- 
scrive alla conoscenza dell’essere. 

Nella Lettera Jacobi connette la cognizione della trascendenza 
dell’essere, da un lato, alla “coscienza del non sapere” (Bewujitseyn 
des Nichtwi/iens), d’altro lato, ad una funzione specifica della ragio- 
ne: la “presupposizione del vero” ( Voraussetzung des WahrenY u . En- 
trambe si corrispondono in relazione alla distinzione tra la rappre- 


311 Per un’analisi del confronto tra Fichte e Jacobi dall’inizio fino a questo punto: 
cfr. M. Ivaldo, “Wissen und Leben. Vergewisserungen Fichtes im Anschluss an Ja- 
cobi”, in W. Jaeschke-B. Sandkaulen, Friedrich Heinrich Jacobi, cit., pp. 53-72; Id., 
Jacobi e Fichte. Sapere e vita riguardo alla questione del ‘sistema’ , «Humanitas» 63 
(2008), pp. 81-90. 

312 Fichte, GA III/5, 354-356. 

313 Nell’ultima lettera di Fichte a Jacobi del 1810, che abbiamo sopra considerato, 
sembra presentare, infatti, la propria soluzione al problema adesso avanzato. 

314 Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 192, 208. 



184 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


sentazione delPintelletto, la “verità”, quale contenuto del “sapere”, e 
l’avvertenza dell’autonoma consistenza del “vero” 31 ’. La “verità” è 
una proprietà immanente del pensiero, il possesso della realtà nella 
sua forma; la quale in molti casi può prescindere da un riferimento 
reale, come avviene nella matematica. Il “vero” è, invece, la realtà so- 
stanziale che, per ipotesi, gli corrisponde. L’antecedenza normativa 
del “vero” appare ad una funzione trascendente l’ oggettivazione del- 
l’intelletto: la “ragione”. Tale funzione è analoga alla sensibilità (o 
“percezione”, Wahrnehmung ), nella sua più larga accezione per cui 
essa significa la vita desta, ossia l’immediato contatto e l’intero movi- 
mento vitale (attivo e passivo, cognitivo e pratico) dell’io nel mondo. 

In un altro senso, piuttosto qualitativo od “assiologico”, il “vero” 
significa la realtà suprema, il termine ultimo verso cui tende l’intera 
intenzionalità della coscienza 316 . L’esplicitazione del senso di ogni 
“vero” e della stessa motivazione soggettiva che spinge a conoscerlo 
porta, infine, ad assumere un vero radicale, una vita assoluta di natu- 
ra personale, Dio, in cui deve trovarsi l’origine dell’esistente e nel 
rapporto col quale deve trovarsi l’ultima sua giustificazione. L’io può 
specchiarsi solo in questo vero. Il passaggio dalla finitezza, che la co- 
scienza avverte in se stessa e in ogni vero, all’infinitezza del vero as- 
soluto è attribuita da Jacobi ad una funzione anch’essa in certo senso 
analoga alla sensibilità: ad una sorta di “presentimento” (. Ahndung ) 
collegato ad un movimento appetitivo spontaneo, eppure spirituale, 
l’“istinto” 317 . Il vero è presupposto sì come una realtà sostanziale, 
esterna al soggetto, ma anche come il termine di un’interna esigenza 

315 Cfr. ibidem, 199, 207. 

316 Su questo aspetto ha insistito Alberto Iacovacci nel suo studio che abbiamo ci- 
tato (Idealismo e nichilismo, cit.). Tuttavia, l'autore, con Marco M. Olivetti, ritiene 
esservi una contrapposizione tra l’aspetto assiologico e l’aspetto ontologico del 
“vero”, il che ci sembra contraddetto dalla critica continuata di Jacobi nei confronti 
della dottrina kantiana dei postulati della ragion pratica e dall’insieme della sua con- 
cezione della ragione. Una tale contrapposizione emerge sì nel contesto dialettico 
della Lettera in relazione all’ontologia criticata, quella di Spinoza e di Fichte, ma 
non in relazione a quella che dà corpo alla stessa assiologia jacobiana, garantendone 
il carattere realistico. D’altra parte, l’autore, a nostro avviso, ha ragione d’insistere 
sulla specificità intenzionale della ragione nei confronti del vero, quando questo è 
connotato finalmente come il bene. 

317 A tale proposito, Jacobi riprende spesso espressamente diversi motivi della filo- 
sofia di Pascal; il presentimento e l’istinto è finalmente identificato nella Lettera con 
il “cuore” ( das Herz ): cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 212. 



II. Approfondimento: articolazione del rapporto tra Fichte e Jacobi 


185 


del soggetto, perciò come un bene. Senza l’ancoraggio ad un assolu- 
to vero e bene, ogni particolare vero e bene, e l’intera vita della co- 
scienza che si dispiega nel rapporto con esso, sarebbe, a sua volta, 
come un fenomeno privo di contenuto, poiché la stessa tensione riso- 
lutiva della ragione finita attesta che tale assoluto vero e bene non si 
trova in sé ma in altro 318 . 

Ora, si è visto come Fichte non accetti il ruolo della coscienza na- 
turale, se non a titolo di explicandum’' ’ . In tal senso, non sembra che 
egli possa recepire la funzione rivelativa o “ermeneutica” assegnata 
da Jacobi alla sensibilità, nel senso definito. D’altra parte, nel passo 
che abbiamo citato si vede come egli introduca un elemento appetiti- 
vo nella relazione del pensiero con l’essere “inconcepibile”, l’amore. 
L’“amore” ( Liebe ) è, così, come per Jacobi, la funzione soggettiva 
che ritiene originariamente la visione dell’infinità e che perciò per- 
mette di superare la relatività dell’esistente finito 320 . 

Nell’illustrare in che senso Fichte possa intendere il significato 
dell’amore in tale contesto, e per dimostrare la propria coerenza su 
questo punto nel quale egli veniva ad avvicinarsi alla Lettera con la 
propria iniziale impostazione, poco oltre nel testo che abbiamo cita- 
to, egli rinviava al paragrafo 5 della prima Dottrina della scienza de- 
dicato alla “deduzione pratica della rappresentazione”. La dualità tra 
soggetto e oggetto, espressa nella rappresentazione, è qui contrasse- 
gnata da una fattuale negatività, la dipendenza del soggetto dall’og- 
getto; questa è, quindi, colta come l’indice di una identità necessaria, 
l’originaria autonomia dell’io, che dev’essere ripristinata nella prassi. 

Ma sotto questo profilo, pur se l’assoluto non è più concepito 
come il termine ideale della prassi ma come il reale fondamento del 
finito, sembrano valere le stesse difficoltà circa la negatività del rap- 
porto tra il finito e l’infinito, ossia sulla problematica consistenza on- 
tologica del finito, che abbiamo notato a proposito de La destinazio- 

318 Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 209-210, 220. 

315 Cfr. supra, § 11,1. 

320 Si confronti il passo di Fichte citato con il seguente, tratto dalla Lettera, nel qua- 
le Jacobi conclude le considerazione che abbiamo sopra riassunto. «La mia ragione 
mi guida in tal modo, come d’istinto: Dio. Con incontrastabile autorità, quanto in 
me c’è di più alto mi indica qualcosa di elevato, sopra e fuori di me; mi costringe a 
credere, in me e fuori di me, per amore e con amore, all’inconcepibile, a ciò che è 
impossibile secondo il concetto» ( Lettera a Fichte, W 2/1, 210). 



186 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


ne dell’uomo e che abbiamo letto nel commento citato di Jacobi alla 
Introduzione alla vita beata m . 

Se è, così, nuovamente confermata l’eterogeneità delle due pro- 
spettive, rimane da verificare se Jacobi non sia comunque interessato 
dall’ultima sollecitazione di Fichte circa il rapporto tra l’essere e il 
concetto; ossia se tale sollecitazione non proponga, come che essa sia 
risolta dallo stesso Fichte, una difficoltà anche per Jacobi. Leggiamo 
un passo della Lettera dove l’autore dichiara a Fichte la sua concor- 
dantia discors sul significato della scienza. 

« Entrambi (...) ci troviamo inoltre, credo, abbastanza d’accordo sul concet- 
to di scienza: che la scienza, cioè, come tale, consista nell’autonoma produ- 
zione del proprio oggetto, non essendo altro che questo stesso produrre nel 
pensiero (...) Dunque entrambi vogliamo, con comune serietà e zelo, che la 
scienza del sapere che è l’uno in tutte le scienze, l’anima del mondo nel 
mondo della conoscenza, divenga perfetta. Pur con questa differenza: lei lo 
vuole per mostrare, così, che il fondamento di ogni verità risiede esclusiva- 
mente nella scienza del sapere; io, affinché risulti evidente che questo fonda- 
mento, il vero in sé, di necessità, si trova fuori di esso » 322 . 

Si confronti il passo con quello che abbiamo citato all’inizio: 
«L’uomo conosce soltanto nel concepire...» 32 ’. Potremmo ora chie- 
derci, tale concessione circa il carattere costruttivo, perciò “idealisti- 
co”, dell’intelletto è del tutto senza conseguenze nel complesso della 
sua dottrina? Invertendo l’analoga pretesa di Fichte, è capace il reali- 
smo di incorporare l’idealismo? 

Di fatto, nelle varianti della Lettera tra le sue due edizioni, 
(1799/1816), la più significativa è l’esplicitazione della differenza tra 
l’“intelletto” e la “ragione”. Tale lacuna, la cui emendazione interes- 
sa tutta la prima opera di Jacobi, avrebbe portato, secondo il filoso- 
fo, a fraintendere l’iniziale sua proposta dell’ “intuizione” e della 
“fede” in un senso irrazionalistico. Nell’ Introduzione generale del 
1815, nel quale si può trovare la più matura sintesi del suo pensiero, 
Jacobi procede oltre tale distinzione, abbozzando una soluzione di 
complementarietà. L’intelletto servirebbe all’articolazione del conte- 
nuto intuitivo della ragione, cioè alla assimilazione riflessiva del suo 

321 Cfr. supra, § 11,2 e § 1,4. 

322 Lettera a Fichte, W 2/1, 198-199. 

323 Cfr. ibidem, 201-202; supra, § 1,2. 



II. Approfondimento: articolazione del rapporto tra Fichte e Jacobi 


187 


contenuto. Pure, l’intelletto sarebbe ancora la facoltà che procede 
per successive correlazioni del dato di esperienza, secondo rapporti 
formali-quantitativi, nei cui stessi termini il filosofo aveva già inter- 
pretato la matrice “matematica” della razionalità idealistica. La ra- 
gione, in forza del suo carattere “percettivo”, assicurerebbe un anco- 
raggio all’essere e all’intera realtà soprasensibile. L’intelletto, che al- 
trimenti svolgerebbe una funzione pratica analoga alla conoscenza 
animale, grazie ad una “illuminazione” della ragione, viene ad acqui- 
sire una portata propriamente conoscitiva ed una statura propria- 

324 

mente umana ' . 

La domanda aperta è se una tale determinazione dell’intelletto, in 
cui si dovrebbe riconoscere l’operato della “scienza”, venga così a re- 
cuperare una portata veritativa; e, dalla parte della ragione, se l’intel- 
letto, così definito, possa essere responsabile di quella articolazione 
dell’esistente, contenuto dell’intuizione della ragione, ch’era l’alter- 
nativa all’idealismo trascendentale avanzata nel David Hume’ 25 . Il 
problema sembra consistere specialmente nell’inerenza dell’elemento 
formale all’elemento intuitivo, data la loro caratterizzazione oppositi- 
va, in accordo ad un’esigenza d’integrazione presto avvertita dal filo- 
sofo 326 . 


324 Cfr. Introduzione generale, W 2/1, 377-388, 386. 

325 Cfr. David Hume, W 2/1, 57 e ss; supra, § 1,5. 

32b Come si è già accennato, una prima attestazione in tal senso la possiamo reperi- 
re nelle ultime versioni dei romanzi di Jacobi, dove viene specialmente invocata la 
concezione aristotelica della prudenza e della virtù per un’armonica mediazione tra 
l’universalità e l’individualità, tra la legge e il sentimento, i quali termini altrimenti, 
assolutizzati, porterebbero ad una dissoluzione ontologica e morale della persona. 
Cfr. Corrispondenza di Allwill, W 6/1, 132, 211-212; Woldemar, W 7/1, 441 e ss. 



188 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


Conclusione 

Nelle pagine precedenti, abbiamo osservato come la questione del- 
l’essere non è estranea all’interesse della dottrina della scienza. In 
essa si concentrano, infatti, alcune questioni tra le più intime del 
pensiero di Fichte: la relazione del soggetto finito all’assoluto, la rela- 
zione del pensiero alla prassi. La relatività del pensiero all’essere, in 
cui consiste la tesi del realismo, copre entrambe queste questioni 
speculative, che Fichte sin dall’inizio cercò di riguadagnare dal pun- 
to di vista della prospettiva trascendentale. 

Perciò la Lettera, nella quale il filosofo di Dusseldorf aveva evi- 
denziato in maniera quanto mai vivida l’aporia che comporta l’imme- 
diata interpretazione esistenziale dell’idealismo dovette colpire Fich- 
te profondamente. Non già, solo, perché la posizione di Jacobi riflet- 
teva nella forma più pura le perplessità che ostacolavano la ricezione 
della nuova filosofia. Dovette essere pur questo se Fichte separò da 
allora nettamente l’opera da destinare al pubblico, l’opera cosiddetta 
“popolare”, dall’estenuante lavoro di rigorizzazione della prospettiva 
trascendentale cui egli si sottopose, e che rimase per lo più inedito. 
Ma c’è, come pare, un motivo più intrinseco, ed è che l’accusa di 
soggettivismo o di nichilismo (il principio e l’esito dell’idealismo se- 
condo la critica di Jacobi) vanificava l’immenso investimento ideale 
con cui Fichte si era dedicato alla propria opera, ossia il senso pro- 
priamente morale dell’idealismo fichtiano. Questo punto è special- 
mente evidente nella Destinazione dell’uomo (1800), la prima rispo- 
sta pubblica del filosofo alla Lettera di Jacobi. Fichte in sostanza ri- 
propose in quest’opera, che è solo un primo elemento di una serie di 
tentativi di risposta, la propria interpretazione del realismo. In tale 
concezione, la posizione e il senso dell’essere devono essere compresi 
da un’istanza soggettiva e a priori: dalla necessità morale. Il contenu- 
to della moralità si evidenzia nella struttura della coscienza, ed è l’i- 
stanza dell’autonomia che sostanzia la stessa struttura riflessiva del- 
l’io. In forza di tale istanza, la soggettività finita tende alla propria 
realizzazione ma è anche tratta al di là di se stessa, percependo il fon- 
damento del proprio agire nella realizzazione ovvero nella manifesta- 
zione storica della autonomia sostanziale, l’assoluto. 



II. Approfondimento: articolazione del rapporto tra Fichte e Jacobi 


189 


La ricezione di tale risposta da parte di Jacobi permette di rileg- 
gere con maggiore chiarezza il senso della Lettera. La tesi del reali- 
smo è vincolata per il filosofo alla struttura ontologica ed intenziona- 
le dell’esistente, qual essa si mostra nella stessa realtà dell’io. La posi- 
zione immediata dell’io, nel circuito di rapporti in cui l’io si ricono- 
sce (io-mondo, io-tu, io-Dio), antecede e non è altrimenti riguada- 
gnabile dalla pura riflessione. Jacobi ha ritenuto, quindi, il presuppo- 
sto dell’esistente, infine dell’io, come il principio fondamentale della 
propria riflessione e della propria concezione teistica dell’assoluto. 
Qualora la riflessione speculativa ritenga, invece, di potere procedere 
ad una legittimazione a priori dell’esistente, non concedendo a que- 
sto lo statuto trascendentale di un principio, ma lo statuto empirico 
di un mero explicandum, l’io stesso è infine perso nella sua consisten- 
za. L’io avrà, quindi, per compito di risolvere la propria finitezza in 
un soggetto che ne riproduca la struttura formale, la ragione e la vo- 
lontà, ma che ne tralasci l’individualità e l’esistenza che lo definisco- 
no come persona. Il rapporto dell’esistente con l’assoluto è in tal 
modo negativa, sì che la fattualità dell’esistente finito non è altrimen- 
ti comprensibile che come una caduta o un accidente. Il nucleo di 
tale posizione, il cui compimento egli ha scorto nell’idealismo, è l’i- 
dentificazione dell’essere con le modalità caratteristiche del pensiero: 
l’identità e l’universalità. 

Il monismo idealistico sarebbe, dunque, secondo Jacobi, l’esito 
speculativo della richiesta, originariamente cartesiana, di una media- 
zione logica del realismo. Tale mediazione non avrebbe, infine, una 
mera valenza epistemica, come garanzia riflessiva della conoscenza 
dell’essere, ma costitutiva. La mediazione del pensiero comporta una 
determinazione caratteristica del suo stesso contenuto, e tale deter- 
minazione è in contrasto con la realtà dell’esistente, che è il presup- 
posto immediato e necessario di ogni mediazione’ 2 '. 

In sintesi, la Lettera di Jacobi a Fichte intercetta la medesima tra- 
ma speculativa che definisce la coerenza della Dottrina della scienza 
nel suo sviluppo. L’assimilazione del realismo e lo sviluppo di un’on- 
tologia, da parte di Fichte, particolarmente in seguito alla Lettera, ri- 
sultano, infatti, conseguenti con le premesse speculative già poste al- 


327 Cfr. supra, §§ I, 4 e 6. 



190 


5 .Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte’ 


l’inizio. Perciò le posizioni dei due filosofi rimangono invarianti al 
termine del loro confronto. Il nucleo di tale confronto è la determi- 
nazione dello statuto ontologico dell’io finito e della sua funzione 
epistemica. Per Fichte, «l’individuo dev’essere dedotto dall’io assolu- 
to»’ 28 ; l’io finito è, cioè, un’istanza empirica e decifitaria di una iden- 
tità assoluta in cui finalmente consiste il vero essere. Per Jacobi, inve- 
ce, «l’esistente è inseparabile dall’essere»’ 29 ; l’esistente finito è un 
presupposto formalmente necessario per la concezione dell’essere e 
dell’assoluto. La soluzione del nichilismo dipende, per il filosofo di 
Dusseldorf, dalla salvaguardia di questo presupposto. 

Se si riconosce il valore della critica di Jacobi a Fichte, come chi 
scrive è propenso a fare, rimane nondimeno da verificare se la pars 
construens del suo pensiero sia in grado di offrire un’alternativa al- 
trettanto coerente. Una questione aperta in tal senso è l’interpreta- 
zione del Glaube quale funzione ricettiva dell’esistenza e la sua inte- 
grazione in una dottrina comprensiva della razionalità. 


328 Cfr. Fichte, Lettera a Jacobi (30 agosto 1795), GA III/2, 393. 

325 Cfr. Jacobi, Appunto personale riportato in E. Fuchs (a cura di), Fichte in Ge- 
sprdch , cit., Bd. VI.2, cit., pp. 674-675. 



IL TEMI 


Ragione e persona 



192 



6. Teoria della persona 


Nelle pagine precedenti, abbiamo notato a più riprese l’importanza 
della nozione di persona nella filosofia di Jacobi. Vogliamo ora sof- 
fermarci più attentamente su di essa: lo faremo a partire da un testo 
nel quale l’autore dichiara di aver lasciato una formulazione partico- 
larmente significativa al riguardo (cfr. infra, a). Raccoglieremo quin- 
di gli elementi osservati, cercando di inserirli in un quadro generale 
(b). A tale scopo, servirà l’esaminare in che modo la concezione del 
filosofo, esemplificata nel passo citato, è capace di risolvere alcune 
difficoltà. Gli elementi e i problemi considerati saranno, in ogni 
caso, ristretti a quanto è suggerito nel testo. La teoria jacobiana della 
persona, come in tal modo ci riuscirà di esplicitarla, è infatti indisso- 
lubile dall’intera sua visione del mondo e dello spirito — ossia dalla 
sua teoria della ragione (cfr. infra, capitolo 7) — , e solo in questa ri- 
ceve la sua più completa determinazione. Come abbiamo anticipato, 
in questi due ultimi capitoli, per la rilevanza degli argomenti trattati 
e per la loro intima corrispondenza, cercheremo di riprendere i risul- 
tati della nostra indagine, in una prospettiva sintetica e conclusiva. 

Lettera di Jacobi a Jean Vani, 16 marzo 1800 

«IH Sei giunto nel più intimo del mio spirito là dove dici di Fichte: 
“qui egli diventa sacrilego”. [2] Individualità è un sentimento fonda- 
mentale (ein Fundamentalgefuhl), è la radice dell’intelligenza e di 
ogni conoscenza. Senza individualità, nessuna sostanzialità; senza so- 
stanzialità in assoluto nulla ( Ohne Individualitat keine Substantia- 
litàt, ohne Suhstantialitàt iiberhaupt nichts). [3] L’egoità è una mera 
azione consistente nell’identificare il nulla come nulla, nel nulla, at- 
traverso il nulla: è un vuoto non-pensiero; e il contrapporre, inteso 
quale condizione di questa identità, è una vera sciocchezza, poiché 
col contrapporre un nulla più un nulla, trovo un’infinita grandezza 
di più nulla. [4] Pura ipseità è un puro “esser lo stesso” (Derselbi- 



194 


ó.Teoria della persona 


gheit ) ma senza soggetto (. Der ). Egli, o esso, è necessariamente un in- 
dividuo. Cosicché, la sostanzialità è in assoluto il fondamento dell’i- 
dentità e l’individualità della sostanzialità. Cosciente è un aggettivo 
che non si può pensare senza un sostantivo; e questo sostantivo è ciò 
che si mostra in maniera imperscrutabile nel sentimento dell’identità. 

[5] La personalità dell’uomo è impensabile come un mero trascorre- 
re (ein blojles Schweben) attraverso la sintesi. Quale prodotto genera- 
to nel tempo, che appare soltanto nella riflessione, essa è evidente- 
mente qualcosa d’impossibile. Io, Fr. Heinr. Jacobi mi conosco come 
tale, senza alcun contrassegno ( Merkmal ), immediatamente, in forza 
della mia sostanza; non ho bisogno dapprima di costruirmi... [6] Io 
faccio un grosso salto e dico: come per Fichte tutto è soggettività, 
così per me tutto è oggettività. Cfr. Allwill, pp. 164-165. L’impulso 
dell’uomo è penetrare nel vero. Io sono realista come prima di me 
nessun uomo ancora lo è stato, e dichiaro che non c’è un sistema ra- 
gionevole a metà tra l’idealismo totale ed il totale realismo. [7] Tu sei 
il primo con cui mi rivelo in questo modo, poiché tu sei il primo che 
credo essermi venuto già incontro a metà strada. Lascia solo che te lo 
dica» 330 . 

a) Commento 

1. Dove dici di Fichte: “qui egli diventa sacrilego” . Jacobi si riferisce 
ad un passo di una lettera di Jean Paul (f 1825) a lui diretta, nella 
quale l’amico si era soffermato su alcuni punti di una lettera di Fich- 
te a Reinhold. In quest’ultima, l’autore della dottrina della scienza ri- 
spondeva dettagliatamente alla jacobiana Lettera a Fichte : «che cosa 
vuole fare lui con il suo non sapere? Forse impiantarsi al suo posto 
vuoto con la propria individualità, seguendo il capriccio del suo cuo- 
re — che potremmo anche chiamare smorfie e chimere — , e, se l’e- 
sperimento funziona, permettere, poi, ad ogni altro di mettervi ciò 
che vuole, sempre secondo la propria individualità? Questo non è in 
alcun modo cosa mia»” 1 . Ecco il commento di Jean Paul: «Qui egli 
diventa sacrilego. Una certa individualità è presupposta da tutti gli 

3,0 Aus F. H. Jacobi Nachlass. Ungedruckte Briefe von und ari Jacobi und andere, cit. 
238-239 (cfr. W. Jaeschke, a cura di, Transzendentalphilosophie und Spekulation, cit, 
pp. 78-80). 

331 Fichte, GA III/4, 180-183. 



ó.Teoria della persona 


195 


uomini più eccellenti e santi; essa ha o è rivelazione; il genere o la 
specie ha solo tradizione, ciò che non è se non un’altra parola per 
una rivelazione più oscura»” 2 . Nella stessa lettera citata, Fichte aveva 
altresì criticato la concezione di Jacobi sulla personalità, particolar- 
mente sulla personalità di Dio, rinviando alla propria dottrina espo- 
sta nel Diritto naturale (1796). Nel passo riportato è già percepibile 
come il filosofo di Rammenau interpreti l’individualità su di un pia- 
no prettamente epistemico, rispetto al quale essa, come tale, eviden- 
temente, non rappresenta un’istanza affidabile. Jacobi, come vedre- 
mo, ne coglie invece, anzitutto, lo spessore ontologico. 

2. Individualità è un sentimento fondamentale. Come si vede, Ja- 
cobi intende la percezione dell’individualità come un’istanza trascen- 
dentale, poiché è in essa che il reale primariamente si attesta. Da un 
lato, l’individualità è vincolata al sentimento, poiché solo esso, in 
quanto è genericamente determinato come l’opposto del sapere me- 
diato, concettuale o dimostrativo, ha accesso alla realtà, nella sua at- 
tualità e concretezza. D’altro lato, se l’individuo come tale non è at- 
tingibile altrimenti che per mezzo del sentimento, esso rappresenta, 
tuttavia, la stessa “forma universale” dell’essere. Su questo punto si 
concentra l’attenzione di Jacobi nelle righe successive, con particola- 
re riferimento alla realtà del soggetto. La tesi espressa ha, invece, per 
ora, una valenza generale; il vincolo dell’individualità con la cono- 
scenza e con l’essere è, infatti, argomentato in maniera negativa: sen- 
za l’individualità, non potrebbe esserci alcunché di reale e determi- 
nato; perciò, definitivamente, non potrebbe esserci alcunché da co- 
noscere. L’esistenza e l’individualità costituiscono, infatti, il presup- 
posto inadeguabile di ogni concetto’”. L’affermazione del radica- 

332 Cfr. Cfr. W. Harich, ]ean Pauls Kritik des philosophischen Egoismus. Belegt 
durch Texte und Briefstellen ]ean Pauls im Anhang, Suhrkamp, Frankfurt 1968, p. 
224 (cfr. W. Jaeschke (a cura di), Transzendentalphilosophie und Spekulation, cit., 
pp. 75-76). 

333 Cfr. Lettera a Fichte , W 2/1, 201-202, 205, 252. In tal modo, Jacobi respinge la 
proposta di Fichte di mediazione tra realismo e idealismo, ritenendo una costruzio- 
ne a priori della vita come contraddittoria: «Viviamo, pensiamo e sentiamo come in- 
dividui, incomprensibili e inintelligibili a noi stessi, perché altrimenti cesseremmo di 
essere individui (...) Un filosofo che avesse costruito se stesso come un’opera mecca- 
nica, potrebbe come un meccanico stare dietro l'opera, smontarla e rimontarla di 
nuovo davanti ai nostri occhi. Ma finché un tale filosofo abita il nostro mondo terre- 
no, gli autori di sistemi esattamente sezionati uccidono l'uomo, per farlo nuovamen- 



196 


ó.Teoria della persona 


mento dell’intelligenza nella individualità (“radice dell’intelligenza ”) 
non ha così un esito empiristico, o relativistico, poiché questa, in 
ogni sua concreta istanza, è scorta non già nel suo contenuto partico- 
lare, ma in quella sua determinazione “formale” o qualitativa che ne 
rappresenta la sostanza ontologica (l’individualità e la sostanzialità 
come dimensioni basilari dell’essere). La peculiarità della filosofia di 
Jacobi è, così, di identificare nella modalità tipica del primo contatto 
con l’essere, il sentimento, la fondamentale costituzione veritativa del 
pensiero. Tale impostazione, del resto, si accompagna, come abbia- 
mo già notato, ad una decisa deflazione della portata ontologica ossia 
della reale intenzionalità della conoscenza astratta. E interessante 
leggere un passo della Clavis fichtiana (1800) di Jean Paul, cui Jacobi 
poteva verosimilmente alludere: «Solo partendo dall’individuazione, 
dice Jacobi, si può sfondare lo spinozismo; ciò vale anche per la Dot- 
trina della scienza e per ogni filosofia, per quanto pura ed assoluta 
(...) [UJn’assoluta libertà o egoità; ad essa, in quanto fondamento del 
pensiero, si nega la pensabilità; in quanto fondamento degli acciden- 
ti, delle sostanze e delle forze, si nega tutto ciò, in quanto fondamen- 
to dell’esistenza, si disconosce l’esistenza stessa (...) Ma poiché qui 
siamo al di là del pensabile, ed abbiamo ormai abbandonato la cate- 
goria delle categorie, il genere più alto, l’essere, io vorrei negare an- 
che questo a tale egoità assoluta, nella misura in cui essa è il fonda- 
mento dei fondamenti; cosicché, alla fine, non rimanga neppure il 
nulla, (...) ma rimanga infinitamente meno di nulla e più di tutto, in 
breve: l’infondatezza deH’infondatezza» 3 ’ 4 . 

3. L’ egoità è una mera azione consistente nell’ identificare il nulla. 

Jacobi ora si addentra un poco nella dottrina fichtiana sull’io. A tale 
proposito, è da tener presente che egli aveva soprattutto sotto gli oc- 
chi le due introduzioni alla dottrina della scienza del 1797 3 A Ciò che 

te risorgere da queste membra morte» (Sull’impresa del criticismo , W 2/1, 321; trad. 
it.,p. 133). 

3,4 Cfr. J. Paul, Clavis fichtiana seu leibgeberiana , in W. Harich, ]ean Pauls Kritik 
des philosophischen Egoismus , cit., p. 155; trad. it. a cura di E. de Conciliis-H. Tetz- 
hoff, Cronopio, Napoli 2003, pp. 24-26. È da notare che Jacobi conosceva lo scritto 
di Jean Paul, prima della sua pubblicazione, e quindi potè averlo presente nella re- 
dazione sia della lettera che stiamo commentando sia della stessa Lettera a Fichte. 

335 Cfr. Fichte, GA 1/4. Lo si deduce particolarmente dalle diverse citazioni pre- 
senti nella Lettera a Fichte e dagli appunti preparatori di questa: cfr. Lettera a Fichte, 



ó.Teoria della persona 


197 


egli qui, come nella Lettera a Fichte , contesta è l’esclusiva identifica- 
zione dell’io, da parte di Fichte, con la realtà dell’intelligenza; ovve- 
ro, l’univoca identificazione del soggetto personale con la sua deter- 
minazione formale, l’intelligenza, e la conseguente sua completa assi- 
milazione nell’ambito della rappresentazione 3 ’ 6 . Tale identificazione 
comporta, da un lato, la sottrazione della materia sulla base della 
quale, naturalmente si costituisce il concetto e lo stesso reale conte- 
nuto dell’autocoscienza. Il vincolo dell’intelligenza all’io reale risulta, 
così, estrinseco: è un presupposto empirico da cui si parte ma a cui 
non si ritorna”'. In tal modo, però, l’autocoscienza manca di un rea- 
le referente ed è ridotta alla sua pura forma logica, l’identità. D’altro 
lato, l’identificazione dell’intelligenza con la forma riflessiva dell’io 
comporta la perdita del suo carattere intenzionale ed attivo: l’intelli- 
genza è oggettivata come una forma pura o come un’attività pura- 
mente autoreferenziale; ma i due esiti, definitivamente, coincido- 
no 3 ’ 8 . L’insostenibilità di tale impostazione appare specialmente là 
dove il riferimento alla realtà individua dell’io e alla sua capacità di 
trascendenza è indispensabile: nell’esercizio della volontà e dell’agire 
morale” 9 . Il filosofo ricorda quindi un aspetto caratteristico della 
dottrina di Fichte che potrebbe rappresentare un’obiezione alla criti- 
ca appena presentata: l’identificazione dell’io implica necessariamen- 
te, in virtù del suo stesso carattere riflessivo, la mediazione dell’alte- 
rità. La presupposizione di una trascendenza, il non io, è dunque co- 
stitutiva per l’io. Del resto, il rapporto con il non io è inteso da Fich- 
te in termini prettamente pratici, non già meramente teoretici o con- 
cettuali: l’essere in senso proprio è attivo; ma la percezione e lo stes- 
so realizzarsi dell’attività implicano la determinazione da parte di un 

W 2/1, 205, 210, 224; I. Radrizzani, Introduzione a F.H. Jacobi, Lettre sur le nihili- 
sme , Flammarion, Paris 2009, pp. 7-38. 

336 Cfr. Lettera a Fichte , W 2/1, 252: «nella più alta astrazione, quando si ha com- 
pletamente separato la caratteristica razionale, ed essa non è più riguardata come 
proprietà, ma affatto per sé, allora l’istinto di una tale pura ragione si rivolge sola- 
mente alla personalità , con l’esclusione della persona e dell’esistenza, poiché persona 
ed esistenza richiedono individualità, che in tal caso, necessariamente, decade». 

337 Cfr. supra, capitolo 3, § 2. 

338 Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 236: «una originaria, puramente indeterminata atti- 
vità — attuosità o agilità — in sé». Ibidem, 254-255: «una forma che sia mera forma, 
un’attività il cui unico scopo sia un’ intenzione pura, cioè vuota». 

339 Cfr. ibidem, 212, 253. 



198 


ó.Teoria della persona 


ostacolo. L’identità dell’io è, in tal modo, concepita per riflessione, al 
limite dello scambio con un ostacolo: un termine negativo noto sol- 
tanto nell’immanenza, ma indeducibile. Si può aggiungere che il filo- 
sofo di Rammenau identifica, perciò, con Jacobi, nel sentimento la 
primigenia costituzione della coscienza 240 . In questa linea procede, 
come si è visto, la risposta di Fichte a Jacobi, lamentando in questi 
un’insufficiente comprensione della parte pratica della dottrina della 
scienza. Tuttavia, sembra osservare Jacobi nel passo in esame, se 
manca una prima assicurazione dell’essere, la contrapposizione, 
come prima l’identità, è come una forma tracciata nel mezzo ideale 
deH’immaginazione, ma senza un reale contenuto 341 . Inoltre, ed è 
questa una critica che vedremo sviluppata più avanti, la sostanzialità, 
così dell’io come del non io, non può costituirsi né può evidenziarsi 
per mezzo della relazione, — s’intende, in senso assoluto — , poiché 
questa presuppone la prima. Confrontiamo ancora un passo perti- 
nente della Clavis fichtiana di Jean Paul, dove l’autore osserva nella 
dottrina della scienza la conseguente affermazione del carattere co- 
struttivo o fenomenico della soggettività finita: «Io empirico, sempli- 
ce io, io intelligente e cosciente, soggetto. L’infinito (puro) Io non è 
come tale qualcosa di finito, dunque di determinato, dunque non è 
ancora un “qualcosa”, nulla di esistente. Per essere un qualcosa, non 
può rimanere lo stesso. Ma tutto l’Essere sgorga dallTo puro, quindi 
anche questo “non essere lo stesso”; come tale, esso deve contrap- 
porsi a sé stesso in virtù della causalità assoluta; attraverso ciò si de- 
termina (si limita), appare come io finito e reale, e si rappresenta 
qualcosa» 242 . 

340 Cfr. Fichte, Seconda introduzione alla dottrina della scienza , GA, 1/4, 241-244. 

341 Cfr. Lettera a Fichte , W 2/1, 195-196. Più esattamente ne Sull’impresa del critici- 
smo, leggiamo: «Poiché entrambe le X [dell’oggetto e del soggetto] costituiscono in- 
sieme una semplice cosa del rapporto, cioè reciproca determinazione senza determi- 
nante e determinabile, che significa reciproca delimitazione senza delimitante e né 
delimitabile, e attraverso di loro non viene posto assolutamente nulla, ma viene 
aperta soltanto una totale infondatezza» {ivi, W 2/1, 276-277; trad. it., p. 91). Si noti 
la corrispondenza di quest’ultimo termine ( Grundlosigkeit ) nel testo di Jean Paul 
dianzi citato. 

342 Jean Paul, Clavis fichtiana seu leihgeberiana, cit., pp. 171-172; trad. cit., p. 62. 
Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 194, 204. Nelle pagine successive a quelle appena citate 
(cfr. ivi, §§ 9, 13), Jean Paul critica la deduzione fichtiana dell’intersoggettività, in 
quanto questa, come la monadologia di Leibniz, non riuscirebbe ad assicurare la 
realtà dei soggetti altrimenti che in maniera postulatoria o concependoli come feno- 



ó.Teoria della persona 


199 


4. Pura ipseità è un puro “esser lo stesso” ma senza soggetto. Il filo- 
sofo esplicita la conclusione dei punti precedenti ed avanza un poco 
nella esposizione della propria concezione positiva. L’identità co- 
sciente presuppone un’identità reale già costituita, perciò una con- 
creta ed individua sostanza, empiricamente rilevabile (“esso”), don- 
de possa dirsi che Tesser cosciente appartiene ad un certo soggetto 
(“egli”). Il trovare sé, in cui radicalmente consiste l’autocoscienza, 
non comporta una reiterazione infinita dell’atto di riflessione, perciò 
una nullità, solo in quanto si mantenga la costituzione originaria del- 
la coscienza, come manifestazione immediata dell’essere del mondo 
(“ci sono cose”) e dell’essere di un certo soggetto (“io sono”). L’indi- 
vidualità e l’esistenza dell’io potranno sì essere caratterizzati dalla ri- 
flessione (ovvero, dalla trasparenza e dall’apertura all’universalità 
propria dell’essere intelligente); ma tale riflessione comporta, d’altra 
parte, quale suo reale presupposto ed oggettivo contenuto, un’irridu- 
cibile datità. Del resto, questa datità, se è reale, ossia se non è una 
pura posizione della coscienza, deve ricevere le connotazioni proprie 
dell’essere sostanziale. Su questa base, l’ipseità si può coerentemente 
attribuire a diversi soggetti, evitando l’esito solipsistico che virtual- 
mente discende da una riduzione intellettualistica o formalistica del- 
l’io. Come Jacobi arriva infine a riconoscere, tale soluzione è legata 
ad un’impostazione generale di segno realistico 34 ’. Egli, però, si sof- 
ferma sulla primitiva manifestazione della soggettività, nel senso in- 
dicato, e lo fa approfondendo la dimensione del sentimento cui essa, 
in forza delle precedenti premesse, appartiene. A tale proposito, vale 
la pena di sottolineare l’aggettivazione utilizzata: l’identità è il conte- 
nuto di un sentimento e questo è detto “imperscrutabile” ( unan - 
schaubar ). Questo termine va spiegato secondo l’uso consueto del- 
l’autore, che è di connotare negativamente l’esperienza di quelle di- 
mensioni primitive del reale che, per il loro aspetto semplice ed ori- 
ginario, o per la loro irriducibile fattualità, non sono vincolabili ad 

meni (“modalità”) di una medesima sostanza. 

343 A tale proposito, è assai interessante l’indagine di Klaus Hammacher sulla decli- 
nazione dialogica del realismo esistenziale di Jacobi. L’autore non sembra, però, 
considerare abbastanza le implicazioni della concezione realistica ovvero idealistica 
dell’io a tale riguardo, specialmente nella valutazione della critica di Jacobi a Fichte. 
Cfr. K. Hammacher, Die Philosophie Friedrich Heinrich Jacohis, Fink, Miinchen 
1969, pp. 38-48, 166-184. 



200 


ó.Teoria della persona 


un’istanza epistemicamente antecedente, e che perciò non sono ac- 
certabili altrimenti che in maniera diretta, ossia in maniera intuiti- 
va’ 44 . La registrazione della relativa impenetrabilità razionale del 
modo con cui la realtà dell’io si presenta, anzi della sua stessa realtà, 
va, però, di pari passo con l’avvertenza della peculiarità del suo con- 
tenuto, che obbliga, appunto, ad una restrizione della pretesa di 
comprensione. Tale situazione dell’io appartiene alla generale conce- 
zione jacobiana sull’indeducibilità dell’esistenza, e ne costituisce, 
come vedremo meglio più avanti, un approfondimento decisivo 34 ’. 

5. La personalità dell’uomo è impensabile come un mero trascorre- 
re. Il punto di vista precedentemente espresso è ora approfondito sia 
nel suo lato positivo sia nel suo lato negativo. Jacobi cerca di chiarifi- 
care ulteriormente il dato radicale dell’autocoscienza; perciò confer- 
ma la modalità di presentazione dianzi illustrata, escludendo l’ipotesi 
opposta che introduce un elemento costruttivo, una “sintesi”, ossia 
una mediazione, nell’apprensione dell’identità personale. Dapprima 
egli confuta questa posizione alternativa, che dovrebbe corrisponde- 
re presumibilmente alla concezione di Fichte; quindi ribadisce la 
propria tesi, cercando di riprodurre nel modo più concreto l’intui- 
zione fondamentale dell’io. L’impossibilità della funzione costitutiva 
della mediazione, a tale riguardo, è esplicitata in altri luoghi dove Ja- 
cobi osserva che l’identificazione dell’io per riflessione, comparazio- 
ne o associazione presuppone la stessa identità, sia dal lato soggetti- 
vo sia dal lato oggettivo 346 . Positivamente, il filosofo di Dusseldorf 
sostiene che c’è una rivelazione della realtà dell’io che è indipenden- 
te dall’allegazione di attribuzioni (s’intende universali o 
comparative), poiché è in essa che emerge l’elemento basilare dell’in- 

344 Nel Woldemar l’io sono è indicato come un primo principio e pertanto come 
oggetto di un sapere immediato (unmittelbares Wissen): cfr. ivi, W 7/1, 270. 

’ 45 Un antecedente importante nell’attribuzione al sentimento della prima cogni- 
zione dell’io si può trovare in Leibniz (cfr. “intuition”) e nella Confessione di fede 
del vicario savoiardo di Rousseau, dove peraltro si possono riconoscere diversi altri 
motivi ispiratori della filosofia di Jacobi. Cfr. M. Frank, Selbstgefuhl. Bine historisch- 
systematische Erkundung, Suhrkamp, Frankfurt a.M 2002, p. 79 e ss. 

346 Cfr. Su di una profezia di Lichtenberg, W 3, 26: «che cosa mai sarebbe una per- 
sona non ancora equiparata, una persona che non avesse ancora né entità né consi- 
stenza e si trasformasse in una persona avente una sua entità e una sua consistenza, 
una sua personalità insomma, con un semplice gioco di raffronto, o di composizione, 
o di associazione» (trad. it., p. 59). 



ó.Teoria della persona 


201 


dividuazione, che è il termine ultimo cui quelle, per ipotesi, devono 
essere riferite. L’esistenza dell’io, come pure la realtà del mondo, si 
manifesta, perciò, da se stessa, né potrebbe essere diversamente 34 '. 
Del resto, la tesi si comprende meglio se la si commisura alla tesi op- 
posta circa la compiuta costruibilità dell’io. All’impraticabilità di 
questa Jacobi sembra alludere nella contraddittorietà dell’ipotesi di 
un “costruirmi”. Si potrebbe osservare, tuttavia, che lo stesso argo- 
mento sulla necessaria presupposizione dell’io e sull’impossibilità di 
una sua costruzione è sostenuto pure da Fichte, nella stessa Seconda 
introduzione alla dottrina della scienza, e con espresso richiamo alla 
concezione di Jacobi sulla immediatezza dei primi principi’ 48 . Va 
però ribadito che l’opposizione rimane in relazione alla concezione 
dell’io e dell’individualità. Come abbiamo potuto già osservare, men- 
tre Jacobi identifica sin dall’inizio l’io con il soggetto personale fini- 
to, Fichte ritiene invece che questo costituisca un costrutto derivato 
dall’io assoluto’ 44 . La presupposizione necessaria dell’io si riferisce, 
per Fichte, come per Kant, all’io trascendentale. Più precisamente, 
per Fichte, l’io coincide con Tesser cosciente, rispetto a cui l’indivi- 
dualità dell’io si costituisce come l’oggetto di una rappresentazione, 
ovvero come la sintesi di un complesso di relazioni che coinvolgono 
l’intera esperienza del mondo sensibile. Per Jacobi, invece, la sogget- 
tività cosciente coincide con la stessa individualità sostanziale, che in 
essa si manifesta in maniera immediata e relativamente assoluta, cioè 
né in maniera non oggettiva, o rappresentativa, né come il semplice 
prodotto di una relazione. 

6. Io faccio un grosso salto. Jacobi finalmente mette in gioco la sua 
mossa più nota ed anche fraintesa, il “salto mortale”. Non si tratta di 
un intervento estrinseco nel corso della speculazione filosofica; piut- 
tosto, la metafora del salto intende segnare Toriginarietà nella prima 
costituzione del senso del reale e il relativo aspetto riflessivo e volon- 
tario di assunzione ch’esso comporta. L’idealismo e il realismo non 
sono due teoremi che possano reciprocamente escludersi o integrarsi 
in funzione di un’istanza logica antecedente. Essi rappresentano, in- 

347 Cfr. David Hume, W 2/1, 32-33, 37. 

348 Cfr. Fichte, GA 1/4, 228, 260. 

349 Cfr. Fichte, Lettera a Jacobi (30 agosto 1795), GA III/2, 392; supra, capitolo 3 , 
§ II.2 e capitolo 3, § 1.4. 



202 


ó.Teoria della persona 


vece, due posizioni antitetiche rispetto alla definizione dei primi 
principi, cioè rispetto alla prima concezione dell’essere. Perciò, per 
quanto da essi discenda un’intera diversa concezione della realtà, al- 
l’origine della loro assunzione non ci può essere una mediazione ra- 
zionale, ossia una vera e propria fondazione. In tal senso, il salto ri- 
sponde alla stessa posizione di Fichte, che attribuisce la prima discri- 
minazione tra il realismo e l’idealismo ad una posizione extra-teoreti- 
ca, ad una scelta originaria per l’eteronomia o per l’autonomia” 0 . La 
scelta per 1’ “oggettività”, da parte di Jacobi, è invece assicurata dal- 
l’accettazione della portata veritativa del primo referto della coscien- 
za, almeno nelle sue “tesi ontologiche” fondamentali che definisco- 
no, appunto, il significato del realismo. L’ “oggettività”, in tal senso, 
si oppone alla restrizione della capacità rivelativa dell’esperienza 
umana ordinaria o alla esclusiva delimitazione di ogni suo contenuto 
nell’ambito della stessa coscienza. Pure, è da notare che la relativa 
assolutezza con cui la coscienza naturale e la coscienza filosofica, che 
in essa si fonda, si assicurano della realtà dei propri contenuti, non 
equivale all’esaustività nella loro relativa comprensione. In tal senso, 
la visione che l’uomo ha dell’essere, del proprio stesso essere, è vera, 
ma è anche finita e perciò, in tal senso, opaca, “fenomenica”. Tale 
posizione è confermata specialmente rinviando ad un passo della 
Corrispondenza di Attivili, nel quale il filosofo, come altrove ricono- 
sce, ha lasciato una formulazione esemplare di ciò che egli intende 
per “assoluta oggettività” ( absolute Objectivitat ) . «Siamo come un 
soffio, spesso solo come l’ombra di un soffio; o piuttosto, come un 
antico poeta si è espresso, il sogno di un’ombra. Tuttavia, un essere, 
che non è altro che ombra, un essere che sia semplice sogno, è un’as- 
surdità. Noi siamo, noi viviamo, ed è impossibile una forma di vita e 
di esistenza che non sia una forma di vita e di esistenza che apparten- 
ga anche all’essere supremo» 351 . E nell ’ Introduzione generale spiega: 
«O sono tutte le conoscenze, in ultima analisi, oggettive, cioè sono 
rappresentazioni di qualche cosa che esiste indipendentemente dal 
soggetto che se le rappresenta, in modo che si debbano ritrovare an- 
che nell’intelletto divino, non solo in forma limitata e finita, ma in 
forma ugualmente comprensiva di tutte le relazioni e infinita; o non 

350 Cfr. Fichte, Prima introduzione alla dottrina della scienza , GA 1/4, 192-196. 

351 Corrispondenza di Attivili, W 6/1, 168. 



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203 


c’è nessuna conoscenza veramente oggettiva, né un mondo, né 
Dio» 3 ’ 2 . In maniera forse più pertinente si potrebbe rinviare all’ulti- 
ma lettera raccolta nella stessa Corrispondenza di Allwill, dove l’auto- 
re delimita l’estensione della relatività soggettiva o “fenomenalità” 
del sapere per riferimento ad un elemento assoluto, che egli riviene 
nella cognizione dell’esistenza vivente dell’io. Tale superamento della 
fenomenalità non è così postulatorio, ma tocca il presupposto della 
necessaria immediatezza dell’io: «Apparenza ed ombre ci circonda- 
no. Non riconosciamo nemmeno l’essenza del nostro essere (. Da - 
seyn ). Improntiamo tutto della nostra immagine, e questa immagine 
è una figura cangiante. Quell’io, che chiamiamo il nostro sé, è un du- 
plice parto del tutto e del nulla: la propria anima, soltanto un feno- 
meno... Ma un fenomeno che si approssima all’essenziale! Sponta- 
neità e vita vi si rivelano immediatamente. Perciò, il puro sentimento 
e la sostanza dell’anima sono per noi il paradigma dell’essere di ogni 
cosa» 3 ”. Per Jacobi, il salto non ha dunque una connotazione preva- 
lentemente pratica, com’è per Fichte ne La destinazione dell’uomo, 
dove si giunge ad un’interpretazione positiva del realismo, sul piano 
dell’agire, tramite la piena assimilazione del fenomenismo, sul piano 
teoretico 3 ’ 4 . La tesi realistica di Jacobi consiste invece nel rilevare la 
relativa trasparenza dei fenomeni e con ciò la portata veritativa della 
coscienza naturale. 

7. Tu sei il primo con cui mi rivelo in questo modo. Il problema di 
fondo qui sollevato circa l’assicurazione dell’esistenza del mondo e 
dell’io di fronte all’inedito potere di astrazione espresso nella filoso- 
fia trascendentale di Fichte, era infatti stato oggetto degli scritti di 
Jean Paul, nonché nella sua corrispondenza con Jacobi precedente la 


352 Introduzione generale, W 2/1, 391 in nota; trad. it., p. 72. 

353 Corrispondenza di Allwill, W 6/1, 223-224. 

354 Cfr. supra, capitolo 5, § II.2. La nota seguente rivolta alla dottrina kantiana, 
conforme ad altre indicazioni (come nel proseguo della stessa lettera a Jean Paul che 
abbiamo citato), potrebbe verosimilmente intendersi a commento della filosofia di 
Fichte, particolarmente de La destinazione dell’uomo: «la ragione dopo che, come 
ragione critica, ha aguzzato intrepidamente gli occhi con i quali aspirava soltanto a 
vedere, ancor più intrepidamente impone ora a se stessa di sfidare la manifesta oscu- 
rità, che in essa, dal punto di vista pratico, per mezzo di una fede cieca, cioè assolu- 
tamente vuota di conoscenza» (Sull’impresa del criticismo, W 2/1, 278 in nota; trad. 
it, p. 145). 



204 


ó.Teoria della persona 


composizione della Lettera a Fichte 055 . Il letterato vi aveva anticipato 
chiaramente la problematica del nichilismo e l’assimilazione del tra- 
scendentalismo fichtiano alla lettura jacobiana di Spinoza; peraltro, 
in tal modo orientando lo stesso Jacobi, nel momento in cui questi si 
trovava perplesso e faticosamente impegnato nello studio della nuo- 
va filosofia. 

b) Analisi: l’ontologia della persona 

Uno degli aspetti più di sovente ribaditi da Jacobi nella sua delinea- 
zione della storia della filosofia moderna è la coerenza di svolgimen- 
to del principio cartesiano di coscienza. Il cogito costituisce dappri- 
ma un’istanza ontologica, poiché consente di assicurare la realtà del 
soggetto di contro alla condizione di fenomenalità che è attribuita al 
mondo. Ma il principio retrocede poi sullo stesso soggetto, che non 
può più costituire una reale sostanza, ma dev’essere anch’esso ridot- 
to entro la dimensione della coscienza. Il soggetto è così anch’esso 
un oggetto per la coscienza, o piuttosto, l’essere cosciente diventa 
l’ambito universale dell’essere (“oggetto-soggetto”) 356 . 

Questa diagnosi è formulata dapprima nella Lettera a Fichte, dove 
l’esito nichilistico dell’idealismo è identificato precisamente in tale ri- 
duzione della soggettività finita, ancor prima che nella compiuta ri- 
duzione del mondo 35 '. Qui, ad esempio, Jacobi denuncia l’assurdo 
esito di «personalità impersonale, quella pura egoità dell’io senza un 
sé»’ 58 . In tal modo, il filosofo contesta l’oggettivazione dell’io, ossia 
la sua identificazione con un termine ormai privo della sua funzione 
pronominale (referenziale). D’altra parte, egli indica l’origine di que- 
st’esito nella sospensione o refutazione, per un’indebita pretesa di 
certezza, della posizione naturale della coscienza, che è di attestare in 
maniera immediata e indisgiungibile l’esistenza dell’io e l’esistenza 

355 Cfr. A. Iacovacci, Idealismo e nichilismo. La “Lettera” di Jacobi a Fichte, cit., p. 
42 e ss. 

356 Sulla pertinenza di tale lettura per Fichte e Schelling: cfr. G. Zoller, “Fichte als 
Spinoza, Spinoza als Fichte”, in W. Jaeschke-B. Sandkaulen, Friedrich Heinrich Ja- 
cobi, cit., pp. 37-52. Si potrebbe confrontare a tale proposito la radicalizzazione pro- 
posta nelle Meditazioni cartesiane di Flusserl. 

357 Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 194-195, 202, 204; Sulle cose divine, W 3, 121-122; 
Introduzione generale, W 2/1, 393. 

358 Lettera a Fichte, W 2/1, 212. 



ó.Teoria della persona 


205 


del mondo. Positivamente, Jacobi ritiene che l’esistenza non possa 
essere accertata attraverso la sua necessitazione, ossia a priori, né ri- 
tiene che la relazione tra la coscienza e il mondo (quindi tra lo spirito 
e il corpo, tra la soggettività e l’oggettività, sia nel conoscere sia nel- 
l’agire) possa essere risolta, pur costituendo tale irriducibile “duali- 
smo” un enigma per la ragione” 9 . 

Ora, se la critica di Jacobi ai paradossi dell’idealismo è risultata 
quanto mai adeguata sul piano fenomenologico (anche per lo stesso 
Fichte), bisogna vedere se la sua posizione alternativa lo è altrettanto 
sul piano speculativo. Concretamente, dobbiamo vedere se nella sua 
opera, e sulla base degli elementi precedentemente acquisiti, si trova- 
no sufficienti delucidazioni per la concezione sinteticamente esposta 
nella lettera a Jean Paul, che abbiamo commentato. In particolare, 
dobbiamo vedere se vi si trovano delle soluzioni soddisfacenti per al- 
cuni problemi che si potrebbero proporre al riguardo; consideriamo 
ora specialmente i seguenti (si deve notare sin da ora che per la loro 
formulazione generale e per le loro virtualità problematiche, essi ec- 
cedono gli argomenti e le soluzioni che si possono plausibilmente re- 
perire nell’opera di Jacobi). 

1. La sostanzialità non restituisce l’io in quanto tale, poiché l’assi- 
mila piuttosto alle cose, rispetto alle quali l’io deve essere sempre 
presupposto come soggetto. Del resto, l’infinità operativa dell’io 
come spirito, che lo stesso Jacobi riconosce, è in contrasto con una 
sua rigida individuazione tramite il sentimento. 

2. La posizione assoluta dell’individualità è contraddittoria sul 
piano logico e sul piano fenomenologico: l’individuazione implica la 
mediazione dell’alterità; l’io individuo non può concepire se stesso 
altrimenti che in relazione con il mondo e con gli altri. Tale posizio- 
ne risulta, inoltre, contraddittoria nella filosofia di Jacobi, cui si deve 
la prima formulazione del principio: “senza il tu non c’è l’io”. 

3. Il sentimento attinge sì il reale nella sua immediatezza, ma non 
consente di caratterizzarlo in maniera sufficiente da attribuirgli una 
funzione propriamente conoscitiva, e dunque una funzione identifi- 
cante. Si presuppone che l’individualità nella quale il soggetto perso- 


359 Cfr. ibidem, 194, 232-233 in nota; Sull’impresa del criticismo , W 2/1, 321-322. 



206 


ó.Teoria della persona 


naie debba identificarsi sia una realtà sommamente ricca e determi- 
nata, e che perciò non possa esser ridotta ad una realtà indistinta. 

Ad 1. Io e sostanzialità 

La datità dell’io, nella sua individua esistenza, è presupposta ad ogni 
sua determinazione nozionale o attributiva. L’io non si manifesta allo 
stesso modo delle cose, oggetto di conoscenza, poiché la sua realtà si 
rivela immediatamente, ossia per trasparenza al fondo degli stessi atti 
di conoscenza con cui si intende avvicinarla. Tale medesima realtà è, 
però, sempre in ogni sua istanza, caratterizzata da una individualità 
empiricamente concreta, relativa ad un corpo e ad un carattere psi- 
cologico-morale determinati’”' 1 . L’individualità e l’esistenza dell’io, 
del resto, emergono in funzione della sua attività vitale, e questa 
emerge nella complessa relazione causale ed operativa che intrattiene 
con il mondo, con gli altri. La relativa spontaneità e passività che ca- 
ratterizzano tali relazioni, infine l’intero fenomeno della libertà uma- 
na, manifestano e qualificano la stessa sostanzialità dell’io: sì nella 
sua reale consistenza, sì nel suo carattere spirituale, ma altresì nella 
sua finitezza. La necessaria presupposizione dell’io non si riferisce, 
dunque, ad un’indeterminata esistenza né ad una coscienza universa- 
le, ma ad un realtà ben concreta in cui solo è visibile l’essere perso- 
nale nelle sue determinazioni universali caratteristiche. La soggettivi- 
tà cosciente integra, così, la stessa “soggettività” sostanziale. 

Questa tesi, come si è osservato, riposa su di un’ontologia, quella 
d’ispirazione aristotelica, che Jacobi riceve attraverso Leibniz, per 
cui l’unità caratteristica dell’essere vivente rappresenta la più alta 
forma di unità sostanziale’” 1 . In tale prospettiva analogica, c’è una 
correlazione diretta tra l’essere, l’unità e l’attività. Più oltre, l’unità e 
l’attività che si riscontrano nell’essere personale rappresentano, per 
la loro peculiare concentrazione, le manifestazioni più alte della vita: 
perciò, l’essere personale costituisce il tipo esemplare dell’essere. 
Ancora, per la sua peculiare autonomia ontologica ed operativa, l’es- 
sere personale, come spirito, gode della sostanzialità in maniera emi- 
nente, pur se le attribuzioni della sostanzialità devono comporsi in 
esso con le attribuzioni che ne segnano la relatività, e con ciò la fini- 

360 Cfr. David Hume , W 2/1, 82-83; Corrispondenza di Attivili, W 6/1, 228-229. 

361 Cfr. supra, capitolo 3, § 3; capitolo 4. 



ó.Teoria della persona 


207 


tezza 362 . La sostanzialità dell’essere personale gode, inoltre, di un pri- 
vilegio epistemico per la sua immediatezza; ed è perciò in essa che si 
può rinvenire il mezzo privilegiato per pensare l’essere in sé, al di là 
dei fenomeni’ 6 ’. Del resto, il filosofo di Dusseldorf assimila alla stessa 
immediatezza e inoggettivabilità dell’io quella dell’esistenza e della 
vita’ 64 . La realtà dell’io serve così da base e modello per pensare l’es- 
sere sostanziale, e non è, invece, l’io ad essere pensato nei termini di 
una nozione univoca di sostanzialità 366 . 


362 Cfr. Lettera a Fichte , W 2/1, 232-233 in nota; Su di una profezia di Lichtenberg, 
W 3, 27-28. Tale posizione “paradossale” dello spirito finito porta il filosofo a soste- 
nere la dottrina classica, già scritturistica, della sua creazione immediata da Dio, pe- 
raltro come fondamento di una relazione originaria ed immediata della ragione a 
Dio, sul piano noetico. Cfr. David Fiume , W 2/1, 91; Sulle cose divine, W 3, 92, 125- 
126. 

363 Cfr. Corrispondenza di Allwill, W 6/1, 223-224. Notevoli analogie in tal senso si 
riscontrano nella filosofia della persona di R. Spaemann: cfr. Id., Personen , Klett Cot- 
ta, Stuttgart 1996. 

364 Cfr. David Fiume, W 2/1, 69-70; ma si legga più oltre, ivi, 83-84: «l’anima, per 
avere una rappresentazione di se stessa, si dovrebbe poter distinguere da sé, diventa- 
re estranea a sé. Di ciò che è la vita, abbiamo per certo la più intima coscienza: ma 
chi si può fare una rappresentazione della vita?» (trad. it., p. 139). 

365 Nella sua recensione al terzo volume delle opere di Jacobi, Hegel ripropone il 
suo superamento immanente del naturalismo spinoziano, esemplarmente esposto 
nella Scienza della logica-, la comprensione riflessiva della sostanzialità implica le de- 
terminazioni dialettiche proprie dello spirito, come l’autodeterminazione. Cfr. G. W. 
F. Hegel, Ueber "Friedrich Heinrich Jacobi’s Werke. Drifter Band” , cit. Jacobi ritiene 
tuttavia che il punto di vista di Hegel sia sì superiore a quello di Spinoza dal punto 
di vista formale, ma non dal punto di vista del suo reale contenuto, che sarebbe in- 
vece il medesimo (cfr. lettera a J. Neeb, 30-V-1817, in F. H. Jacobi, Auserlesener 
Briefivechsel, cit., voi 2, p. 467 e ss.). Interpretando si potrebbe notare, Hegel identi- 
fica il logico come l’ambito dello spirituale, il che comporta, per Jacobi, una tradu- 
zione dello spirito, cioè della persona e della libertà, nei termini generici e univoci di 
un’ontologia generale, con gli esiti paradossali che egli segnala in Schelling, come l’i- 
dentificazione della libertà con la necessità tramite la nozione di incondizionatezza: 
cfr. Introduzione generale, W 2/1, 411 e ss. Una tale, rinnovata riduzione naturalisti- 
ca è inevitabile appena la realtà dell’io non sia assunta nella sua vivente concretezza, 
come un principio, ma voglia essere integralmente ricostruita sul piano ideale, cioè a 
partire dai suoi predicati. Del resto, Hegel sembra voler rivendicare la possibilità di 
restituire le determinazioni dell’esperienza dopo la loro annichilazione nell’intuizio- 
ne dell’essere puro o nell’universalità onnicomprensiva della sostanza spinoziana 
(cfr. F. Michelini, Sostanza e assoluto. La funzione di Spinoza nella “Scienza della lo- 
gica” di Hegel, EDB, Bologna 2004). Ma tale pretesa, se vuole evitare lo spinozismo, 
se cioè le note della sostanzialità debbono essere infine riferite all’individuo, costrin- 
ge a presupporre l’autonoma consistenza di ciò che vorrebbe invece dedurre. 



208 


ó.Teoria della persona 


Come si è già notato dianzi in relazione alla concezione kantiana e 
fichtiana, non c’è, dunque, un’opposizione per Jacobi tra l’individua- 
lità sostanziale e la soggettività, poiché la prima non è concepita in 
termini riduttivamente materiali o empirici 366 . La nota della sostan- 
zialità in generale basta ad assicurare la relativa autonomia ontologi- 
ca e l’emergenza della realtà cui essa si attribuisce sulla possibilità o 
sulla rappresentazione, che è precisamente l’aspetto per cui la que- 
stione del realismo o dell’idealismo viene a toccare la concezione del- 
la persona. Tuttavia, essa non ne predetermina il contenuto e la mo- 
dalità. Più oltre, nella prospettiva di Jacobi, è lo stesso essere della 
persona a garantire, per eccedenza analogica, la comprensione di ciò 
che significa in generale “essere in sé” {Selbst-seyn) . Di qui, si noti, 
qual era nei capitoli precedenti l’importanza di ridefinire la proble- 
matica del realismo e della “cosa in sé” in relazione all’io; precisa- 
mente, per evidenziarne la consistenza non già anzitutto gnoseologi- 
ca (rimanendo nella quale è infatti insolubile), ma ontologica. 

Si potrebbe, tuttavia, notare che una tale soluzione non soddisfa 
la preoccupazione, tra gli altri di Fichte, di assicurare la portata uni- 
versale del sapere. Il riferimento all’individualità di un punto di vista, 
di un carattere, o il riferimento alla semplice esperienza, disconosce 
l’esigenza di razionalità, che pure è l’istanza che contraddistingue l’a- 
pertura propria dell’essere umano. L’uomo è tale perché può tra- 
scendersi verso l’assoluto. L’individuazione è contraddittoria o è al- 
meno accidentale per l’io, in quanto questo si eleva alle dimensioni 
di universalità e necessità della ragione. 

A tale proposito, lasciando per il momento da parte quanto con- 
cerne più specificamente la concezione della ragione, si potrebbe ri- 
spondere evidenziando nuovamente come il discorso di Jacobi sul- 
l’individualità personale esemplifichi il contenuto speculativo del suo 
realismo. L’esigenza di oggettività coincide per lui con il fondamen- 
tale riferimento del pensiero all’essere; ma questo si dà, inizialmente 

366 Cfr. supra , capitoli 2 e 3. Si consideri ad esempio la pertinenza del seguente pas- 
so, ispirato alla monadologia di Leibniz nei confronti della concezione lockiana di 
sostanza, che è intesa esclusivamente come sostrato materiale: «o deve considerare il 
principio della ragione come tutt’uno col principio della vita oppure è costretto a 
fare della ragione un semplice accidente d’un certo organismo. Per quel che mi ri- 
guarda, considero il principio della ragione tutt’uno con quello della vita» (David 
Hume, W 2/1, 65; trad. it., p. 124). 



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209 


e sempre, in relazione ad una determinata sostanza, ossia a un esi- 
stente in sé determinato. Più oltre, l’esistenza dell’io nel mondo è la 
premessa implicita di ogni giudizio e da essa dipende il discernimen- 
to della sua stessa relatività soggettiva o della sua portata veritativa. 
Come si è visto, su questa base Jacobi cerca poi di elaborare una de- 
duzione delle categorie, intendendole precisamente come le determi- 
nazioni necessarie della sostanza finita 76 '. Ma l’essere sostanziale e le 
altre categorie emergono specialmente nell’individuo vivente. Di qui 
l’importanza “trascendentale” del riferimento all’individualità del- 
l’io. Il lato positivo del potere di idealizzazione della ragione emerge 
invece, per lui, nella linea dell’intenzionalità pratica: l’uomo è capace 
di concepire valori assoluti: il bene, il bello, Dio. Ma ancora — lo ve- 
dremo meglio più avanti — , secondo il filosofo tedesco, tali valori 
non si comprendono se non in relazione alla stessa realtà persona- 
le 368 . In ogni caso, la richiesta di verità coincide, per Jacobi, con la ri- 
chiesta di comprensione dell’esistente. 

Si potrebbe sollevare, infine, una difficoltà interna alla stessa ope- 
ra di Jacobi circa la sua concezione dell’autocoscienza. Infatti, que- 
sta, che, per l’aspetto esistenziale ed operativo del suo contenuto, ab- 
biamo visto ora attribuita al sentimento, è altrove attribuita, invece, 
all’intelletto, ossia a quella funzione che il filosofo caratterizza in ter- 
mini opposti all’immediatezza del primo, come la funzione specifica 
dell’astrazione e della mediazione. È, infatti, tramite una continua at- 
tiva connessione delle sue esperienze che l’uomo, come qualunque 
altro essere vivente, può garantire la propria integrità. Per questo, 
l’autore aggiunge: la realtà del concetto (e del linguaggio) è di vitale 
interesse per l’uomo, che ha sempre da confrontarsi con il divenire e 
con la contingenza della natura 366 . 

A tale difficoltà si potrebbe rispondere nel senso indicato, collo- 
cando più esattamente la funzione specifica assegnata da Jacobi al 
sentimento per la basilare individuazione dell’io, che è il presuppo- 
sto necessario e relativamente indipendente per la sua più concreta 


367 Cfr. supra , capitolo 2, § 5. 

368 Cfr. infra , capitolo 7, § 2. 

365 Cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 249; Corrispondenza di Attivili, W 6/1, 229- 
230. 



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ó.Teoria della persona 


determinazione sul piano empirico (biografico) e concettuale 3 ' 0 . 
Quest’ultima dipenderebbe, dunque, dall’opera mediatrice dell’intel- 
letto. 

Ad 2. Individuo e intersoggettività 

Questo è forse uno dei punti in cui può risaltare meglio il realismo di 
Jacobi. L’individualità reale non è per lui una funzione della totalità, 
che è invece un concetto derivato da quella ed è altrimenti privo di 
un reale significato. Non è dunque possibile concepire l’individuo 
come prodotto della relazione logica di esclusione rispetto ad un al- 
tro individuo o alla somma completa degli individui. Il soggetto reale 
di cui si predica 1’ “essere individuo” si manifesta invece da se stesso. 
Le relazioni di identità e differenza, che sono richieste per la deter- 
minazione della sua individualità sul piano logico ed empirico, sono, 
invece, derivate. L’identità esprime l’unità reale tramite una relazio- 
ne riflessiva o negativa, che è alla base del concetto di individualità, 
ma non la costituisce 3 ' 1 . Potremmo notare, l’uso del deittico 
“questo” implica sì una descrizione comparativa, ma per la fissazione 
del suo riferimento è necessario che l’effettiva realtà del suo termine 
sia percepibile direttamente in se stessa, magari sotto altre note più 
generiche (“che cos’è questo essere, questo animale, etc.?”). Il limite 
superiore di ogni attribuzione, come si è visto, è, per Jacobi, l’esi- 
stenza di un determinato soggetto, di una sostanza, che solo si può 
sentire o indicare. L’esistenza dell’io si apprende, perciò, in maniera 
immediata nella sua individualità, tramite una funzione non oggetti- 


3.0 Si potrebbe al proposito richiamare la distinzione, già kantiana, tra autocoscien- 
za e autoconoscenza: la prima corrisponde all’esistenza dell’io, la seconda alla sua 
determinazione empirica o concettuale. Sulla trattazione kantiana dell’esistenza del- 
l’io: cfr. supra , capitolo 2 e capitolo 3, § 1. 

3.1 Cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 130 in nota: «l’identità in senso puro è un 
concetto affatto soggettivo. All’oggetto fuori dell’intelletto non può convenire il pre- 
dicato aggettivo lo stesso, ma esso è sostantivamente solo quello che è» (trad. it., p. 
147, in nota). La coscienza corrisponde per Jacobi alla vita, perciò la distinzione del- 
la soggettività è anzitutto reale piuttosto che logica, ed è conseguente alla sua inter- 
na unità. In tal senso interpreteremmo il passo seguente, che altrimenti smentirebbe 
la tesi interpretativa che stiamo sostenendo: «per giungere alla scienza della nostra 
coscienza, cioè al sentimento di noi stessi, non abbiamo altra via che quella di distin- 
guerci da qualcosa fuori di noi. Questo qualcosa è poi un’infinità molteplice in cui 
siamo inclusi noi stessi» (David Hume, W 2/1, 85-86; trad. it., pp. 140-141). 



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211 


va (non rappresentativa o concettuale), com’è il sentimento 3 ' 2 . Inol- 
tre, Tinterna consistenza dell’unità reale è concepita dal filosofo, al 
seguito di Leibniz, in termini schiettamente operativi, nell’agire vita- 
le e nell’esercizio della libertà; e questi, da un lato, sono originari per 
definizione, d’altra parte, non sono oggettivabili senza contraddizio- 
ne 3 ' 3 . 

Tuttavia, com’è possibile render conto in questi termini di ciò che 
Jacobi dice di se stesso nella lettera che abbiamo commentato: «Io, 
Fr. Heinr. Jacobi mi conosco come tale, senza alcun contrassegno»; 
che cosa significa qui come tale ? Se questo significa Fr. Heinr. Jaco- 
bi, questo implica un mondo di determinazioni: una storia personale, 
familiare; un ruolo sociale, culturale; un contesto di motivazioni, di 
interlocutori, etc. presente al momento di pronunciare queste parole. 
Ancora, è lo stesso Jacobi a sostenere la situazionalità originaria della 
coscienza umana in relazione al mondo, agli altri, a Dio. Ciò che egli 
ha, perciò, contestato nel modo più reciso è la possibilità di un’ap- 
prensione a priori dell’io, poiché quest’io non potrebbe avere mai un 
concreto referente; non significherebbe, cioè, un io vivente ma un 
concetto. L’individuo vivente implica, invece, l’agire come sua deter- 
minazione costitutiva, e l’agire, almeno l’agire che contraddistingue 
la vita umana, implica la relazione di co-determinazione di sponta- 
neità e passività, di interno ed esterno, del sé e dell’altro. 

A tale proposito, si potrebbe rispondere evidenziando il carattere 
immediato e realistico della relazione tra l’io e il mondo, secondo Ja- 

372 Cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 105 in nota. Si potrebbe confrontare una tale 
impostazione con la nozione heideggeriana di Befindlichkeit e la rilevanza conferita 
da Wittgenstein al dolore per l’individuazione dell’io (cfr. Io., The Blue and Brown 
Books ; Thilosophische Untersuchungen) . Ulteriori corrispondenze si possono trovare 
in A. Millàn Puelles (Io., La estructura de la subjetividad, Rialp, Madrid 1967). Per 
un ampio quadro storico sull’apprensione dell’io nella filosofia moderna e contem- 
poranea: cfr. M. Di Francesco, L’io e i suoi sé. Identità personale e scienza della men- 
te, Cortina, Milano 1998. 

373 Cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 163-164: «XXVII. La cognizione di ciò che 
media l’esistenza delle cose, si chiama cognizione chiara; e ciò che non ammette me- 
diazione non può esser da noi conosciuto chiaramente. XXVIII. L’attività sponta- 
nea e assoluta esclude la mediazione, ed è impossibile che noi conosciamo chiara- 
mente in qualche modo l’interno di essa. XXIX. Non può dunque essere conosciuta 
la possibilità dell’attività spontanea assoluta, ma bensì la sua realtà, che si manifesta 
immediatamente nella coscienza e mediante il fatto hWirklichkeit, ivelche unmittel- 
bar im Bewujksein darstellt, und durch die Tat beweist)» (trad. it., p. 52). 



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ó.Teoria della persona 


cobi. L’apprensione dell’esistenza dell’io implica quella del mondo, 
non già per una mediazione analitica o causale (la realtà dell’io impli- 
ca la realtà del mondo), ma in maniera diretta 3 ' 4 . La realtà dell’io è, 
dunque, sì data nella sua relazione con il mondo, ma il suo essere 
proprio, da cui discende la possibilità di quella relazione, si rivela, 
come l’essere del mondo, da se stesso. È, inoltre, il suo essere spiri- 
tuale ad esigere tale forma di assolutezza. Più precisamente, il vivere 
e la libertà sono date nella originarietà del loro atto e nella loro ina- 
lienabile appartenenza ad un determinato soggetto, pur se questi 
comportano, in virtù del loro senso e nel loro concreto esercizio, un 
complesso di relazioni causali ed intenzionali" 5 . Così pure, l’operare 
della persona come spirito avviene nel tempo e in un determinato 
contesto causale, ma procede da un principio che è per natura sem- 
plice ed extra-temporale 3 ' 6 . La mediazione intersoggettiva non ha 
dunque, per Jacobi, diversamente da Fichte, un valore originaria- 
mente costitutivo sul piano ontologico, pur se l’essere dell’io, come 
la sua libertà, non si attua né si comprende altrimenti che attraverso 
di essa; particolarmente, nel libero e reciproco apprezzamento che 
matura nelle relazioni di amicizia"'. 

Un ulteriore chiarimento potrebbe venire infine da una distinzio- 
ne introdotta da Jacobi tra il livello basilare dell’attestazione dell’esi- 
stenza dell’io, nel sentimento, e il livello della percezione. Quest 'ulti- 
ma, corrisponderebbe alla comprensione dell’io, ovvero all’interpre- 


374 Cfr. David Hume, W 2/1, 38. Anche Fichte assume il principio jacobiano 
“com’è vero che io vivo e sono, questa cosa — o quella — è”, ma lo interpreta in 
maniera diversa poiché identifica l’io con la ragione: perciò lo intende come una sor- 
ta di argomentazione, vale a dire, come una giustificazione riflessiva del fatto di co- 
scienza. Cfr. Grundlage des Naturrechts , GA 1/3, 315. 

375 Cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 163-164. 

376 Cfr. Su di una profezia di Lichtenberg. W 3, 27 in nota. 

3 " Cfr. Woldemar, W 7/1, 234, 447; Sulle cose divine, W 3, 49 e ss. Nel caso di 
Dio, i due aspetti vengono, però, a coincidere. L’atteggiamento verso Dio tocca in- 
fatti l’origine alla luce del quale l’io comprende integralmente se stesso e il mondo. 
Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 220; Su di una profezia di Lichtenberg, W 3, 10. Per la 
concezione jacobiana dell’intersoggettività, con particolare riferimento al Woldemar. 
cfr. S. Iovino, Radice della virtù. Saggio sul “Woldemar” di F. H. Jacobi, Città del 
Sole, Napoli 1999. Sulla deduzione dell’intersoggettività in Fichte: cfr. R. Lauth, Le 
problème de l’interpersonnalité chez J. G. Fichte, «Archives de Philosophie» 25 
(1962), pp. 235-344. Per un più ampio confronto: cfr. M. Ivaldo, Libertà e moralità. 
A partire da Kant, Il prato, Saonara (Pd) 2009, pp. 161-226. 



ó.Teoria della persona 


213 


tazione del suo essere, la quale, diversamente dall’attestazione nel 
sentimento, richiede di ripercorrere, seppur non in forma argomen- 
tativa, il complesso articolato delle relazioni entro le quali l’io stesso 
è inscritto e che sole danno senso al suo essere 778 . «La certezza imme- 
diata che lo spirito ha di se stesso, è inseparabile dalla personalità, 
dalla sostanzialità. Ma lo spirito dell’uomo, che ha la certezza di se 
stesso, è una vocale che ha bisogno della natura e di Dio per conso- 
nanti, e solo così può dare un’espressione alla propria esistenza»’' 9 . 

Lo stesso fenomeno del linguaggio manifesta, per Jacobi, la costi- 
tuzione relazionale della coscienza, quale sua più concreta determi- 
nazione e quale ulteriore indizio della sua finitezza. Tale concezione 
discende dalla sua stessa concezione creazionistica, mediata dalla pe- 
culiare concezione di Hamann, per cui il cosmo stesso è inteso come 
una sorta di linguaggio e la conoscenza umana è intesa globalmente 
come risposta ovvero come tentativo d’interpretazione di tale origi- 
naria interlocuzione 380 . Ma è anche tale medesima concezione crea- 
zionistica a dettare ciò che, interpretando, si potrebbe chiamare la 
radicale “solitudine” dell’io, poiché l’io è davvero dato a se stesso, 
nella singolarità del suo essere. E nondimeno, lo stesso essere dell’io 
non si comprende, poi, se non in quanto destinatario di una chiama- 
ta all’essere, che è la prima, originaria interlocuzione. Ancora, la stes- 
sa concezione della libertà che determina, secondo Jacobi, la conce- 
zione della sostanzialità dell’io, porta a scorgerne sul piano morale e 
religioso, in cui quella interlocuzione finalmente si compie, la costi- 
tutiva relazionalità. 

Ad 3. Sentimento e persona 

L’obiezione evidenzia una difficoltà d’ordine gnoseologico non an- 
cora risolta nei punti precedenti: se ogni caratterizzazione è concet- 
tuale, mentre ciò che sta al loro fondamento, in quanto individuale, è 
accessibile solo al sentimento, la realtà attestata dal sentimento, poi- 
ché è priva di ogni connotazione, non può rappresentare alcun indi- 
viduo concreto né può rappresentare in alcun modo l’essere perso- 

378 Cfr. Sulle cose divine , W 3, 4L 

379 Su di una profezia di Lichtenberg , W 3, 27. 

380 Cfr. ibidem , 14. Per un ampio approfondimento di questo punto: cfr. M. M. 
Olivetti, L’esito teologico della filosofia del linguaggio di] acobi, cit. 



214 


ó.Teoria della persona 


naie. In tal senso, la sostanzialità dell’io appare come alcunché di 
oscuro e indeterminato. E infatti, lo stesso Jacobi afferma che il sen- 
timento dell’identità è “imperscrutabile”. 

A tale obiezione si potrebbe rispondere richiamando l’ampiezza 
di applicazione e la ricchezza di sfumature che Jacobi riconosce al 
sentimento. Esso è, infatti, assegnato dal filosofo alla ricezione del- 
l’essere nella sua valenza esistenziale. Mentre la copula del giudizio è 
di per sé neutrale nei confronti della realtà dei termini ch’essa mette 
in relazione, che potrebbero rappresentare infatti delle realtà imma- 
ginarie, l’interpretazione della valenza ontologica della copula de- 
v’essere messa in conto di una funzione intuitiva, capace di rilevare 
la portata ontologica del soggetto e della stessa predicazione’ 81 . Ora, 
da un lato, tale funzione dovrebbe essere in grado di corrispondere 
all’individua esistenza, ch’è il limite e il presupposto di ogni com- 
prensione universale. D’altro lato, tale medesima funzione dovrebbe 
anche cogliere la concreta inerenza delle attribuzioni universali. 

A tale proposito, la filosofia di Jacobi non sembra fornire suffi- 
cienti chiarimenti, poiché, al di là dell’esigenza espressa nell’opera 
più tarda di una sintesi tra le opposte dimensioni del sapere, ciò sem- 
bra richiedere una teoria della conoscenza astrattiva che ne superi il 
carattere negativo, che ne garantisca, perciò, il carattere intenzionale 
e che, dunque, consenta una positiva integrazione di individualità e 
universalità, di sentimento e concetto, nell’unità del giudizio’ 82 . Que- 
st’ultima risulta altresì importante per l’integrazione dei due concetti 
di autocoscienza che abbiamo sopra individuato 38 ’. Nella sua critica 
dell’idealismo, Jacobi associa, invece, strettamente l’astrazione alla 
costruzione, rischiando così di identificare in maniera univoca la re- 
lativa soggettività del concetto e la sua dimensione ideale, con l’am- 
bigua realtà dell’“ente di ragione”. A tale riguardo, sembra anche ri- 


381 Cfr. Introduzione generale , W 2/1, 424. 

382 M.M. Cottier nota a tale proposito che Jacobi fa uso soltanto del! astrazione ge- 
neralizzante (abstractio totalis), ma non dell’astrazione dell’essenza. Cfr. Id., Foi et 
surnaturel chez Jacobi, cit. La teoria tomistica della cogitativa avanza una soluzione 
pertinente (seppure sia ancora troppo generica e limitata, rispetto alla questione 
particolare che stiamo esaminando), poiché l’astrazione, se deve avere un valore on- 
tologico, richiede una funzione mediatrice tra l’intelletto e la sensibilità. Cfr. C. 
Fabro, Percezione e pensiero, Sei, Torino 1961. 

383 Cfr. supra, ad 1. 



ó.Teoria della persona 


215 


levante la cesura, che abbiamo già notato nell’antropologia di Jacobi, 
tra gli spunti integrativi presenti nel David Hume, in diretto riferi- 
mento alla dottrina aristotelico-leibniziana dell’anima, e lo sviluppo 
successivo di una filosofia dello spirito, d’impronta piuttosto platoni- 
co-kantiana’’’ 4 . L’individuazione corporea della persona, chiaramente 
rilevata nel primo, risulta come in secondo piano nel secondo, in cui 
emerge piuttosto la trascendenza della vita morale sulla sensibilità. 

Tuttavia, per il filosofo di Dusseldorf il riferimento al sentimento 
non è già indicativo di una restrizione del suo contenuto. L’immedia- 
tezza del sentimento non corrisponde alla povertà di determinazioni 
del suo oggetto, ma alla modalità originaria del loro presentarsi alla 
coscienza; precisamente, alla connotazione esistenziale con cui esse si 
presentano, dando garanzia della propria realtà. Tra gli aspetti più ri- 
levanti con cui Jacobi connota il sentimento a tale riguardo, oltre al- 
l’apprensione immediata di un tutto qualificato, intrinsecamente uni- 
tario, qual’è l’individuo vivente, è, negativamente, l’impossibilità di 
rappresentare il movimento che caratterizza l’essere del vivente, sen- 
za contraddirlo o senza doverlo empiricamente presupporre 385 . 

In sintesi, il sentimento corrisponde al manifestarsi della realtà in 
se o da se stessa. In tal senso, il filosofo assegna al sentimento non già 
soltanto la prima presentazione dell’esistente nelle sue dimensioni 
fondamentali (l’io, il mondo, gli altri), ma la prima avvertenza degli 
atti e degli oggetti che costituiscono più profondamente la vita per- 
sonale: la libertà, il bene, il bello, l’esistenza di Dio. Ma le difficoltà 
contenute in questo punto sono quanto dobbiamo affrontare adesso 
sotto il più ampio titolo della teoria della ragione. 


384 Cfr. supra, capitolo 4, § 4. 

385 Cfr. Sull’impresa del criticismo , W 2/1, 316-319. Si noti che questa osservazione 
sulla rappresentabilità del movimento è ripresa da Kierkegaard nelle Briciole di filo- 
sofia, attraverso Trendelenburg, rivolgendola nei confronti di Hegel. 



216 



7. Teoria della ragione 


La coscienza è una funzione inerente alla vita, che ne riproduce l’or- 
dine e il movimento. La vita si genera in certo modo da sé: si orga- 
nizza e segue spontaneamente le vie che la conducono alla sua piena 
realizzazione. L’esistenza si certifica in tal maniera, come dall’inter- 
no: non già attraverso la posizione assoluta del soggetto o dell’ogget- 
to, ma attraverso la relazione operativa del soggetto all’oggetto. Il 
dato originario del sapere umano è tale complesso dinamico: l’io nel 
mondo in rapporto con altri. La libertà e l’ordine morale, che sostan- 
ziano tale rapporto, fanno poi presente l’orizzonte trascendentale del 
bene che ha in Dio il suo fondamento. 

Questa impostazione sottintende alcune linee guida della filosofia 
di Jacobi. La vita precede il pensiero, offrendogli tutti il suo conte- 
nuto. Il pensiero può determinare alcuni aspetti di tale contenuto: 
quelli che, avendone colto distintamente la forma, esso può eviden- 
ziare in un concetto o che può certificare attraverso una dimostrazio- 
ne. Questa è la via seguita dal pensiero scientifico in generale. In al- 
tro modo, il pensiero che segue il richiamo classico della “sapienza” 
{sofia) può permanere su questo piano di fondo, ritenendone l’intero 
aspetto, anche per quanto di esso non si offre ad una spiegazione 
soddisfacente. Ad esempio, la libertà umana si presenta immediata- 
mente alla coscienza, appena questa si rivolge all’interno e alla chiara 
visione della realtà umana. Nondimeno, la libertà è il titolo di una se- 
rie di problemi speculativi, la cui difficoltà fanno dubitare di quella 
prima evidenza (in che modo la libertà umana può comporsi con il 
vincolo della materia o con la soggezione ad un principio divino? 
etc.). Il pensiero scientifico sarà così portato a negare o a revocare in 
ipotesi il dato universale della coscienza. L’indirizzo della filosofia, 
secondo Jacobi, è di insistere in quel dato, avendone già scorto, al di 
là del suo mero fatto e prima di ogni sua possibile spiegazione, il si- 
gnificato e il valore (come il valore costitutivo della libertà umana 



218 


7. Teoria della ragione 


per il soggetto, ed il senso della sua connessione con la natura e con 
Dio). Il primo approccio, quello “scientifico”, è motivato dall’esigen- 
za di ricondurre il dato alla sua necessità, nell’ordine epistemico e 
causale. Il secondo approccio, quello seguito dal filosofo di Dussel- 
dorf, è guidato dall’esigenza di penetrare il significato del dato, ossia 
la sua funzione finalistica nel tutto cui lo stesso soggetto appartiene; 
si direbbe un’esigenza di carattere ermeneutico. 

Più chiaramente, Jacobi ritiene la vita umana nell’attualità del suo 
dispiegamento come un’istanza fondante. Essa implica la certezza in- 
torno ai termini cui essa è naturalmente legata, l’esistenza del mon- 
do, degli altri e di Dio. Il vincolo tra tali elementi è infatti strutturale: 
l’io non può altrimenti comprendersi che in rapporto ad essi. Tale 
struttura configura, del resto, l’ordine morale, che è il contenuto del- 
la libertà. A tale proposito, Jacobi si richiama all’etica di Kant (si ri- 
cordi la dottrina delle idee trascendentali e dei postulati pratici), che 
pure contesta su di un punto decisivo nel quale consiste, come pare, 
il fuoco della sua indagine: la portata ontologica della coscienza. Per 
il filosofo di Dusseldorf, la coscienza morale è vincolata all’autoco- 
scienza; quest’ultima ha però un contenuto reale o esistenziale: l’io 
non è il rappresentante della ragione ma di una persona. Il senso del- 
la moralità è conseguentemente congiunto alla comprensione dell’e- 
sistente. Il moralismo trascendentale di Kant, poiché elude tale istan- 
za, è invece esposto al nichilismo. 

«A che cosa tende realmente l’anima umana, nello spingersi verso la virtù? 

(...) Pure ombre! Figure inconsistenti, ingannevoli!... Copie? Si, ma dov’è il 
modello originario? Se questo fosse stato imperscrutabile, come avrebbe po- 
tuto mai l’intuito del bene (die Einsicht des Guten ) acquistare certezza? 
Come avrebbe potuto la volontà buona conoscere e comprendere se stessa, e 
trasformarsi in un costante, immutabile volere? O era forse, questo volere, 
piuttosto solo l’effetto immediato di un essere personale, consapevole di sé, 
connesso a concetti e immagini universali? L’effetto dell’istinto di autocon- 
servazione, essenziale a ogni natura, nella sua forma puramente razionale? 
(Trieb der Selbsterhaltung in rein vernùnftiger Gestalt)»™ . 


386 Woldemar, W 7/1, 269; trad. it., p. 124. 11 passo è ripreso nella Lettera a Fichte 
ed illustra un punto centrale della critica qui svolta alla dottrina morale di Kant. Cfr. 
ivi, W 2/1, 255-257 , 210-214; Sull’impresa del criticismo, W 2/1, 322 e ss.; Introdu- 
zione generale, W 2/1, 395. Per un avvicinamento a Kant sul primato della ragion 
pratica: cfr. Sulle cose divine, W 3, 130; La dottrina di Spinoza, W 1/1, 342, 347. 



7. Teoria della ragione 


219 


Se la volontà non è legata ad altro che alla forma razionale della 
soggettività (la personalità), rifiutato ogni orientamento trascenden- 
te, la moralità espressa nel principio di autonomia non avrà infine un 
significato diverso, seppure trasfigurato, della tensione interna ad 
ogni essere alla propria autoaffermazione. Ma tale esito vanifica ogni 
reale motivazione finalistica dell’agire. Del resto, tale impostazione 
per il suo formalismo elide il suo stesso presupposto, l’esistenza della 
persona. Confermata in tal modo, come per absurdum , l’intenzionali- 
tà della coscienza morale, in che modo si deve comprenderne più 
precisamente il contenuto e lo statuto epistemico? Riprendiamo l’im- 
postazione dell’autore, cui abbiamo accennato, ch’è anche quella con 
cui dall’inizio egli ha affrontato l’ambiente filosofico che lo circonda- 
va. 

L’esistenza dell’io, del mondo, degli altri, di Dio non è oggetto di 
dimostrazione. Infatti, la stessa struttura della dimostrazione annulla 
o modifica questi dati iniziali (per ipotesi, già noti altrimenti), come 
confermano i sistemi di Spinoza e dell’idealismo trascendentale. In 
generale, l’esistenza non è dimostrabile; essa, cioè, non è assimilabile 
dal pensiero secondo l’esigenza estrema della necessità, se non a co- 
sto di una riduzione formale. Quest’ultima o presuppone sempre, ma 
estrinsecamente, la propria materia — è il caso di Kant — , oppure 
riconduce integralmente la materia alla stessa forma del pensiero — 
è il caso dello spinozismo idealistico di Fichte. 

Nondimeno, l’esistenza è accessibile in maniera immediata, alme- 
no nel modo in cui è direttamente accessibile la realtà vivente dell’io. 
Ma — ecco la tesi — , l’individuazione dell’io implica in certo modo 
l’intero circuito di rapporti in cui la sua realtà si manifesta: “Senza il 
tu non c’è l’io”, laddove il “tu” significa le istanze maggiori dell’alte- 
rità: il mondo, gli altri, Dio. “L’uomo trova Dio perché egli può tro- 
vare se stesso soltanto insieme con Dio”. Il secondo assunto è come 
un’estensione del realismo e del principio di intersoggettività dichia- 
rati nel primo 387 . 


387 L’esplicitazione dei presupposti oggettivi inerenti al cogito è variamente applica- 
ta da Jacobi secondo la formula: “come è vero che io sono e vivo, così è vero che esi- 
ste x”; anzitutto contestando il postulato cartesiano sull’esclusiva immediatezza del- 
l’io: cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 116, 157; David Hume, W 2/1, 37-38; Sidle 
cose divine, W 3, 49. 



220 


7. Teoria della ragione 


La nozione di esistenza è così semanticamente qualificata, poiché 
si riferisce primariamente ad una realtà vivente e spirituale qual è 
l’io 388 . L’esistenza ha cioè una struttura intenzionale che corrisponde 
alle disposizioni e all’effettiva operatività dell’io. Si potrebbe chiede- 
re, ma non è questo precisamente il motivo per cui Kant e poi Fichte 
fanno corrispondere alla coscienza morale il senso dell’esistenza? 
Inoltre, Kant e Fichte, pur criticando l’ingenuità del realismo di Ja- 
cobi, approvano il primo assunto citato (il realismo dell’intersogget- 
tività), mentre lo stesso Fichte ed Hegel accettano il secondo (il vin- 
colo tra l’io e l’assoluto), pur radicalizzandolo in un senso immanen- 
tistico 389 . 

Potremmo osservare, certamente il senso della moralità corri- 
sponde alla forma più comprensiva della coscienza. Essa attinge l’esi- 
stente nella sua determinazione più profonda, il bene, ed include il 
complesso delle relazioni nel quale il soggetto riconosce se stesso. Il 
senso della personalità è legato ad essa. Il punto è se la coscienza mo- 
rale, nell’“intuito del bene”, sottintende altresì un’autentica cogni- 
zione dell’essere. Ora, Jacobi contesta la definizione postulatoria as- 
segnata da Kant alle “idee della ragione”: la libertà, l’immortalità 
dell’anima, l’esistenza di Dio; oltre alla relatività soggettiva attribuita 
all’esistenza del mondo. D’altra parte, come abbiamo visto dianzi, 
egli critica l’assimilazione panteistica dell’esistente all’essere assoluto, 
poiché questa annulla lo stesso contenuto delle idee 390 . 

Nondimeno, la posizione di Jacobi è risultata ambigua: da un 
lato, egli ha approvato le conclusioni negative della Dialettica tra- 
scendentale, rigettando perciò l’estensione della ragione teoretica 
nell’ambito della metafisica; d’altro lato, egli ha rifiutato la riduzione 
soggettivistica di quest’ambito, appunto sotto il titolo dei postulati 

388 II filosofo rigetta infatti l’esclusiva connotazione modale o accidentale dell’esi- 
stenza, propria del razionalismo scolastico, come complementum possibilitatis-, cfr. 
Introduzione generale , W 2/1, 405, 422. 

385 Jacobi ritiene che la Confutazione dell’idealismo nella seconda edizione della 
Critica della ragion pura sia ispirata alla propria dottrina dell’intersoggettività: cfr. 
Introduzione generale , W 2/1, 393. In questo stesso luogo, egli contesta la coerenza 
della sintesi di Fichte tra l’idealismo della ragione teoretica e il realismo della ragion 
pratica. Bisogna però osservare che l’intersoggettività emerge in Kant piuttosto nella 
sua dottrina morale e nella sua dottrina della religione, particolarmente nel concetto 
ideale delle relazioni umane come “regno dei fini”. 

390 Cfr. supra, capitolo 5, § 1.4. 



7. Teoria della ragione 


221 


della ragion pratica. Più precisamente, egli ha rifiutato la concezione 
kantiana della “fede razionale”, poiché questa non adeguerebbe l’esi- 
genza di verità che è inscritta nei suoi stessi argomenti. Anche per 
Kant l’essere umano capitolerebbe se non fosse sostenuto dalle idee 
della ragione. Tuttavia, al presente il filosofo trascendentale può so- 
stenere senza esitazione l’universale condizione di fenomenalità, ac- 
contentandosi del riflesso di quelle idee nelle implicazioni dell’obbli- 
gazione morale. Il riferimento alla trascendenza, oggetto della fede 
razionale, non avrebbe per lui il significato del fondamento, ossia 
della garanzia attuale dell’essere e dell’agire, ma sarebbe un’inferen- 
za di valore ipotetico sul futuro, dal quale pur dipende in certo 
modo, ma indirettamente, l’orientamento della prassi. 

Jacobi è rimasto, invece, sconcertato dalla sottrazione dell’essere 
operata dal fenomenismo, e, come abbiamo letto nel passo sopra ri- 
portato, egli ha intuito l’assurdo esistenziale dietro il principio di au- 
tonomia. La realtà delle idee della ragione ha perciò per lui diretta 
incidenza sulla consistenza ontologica dell’io e nella stessa determi- 
nazione del senso della moralità 311 . Come la sua critica all’esigenziali- 
smo di Kant, così la sua relativa concessione al primato della ragion 
pratica ha una sostanza teoretica. 

Tale conclusione ci conduce ad esaminare la teoria della ragione 
di Jacobi nel complesso dei suoi aspetti e delle sue implicazioni (cfr. 
infra, §§ 1-3), avendo altresì come obiettivo il diradare la complessità 
dell’atteggiamento di Jacobi nei confronti di Kant, specialmente in- 
torno allo statuto della metafisica (§4). 

1. Ragione, filosofia e “fede” 

Nell’ultima sintesi svolta nell ’ Introduzione generale, Jacobi dà conto 
di ciò che egli sembra considerare il suo maggiore e definitivo acqui- 
sto nel processo di chiarificazione del proprio pensiero: l’esistenza di 
due forme differenti, anzi opposte di conoscenza, l’intelletto e la ra- 
gione’ 92 . In tal senso andava inteso il concetto di “fede” che tanto 

391 II riferimento alla trascendenza avrebbe in Kant ultimamente e suo malgrado un 
significato utilitaristico, poiché, per il suo aspetto formalistico e per la sua funzione 
di garanzia, verrebbe a sanzionare la stessa materia dell’agire e della felicità che è 
empiricamente determinata. Cfr. Sull’impresa del criticismo , W 2/1, 328. 

392 Cfr. Introduzione generale , W 2/1, 'òli e ss. 



222 


7. Teoria della ragione 


aveva scandalizzato i lettori de La dottrina di Spinoza : come un’istan- 
za razionale intuitiva, sovraordinata rispetto alla funzione analitica 
operante nel sapere scientifico. Ma né nel David Hume né nelle ope- 
re successive egli sarebbe ancora riuscito a far accogliere il proprio 
contributo nella comune causa del razionalismo 39 ’. Del resto, tale 
pretesa appare discordante con il tono piuttosto polemico che il filo- 
sofo è solito riservare alla filosofia del secolo. La sua consapevolezza 
degli assunti e degli ultimi esiti dell’età cartesiana risulta, in effetti, 
stupefacente e, certo, tra le più lucide ed esatte 394 . Nondimeno, egli 
intende ora il razionalismo in quel senso ideale generico, che rappre- 
senta la sua istanza antropologica di fondo: la chiara affermazione 
dell’essenza razionale dell’uomo e della sua elevazione sulla natura; 
perciò, del vincolo dell’uomo con il vero intelligibile e con l’eterno. 
Invece, una concezione ristretta della ragione, quella scientifica o il- 
luministica, porta l’uomo a fraintendere se stesso naturalisticamente 
e a ridurre progressivamente il significato della verità, per cui il pro- 
gramma del razionalismo, infine, si capovolge’ 9 ’. 

Ma è precetto del metodo di Jacobi di descrivere l’animo umano 
nella sua completezza. Egli non vuole, perciò, essere partigiano della 
ragione a scapito dell’intelletto o della scienza, nel momento in cui 
ne ha evidenziato nettamente le differenze. Un tale proposito di fe- 
deltà al dato ammette sin dall’inizio l’eventualità di non riuscire a ri- 
comporre le parti in un’immagine coerente’ 96 . Pure, il filosofo rico- 
nobbe di dover mostrare soprattutto con evidenza ciò per cui l’uomo 
è davvero tale, ovvero quella concreta determinazione della ragione, 


393 Cfr. ibidem, 379. 

394 Alla diagnosi di Jacobi si potrebbe avvicinare, sotto questo aspetto, quella di 
Martin Heidegger: cfr. H.J. Gawoll, Nihilismus und Metaphysik. Entwicklungsge- 
schichtliche XJntersuchungen vom deutschen Idealismus bis zu Heidegger, Frommann- 
Holzboog, Stuttgart-Bad Canstatt 1989. 

395 Cfr. Einige Betrachtungen tiber den frommen Betrug und iiber eine Vernunft, 
welche nicht die Vernunft ist, W 5/1. 

396 Ad esempio, ci si potrebbe chiedere in quale misura la tesi e la critica espressa 
nel brano seguente si possano rispettivamente verificare ed applicare nell’opera di 
Jacobi: «rintelletto filosofa soltanto muovendosi tra la percezione sensibile e sopra- 
sensibile, collegandosi in ugual misura ad entrambe. Ignorando tale duplice rappor- 
to, e confidando esclusivamente nel soprasensibile, alcuni si sono esaltati nel calun- 
niare Tintelletto quasi fosse applicabile esclusivamente al sensibile, al mondo dell’e- 
sperienza» ( Sulle cose divine, W 3, 123; trad. it, p. 146). 



7. Teoria della ragione 


223 


“lo spirito” (der Geist ), senza di cui essa non è distinguibile da una 
funzione animale, se non come una sua più avanzata trasformazione. 

L’intelletto corrisponderebbe alla vita nell’ordine sensibile, alla 
natura, cui l’uomo pur sempre appartiene. Infatti, esso esplicita sul 
piano logico quelle relazioni di identità e necessità che la costituisco- 
no intimamente 39 '. La sfera dell’intelletto sembra, anzi, ricavata da 
Jacobi per negazione, dall’evidente importanza di quanto esso trala- 
scia perché non è riducibile ad una verifica empirica o a una dimo- 
strazione rigorosa. Il piano sul quale il filosofo si colloca è, dunque, 
quel sistema di idee che corrisponde al normale dispiegamento in- 
tenzionale della coscienza, che naturalmente sopravanza il piano sen- 
sibile. Tra queste la prima è, come per Kant, l’idea dell’incondiziona- 
to. Questa viene presto a perdere i caratteri astratti di un’idea limite, 
appena il filosofo ne determina meglio il contenuto, identificandolo 
con un bene assoluto, con una vita e libertà sussistenti, infine con un 
Dio creatore e provvidente, da cui dipende la garanzia della verità e 
l’auto-comprensione dello stesso soggetto, come persona 398 . Ma si è 
così, davvero, usciti dalla coscienza per attingere una realtà al di là di 
essa, come il realismo di Jacobi pretende? Quale differenza intercede 
tra un postulato della ragion pratica ed un’affermazione di esistenza? 


397 Cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 159 e ss, 258-259; Lettera a Fichte, W 2/2, 
212, 214; Introduzione generale, W 2/1, 403. 

398 Secondo Jacobi, l’idea dell’incondizionato è ontologicamente ambigua e la sua 
validità è indecisa, finché non ne sia esplicitato il reale significato: «La presupposi- 
zione di un incondizionato, di un tutto indeterminato, e la presupposizione di Dio 
non sono affatto una cosa sola, e noi non giungiamo affatto per la stessa via all’uno o 
all’altro» (La dottrina di Spinoza, W 1/1, 346; trad. it., p. 23). La determinazione in- 
tensionale dell’incondizionato non è dunque estrinseca rispetto alla sua struttura lo- 
gica. Il che, a nostro avviso, dovrebbe lumeggiare il confronto con gli autori che 
hanno tratto ispirazione da Jacobi a tale riguardo, come Schelling e Hòlderlin: cfr. 
D. Henrich, Grundlegung aus dem Ich, Suhrkamp, Bd. 2, Frankfurt 2004, p. 1462. 
Come vedremo, per il Nostro, ci si può sollevare all’incondizionato sostanziale, Dio, 
solo tramite quanto è analogamente qualificato nel finito, la realtà della persona e 
della libertà. Cfr. La dottrina di Spinoza, 260-265; Corrispondenza di Allwill, W 6/1, 
231, 233, 239; Introduzione generale, W 2/1, 412. Cfr. D. Fetzer, Jacobis Fhilosophie 
des Unbedingten, Schòningh, Paderborn 2007. Lo studioso nota in Jacobi una lacu- 
nosa esplicitazione del concetto di incondizionato, osservando, se abbiamo ben inte- 
so, il necessario vincolo con l’intelletto che discende dalla sua connotazione negati- 
va. Fetzer, nel trarre tale conclusione, non sembra però apprezzare abbastanza le 
motivazioni ontologiche della jacobiana delimitazione dell’intelletto, che pure ha ta- 
lora rilevato. Ad esempio, sulla rappresentabilità della vita: cfr. ivi, p. 150. 



224 


7. Teoria della ragione 


Un primo elemento discriminante è il criterio di verità in base al 
quale l’idea di Dio, già riconosciuta nel suo contenuto e nella sua 
funzione guida sul piano morale, può essere riflessivamente interpre- 
tata come un postulato di valore pratico soggettivo. La conoscenza 
umana, secondo Kant, si riferisce esclusivamente alla sfera del sensi- 
bile. Quest’ultima presenta inequivocabilmente i requisiti della cer- 
tezza. La predicazione di esistenza è, perciò, regolata dalla soddisfa- 
zione di tali requisiti oggettivi: quelli che di fatto vigono nel sapere 
scientifico. Ora, però, il sistema di idee da cui dipende la rappresen- 
tazione dell’essere umano nella sua vivente intenzionalità eccede tali 
limiti. E perciò tale presupposto un argomento di ordine pratico? Ja- 
cobi sembra contestare Kant specialmente su questo punto. La rap- 
presentazione della vita umana non è soggetta ai canoni di oggettività 
prescritti nella Critica della ragion pura ; ma ciò non implica necessa- 
riamente ch’essa non sia dotata di una sua propria evidenza, né auto- 
rizza a ricondurre il suo contenuto in un altro ordine intenzionale, 
quello ipotetico pratico, rispetto a quello categorico teoretico (“og- 
gettivo”) in cui esso immediatamente ci si presenta. La filosofia non 
ha, perciò, da riprodurre e giustificare in qualche modo la funzione 
di un’idea o un sistema di idee di fatto presenti nell’animo umano, 
quanto piuttosto ha da risalire alla viva intenzionalità ossia alla reale 
conoscenza che vi è sottesa’ 99 . Ciò che Kant riferisce alla mera co- 

399 Come abbiamo notato nel confronto con Leibniz, in ciò Jacobi sembra propen- 
dere per un'interpretazione non già oggettiva ma operativa o funzionale dell’innati- 
smo: cfr. supra, capitolo 4, §§ 2 e 3. Per Jacobi è innata l’intellezione del reale, non 
già il suo mero contenuto ideale. Questo punto sembra differenziare la prospettiva 
di Jacobi da quella di Jakob Fries, per la netta sospensione “idealistica” o psicologi- 
stica del realismo da parte di quest’ultimo. Tale atteggiamento comporta, infatti, pur 
nell’apparente similarità, una diversa interpretazione del Glaube , sia della sua porta- 
ta veritativa sia del suo stesso contenuto (si veda ad esempio l’identificazione di 
Fries della realtà in sé, dell’assoluto, con un concetto negativo, che viene successiva- 
mente qualificato in relazione alla disposizione morale della coscienza). L’interpre- 
tazione friesiana di Jacobi è, infatti, largamente mediata dalla Crìtica del giudizio di 
Kant. Per evidenziare la loro dissonanza a tale riguardo, Jacobi rimanda specialmen- 
te alla concezione del sapere, della fede e del presentimento ( Ahndung ) esposta nella 
Lettera a Fichte (W 2/1, 208). Cfr. Sidle cose divine, W 3, 91 in nota; J. Fries, Wis- 
sen, Glaube und Ahndung, Vandenhoeck & Ruprecht 1905; Io., Von Deutscher Art 
und Kunst. Ein Votum fiir Friedrich Heinrich Jacobi gegen F. W.J. Schelling, in Id., 
Sdmtliche Schriften, Scientia, Aalen 1978, p. 672 e ss.; B. Bianco, “Un voto per Jacobi 
contro SchellingJ’. L' intervento di Fries nella disputa sulle cose divine, in Id., Fede e 
sapere: la parabola deU’“AufkldrungJ’ tra pietismo e idealismo, Morano, Napoli 1992. 



7. Teoria della ragione 


225 


scienza, Jacobi lo riferisce all’effettivo trascendersi dell’io. In breve, 
Jacobi, diversamente da Kant (e da Fries), assume la portata veritati- 
va di quel sapere comune che va sotto il titolo della “fede naturale” 
(, natiirlicher Glaube). Vale la pena di approfondire quest’ultimo pun- 
to. 

Jacobi utilizza il termine “fede” dapprima nel confronto con Spi- 
noza per identificare il limite superiore della scienza. La rigorosa de- 
limitazione che regge la visione del mondo offerta dal razionalismo 
fa sì che questa non riesca più a contenere quell’orizzonte nel quale 
l’uomo normalmente vive e comprende se stesso 400 . In generale, 
“fede” è ciò che corrisponde ad una convinzione non argomentabile, 
per la situazione del soggetto o in ragione del suo stesso contenuto. 
La fede corrisponde più precisamente a un convincimento universa- 
le, anch’esso non argomentabile, sulla base del quale, nondimeno, 
tutti gli uomini si accordano. L’autorità della fede deriva sia dall’evi- 
denza dei suoi oggetti e del loro vincolo col soggetto, sia dalla imme- 
diatezza e universalità con cui essa si manifesta. La caratterizzazione 
più frequente presentata dal Nostro è negativa o dialettica: quanto è 
di per sé oggetto di fede non può essere garantito da una dimostra- 
zione; piuttosto, ogni dimostrazione, come ha mostrato Aristotele 
negli Analitici Posteriori , deve procedere ultimamente da una pre- 
messa assoluta, oggetto di una sorta di intuizione ( nous ). L’estensio- 
ne universale della richiesta di dimostrabilità non è dunque legittima 
e si confuta abbastanza mostrando i paradossi cui essa conduce. 

N. Wilde assimila invece la concezione della ragione di Jacobi alla dottrina della ra- 
gion pratica di Kant, precisamente come funzione non già di conoscenza ma di “ra- 
tificazione” morale della conoscenza: cfr. N. Wilde, Friedrich Heinrich Jacobi. A stu- 
dy in thè Origin ofGerman Realism, New York 1894, p. 70 e ss. 

400 Cfr. B. Sandkaulen, Fiinvahrhalten ohne Griinde. Bine Frovokation philosophi- 
schen Denkens , in «Deutsche Zeitschrift fiir Philosophie» 57 (2009), pp. 259-272. In 
tale prospettiva, si potrebbe avvicinare il realismo di Jacobi alla dottrina del senso 
comune di Wittgenstein (cfr. Ueber Gewissheit): cfr. G. Gabriel, “Von der Vorstel- 
lung zur Dartellung. Realismus in Jacobis ‘David Hume’”, in W. Jaeschke - B. 
Sandkaulen (a cura di), Friedrich Heinrich Jacobi, cit., pp. 145-158; A. Carrano, 
Qualche osservazione sul groviglio della fede, di prossima pubblicazione in «Logos» 
Napoli 2010. Nelle pagine seguenti si cercherà di mostrare come il concetto di 
“fede” debba essere allargato oltre tale prospettiva orizzontale, almeno quanto basta 
per accogliere il platonismo dominante nell’ultima produzione di Jacobi. Sull’evolu- 
zione del concetto di “fede” nel complesso dell’opera di Jacobi: cfr. A. Frank, Frie- 
drich Heinrich Jacobis Lehre vom Glauben, Kaemmerer, Halle 1910. 



226 


7. Teoria della ragione 


In tal senso, il realismo di Jacobi intende risalire all’origine del ra- 
zionalismo, attaccando direttamente alcuni capisaldi dell’impostazio- 
ne cartesiana: la necessità di una dimostrazione del mondo esterno e 
i correlati postulati circa l’immediatezza o intrascendibilità della rap- 
presentazione e dell’omogenea trascrivibilità dell’esperienza nei ter- 
mini delle idee “chiare e distinte”. Ancor più che su tale pretesa, egli 
si sofferma sulla sua riuscita: la dimostrazione del mondo esterno 
non giunge più al mondo, così come esso era inizialmente inteso, 
quale oggetto di fede. Ad esempio, la traduzione della nozione di 
causalità nei termini logici del principio di ragion sufficiente finisce 
in una sorta di contraddizione. Qualora il residuo inassimilabile dalla 
dimostrazione sia colto nella sua intrinseca evidenza, diviene pertan- 
to necessario riconoscere una funzione cognitiva capace di assumere 
i caratteri e i contenuti della fede. Questa è ciò che Jacobi giungerà 
infine a identificare nella “ragione” ( Vernunft ). 

L’alternativa è invece quella lettura “pratica” della fede ch’egli 
trovava in Hume o in Kant, o al limite quella lettura irrazionalistica 
che gli è stata sovente attribuita, dalla quale il Nostro ha voluto inve- 
ce decisamente distanziarsi 4 " 1 . La peculiarità di Jacobi rispetto a que- 
ste posizioni è, infatti, ciò che ha reso per lo più difficile apprezzare 
il nucleo positivo del suo pensiero altrimenti che come un ingenuo, 
talora suggestivo, anacronismo. Ciò risulta più evidente se si tiene 
conto dell’estensione e dell’apertura trascendente che il filosofo attri- 
buisce alla ragione: la ragione recepisce il reale al di là delle sue figu- 
razioni simboliche o concettuali (il “fenomeno”); la ragione recepi- 
sce l’ordine oggettivo dei valori che sostanziano la libertà, ed attesta 
il bene assoluto, Dio, come loro termine e fondamento 402 . 

Come si comporta, dunque, la ragione nei confronti della fede? 
In certo modo essa rappresenta, per Jacobi, lo stesso punto di vista 


401 Nella critica ricorrente di Jacobi alla dottrina dei postulati della ragion pratica si 
può leggere, infatti, la risposta al tentativo di Kant di assimilare la concezione del 
“Glaube” nella cornice del criticismo: Cfr. I. Kant, Was heifit sich im Denken orien- 
tieren?, Ak. Vili. Cfr. G. Zoller, “Das Element aller Geivissheit” Jacobi ] Kant und 
Fichte iiber den Glauben, «Fichte-Studien» 14 (1998), pp. 21-41; B.D. Crowe, F.H. 
Jacobi on faith, or what it takes to be an irrationalist, «Religious Studies» 45 (2009), 
pp ; 3 09-324. 

402 Una chiara e sintetica esposizione della teoria della ragione di Jacobi si può tro- 
vare nella sezione centrale della Lettera a Fichte: W 2/1, 208-215. 



7. Teoria della ragione 


227 


della propria filosofia: la ragione riconosce il valore veritativo della 
fede, come espressione naturale dello spirito, o piuttosto, come in- 
terpretazione naturale del mondo al livello dello spirito. La ragione, 
attraverso la riflessione filosofica, non assume soltanto la fede come 
un dato di fatto non questionabile. Essa ne rileva piuttosto la struttu- 
ra ideale, l’interna intelligibilità. Con un’immagine efficace, più volte 
riproposta dal Nostro: il filosofo cerca di avvicinare l’oggetto alla vi- 
sta per coglierne, tramite una laboriosa assimilazione, la luce che in 
esso si riflette 40 ’. In altri termini, la fede, ossia la forma ideale origi- 
naria della coscienza, è apprezzata per il valore qualitativo ed assolu- 
to, non già meramente empirico, dei suoi asserti. Senz’altro, essa te- 
stifica l’esistente, l’individuo; ma la ragione filosofica vi riconosce, al- 
tresì, l’affermazione del valore trascendentale dell’esistenza e dell’in- 
dividualità. Ed è precisamente a partire da tale affermazione che Ja- 
cobi osserva l’inconsistenza ontologica della nozione di totalità, qua- 
le rappresentante dell’essere incondizionato 404 . La coscienza si ri- 
specchia nella natura quando essa interpreta tutti i fenomeni alla 
luce della categorie di sostanza e causalità, o quando essa investe tut- 
ti processi fisici con la richiesta del finalismo. Ma tale inestirpabile 
ingenuità è in realtà portatrice di una visione essenziale, qualora il 
punto di vista della vita, che la coscienza rappresenta, sia scoperto 
non solo come necessario, ma come il più alto e comprensivo 405 . 

In sintesi, la ragione filosofica coglie la sostanza ontologica ovvero 
la razionalità latente nell’ingenuità della fede. Tale coglimento della 
ragione avviene, però, non già per una conferma estrinseca, ossia in 
base ad un previo criterio, né anzitutto per mezzo di una prova dia- 
lettica, quanto piuttosto per l’apprezzamento diretto delle sintesi e 
delle gerarchie che la coscienza umana spontaneamente stabilisce, ri- 
conoscendone l’irriducibile evidenza 406 . Si direbbe, una intuizione 

403 Cfr. David Hume, W 2/1, 90; Su di una profezia di Lichtenberg, W 3, 13. 

404 Cfr. Lettera a Fichte , W 2/1, 204-205. 

405 Cfr. David Hume, W 2/1, 54; La dottrina di Spinoza, W 1/1, 262-263. 

406 In tal senso, la fede non è descrivibile, come hegelianamente sostiene Giovanni 
Gentile nella interpretazione del pensiero di G. M. Bertini (G. Gentile, “Giovanni 
Maria Bertini e l’influsso di Jacobi in Italia” in Id., Storia della filosofia italiana, San- 
soni, Firenze 1969, voi 2, p. 104 e ss), come “il problema che la filosofia deve risol- 
vere”, “limmediato che si ha da mediare”, ossia una mera “condizione materiale” 
della filosofia. Nella prospettiva di Jacobi, la fede, ovvero la “logica naturale” dello 
spirito umano, nella quale il sapere si stabilisce nella sua prima intenzionalità, è in- 



228 


7. Teoria della ragione 


platonica. Un esempio è l’affermazione del primato e dell’inclerivabi- 
lità della vita e dello spirito rispetto alla materia. Ancora, l’afferma- 
zione del valore assoluto ed ontologicamente esemplare della perso- 
na. Dalle tesi implicite nella visione naturale della coscienza, la ragio- 
ne filosofica ricaverebbe, per un’intima compenetrazione, i propri 
assiomi. Nel seguito intendiamo approfondire alcuni di questi, spe- 
cialmente quelli che coinvolgono lo stesso concetto di ragione. 

2. I principi della ragione 

Un primo punto che conviene approfondire, nella linea del discorso 
precedente, è il rapporto che, per Jacobi, lega strettamente la nozio- 
ne di ragione e la nozione di persona, al punto di sostenere, a partire 
da tale legame, un’autentica prova dell’esistenza di Dio. Leggiamone 
l’enunciato: 

«Non vi è ragione che nella persona; dunque, siccome la ragione è, così vi è 
un Dio e non semplicemente un divino (...) Se la ragione può essere soltanto 
nella persona, e il mondo deve avere un autore, un motore del tutto, un reg- 
gitore che sia razionale, quest’essere dev’essere personale» 407 . 


vece, riconosciuta dalla riflessione filosofica come la propria stessa fonte, perciò 
come il proprio “principio logico”. La ricognizione dei propri presupposti ovvero 
della propria disposizione originaria verso la verità (Voraussetzung des Wahren, 
Weisung auf das Wahre) è infatti identificata da Jacobi come la funzione specifica 
caratterizzante della ragione: cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 208. 

407 La dottrina di Spinoza, W 1/1, 342, 350; trad. it., pp. 19, 27. L’argomentazione 
presuppone la finitezza della ragione umana e il conseguente suo trascendimento 
verso la pienezza del vero e del bene, che attualmente sussiste in un’altra ragione, 
ovvero in un altro soggetto personale. Si confronti la prova presente nella Lettera a 
Fichte : «Com’è certo che sono dotato di ragione, altrettanto è certo che non dispon- 
go con questa mia umana ragione di una vita compiuta, né della pienezza del bene e 
del vero; e com’è certo che non l’ho con essa, e lo so, altrettanto per certo so che c’è 
un essere superiore e che ho origine in esso. E dunque, anche la soluzione mia e 
della mia ragione non è: io, ma più che l’io, meglio che io! affatto un altro (ein ganz 
Anderer)» (ivi, W 2/1, 209-210). Questa argomentazione presuppone, a sua volta, 
che il vero, ossia la verità dell’essere, sussista solo in (o in relazione a) una ragione (o 
“spirito”): «Se [Dio] non è un essere spirituale, allora egli non è neppure il principio 
delle cose, nella loro realtà e nel loro vero essere, perché il primo principio è neces- 
sariamente ovunque vi sia qualcosa di vero, lo spirito (das Erste ist nothwendig iibe- 
rall ivo etwas ivahrhaft ist, der Geist)-. nessun vero essere, nessuna vera esistenza 
sono possibili se non nello spirito e per opera dello spirito» (Su di una profezia di Li- 
chtenberg, W 3, 30; sottolineature nel testo). 



7. Teoria della ragione 


229 


Nella premessa, l’autore esclude che la ragione sia un’ipostasi a 
sé, senza che essa inerisca ad un reale soggetto. Ma, se non a pena di 
cadere in un circolo, quest’ultimo deve già possedere una caratteriz- 
zazione propria, ulteriore rispetto alla mera qualificazione razionale. 
Più profondamente, il soggetto, la persona, ridetermina il senso della 
sua stessa attribuzione, l’essere razionale, ed è ciò che Jacobi intende 
fare: egli vuole ricomprendere la ragione come una funzione appar- 
tenente, in senso qualitativo, all’unità della vita personale. Quest 'ulti- 
ma eccede quella connotazione astratta o meramente cognitiva, per 
cui è invece possibile pensare ad una ragione o ad un assoluto imper- 
sonali. 

Tale visione alternativa è possibile, qualora anzitutto si approfon- 
disca la più concreta situazione del soggetto conoscente nei confron- 
ti della verità, ossia che cosa e perché, ultimamente, si voglia sapere. 
Ed è a questo proposito che si presenta quella co-implicazione inten- 
zionale in cui sembra consistere, secondo il nostro autore, la vita del- 
la persona (o “spirito”): il contenuto e la normatività del vero, in cui 
consiste il senso della razionalità, corrisponde, ultimamente, al bene 
e al bello; perciò, la ricerca e la conoscenza del vero è indisgiungibile 
dal desiderio, dall’amore o dall’ammirazione 408 . Ma quel bene nel 
quale la persona può trovare la propria conferma ed elevazione non 
può essere altro che una persona. Ciò comporta che lo stesso atto co- 
noscitivo non possa essere considerato astrattamente dalla struttura 
ontologica e dalla relazione dinamica dei suoi termini. Così, l’identi- 
ficazione del vero con la sostanza di Spinoza ancorché ontologica- 
mente errata, poiché erige a sostanza un essere indeterminato e ad 
esso subordina il valore della persona, che è invece assoluto, risulta 
esistenzialmente assurda, poiché il soggetto conoscente (la persona) 
non può assimilarsi ad essa senza annullarsi, né può dunque volere, 
nel conoscere, la propria distruzione 409 . 

Tale visione, del resto, riposa su di una più precisa intuizione del 
significato del bene e dell’amore, senza della quale l’ultima conclu- 

408 Cfr. Woldemar, W 7/1, 443, 447; Lettera a Fichte, W 2/1, 210, 238. 

409 Cfr. La dottrina di Spinoza, W 1/1, 339. Alla luce di questo punto e andando un 
po’ al di là del testo, si potrebbe riconoscere nel puro, affatto disinteressato amore 
della verità il motivo per il quale Jacobi associa, o avrebbe potuto associare, Spinoza 
e Fenelon: cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 217-218. Del resto, le suggestioni fenelonia- 
ne nel pensiero di Jacobi sono assai ricche e radicate: cfr. A. Iacovacci, Jacobi e Fe- 



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7. Teoria della ragione 


sione, il rifiuto dell’alienazione dell’individualità, pur essendo alta- 
mente plausibile, non risulta tuttavia risolutiva. Infatti, è noto come 
Fichte e Schelling abbiano prospettato come necessario il supera- 
mento deH’individualità, così sul piano morale come sul piano meta- 
fisico. A tale riguardo, due riferimenti risultano per Jacobi special- 
mente decisivi: 1) la definizione platonica del bene che si trova nel 
Filebo ; 2) la concezione aristotelica dell’amicizia 410 . Sulla prima, il fi- 
losofo si appoggia per confermare il valore trascendentale dell’indivi- 
dualità: il bene e l’essere coincidono nell’essere determinati; l’inde- 
terminazione, che Jacobi associa all’universalità del genere, è invece 
sinonimo del non essere. Ma è proprio la persona la forma più eccel- 
lente di individualità (cioè di distinzione, di potenzialità operativa e 
di integrazione dell’unità e della molteplicità). La seconda serve poi 
a evidenziare la positività della relazione, poiché la relazione di ami- 
cizia non si può considerare come una relazione transitiva, accidenta- 
le, ma come la forma essenziale, costitutiva della vita umana. Dove si 
vede nuovamente all’opera quella lettura trascendentale cui Jacobi 
sottopone le categorie della coscienza, qui particolarmente della co- 
scienza morale: l’amicizia non è soltanto la più alta sintesi dell’agire 
umano sul piano morale, quanto anzitutto essa manifesta la radicale 
costituzione personale dell’intenzionalità 411 . 

Tali aspetti si saldano nella visione creazionistica che il filosofo 
conserva, per cui, diversamente dagli autori citati, egli rifiuta la fun- 
zione costitutiva della negatività, così nella conoscenza come nella 
prassi. Più profondamente, quella visione creazionistica, sostanziata 
da quegli aspetti, determina la stessa comprensione della soggettività: 
l’essere dato del soggetto a se stesso è inteso non già come un fatto 
neutrale circoscritto nell’operatività dell’autocoscienza, ma come la 


nelon, «Archivio di Filosofia» 50 (1982), pp. 109-131. 

410 Le citazioni del Filebo sono sparse in tutta l’opera di Jacobi. All'Etica Nicoma- 
chea , in particolare ai libri sull’amicizia (11. Vili e IX) è dedicata una parte consi- 
stente nell’ultima versione del Woldemar (1796). 

411 Ciò vale rispetto a quanto detto precedentemente, in relazione alla fondamenta- 
le determinazione antropologica o personalistica del conoscere e della verità. Que- 
sto assunto non giunge, tuttavia, in Jacobi ad una analisi fenomenologica dell’inter- 
soggettività nella genesi della conoscenza. Non mancano tuttavia importanti indica- 
zioni in tal senso, soprattutto in relazione al rapporto tra pensiero e linguaggio. Cfr. 
Su di una profezia di Lichtenberg, W 3, 11 e ss., 16. 



7. Teoria della ragione 


231 


ricezione di un saldo beneficio, l’essere in sé, cui consegue l’essere 
coinvolti in una relazione 412 . 

Tra le espressioni più significative della concezione della ragione 
che stiamo delineando vogliamo considerare ora la seguente: 

«Uno soltanto è senza inizio, solo, soltanto da sé. Tutta la varietà dell’esi- 
stente ne deriva, e potrebbe divenire al massimo partecipe dello spirito, ri- 
manendogli per sempre diverso, potendo creare essere e vita, sempre e sol- 
tanto, a partire da esso. Ma con una tale partecipazione dello spirito si ac- 
quista anche libertà e amore, un sentimento del bene e del bello, e di qui, 
poi, la conoscenza del vero. Senza libertà, nessuna autonomia e soprattutto 
nessuno spirito; infatti, l’essere in sé e l’agire immediatamente da sé è l’inizio 
dello spirito. Libertà senza amore sarebbe solo un cieco caso, come ragione 
senza libertà sarebbe solo l’eco della cieca necessità...» 413 . 

Si noti l’osservazione sulla natura derivativa dello spirito umano, 
per la quale l’autonomia assoluta nell’essere e nell’agire è attribuita 
ad un principio trascendente (“l’Uno”). Pure, tale derivazione com- 
porta una reale partecipazione ai medesimi caratteri dello spirito e 
dei suoi atti, di cui l’autore offre una sintetica presentazione. Anzi- 
tutto, la conoscenza del vero è subordinata all’apprezzamento del 
bene e del bello. Tale apprezzamento è più precisamente determina- 
to nell’amore e nel sentimento. In essi e solo in essi è, infatti, certifi- 
cata, con la trascendenza, la stessa portata esistenziale del vero (e 
così è riprodotta la reale situazione del soggetto nel conoscere). La 
natura della libertà è quindi scorta nel dinamismo interno a quell’a- 
more. 


412 A questo punto si potrebbe però notare il limite intellettualistico al quale la dot- 
trina di Jacobi sull’amore si espone nel momento in cui il filosofo rigetta l’intrinseca 
significatività di una rivelazione positiva - quella cristiana -, ossia dell’istituzione di 
una effettiva corrispondenza d’amicizia tra Dio e l’uomo. 

413 Schlossers Fortsetzung des platonischen Gastmahles , W 5/1, 242-243. Per la sua 
speciale importanza, riportiamo il testo anche nell’originale: «Ohne alien Beginn 
und ganz und allein aus sich selbst ist nur Einer. Alles vielfach vorhandene ist von 
ihm, und konnte des Geistes blos theilhaftig werden, ewig von ihm unterschieden 
und ewig nur aus ihm Daseyn und Leben schopfend. Das aber ist die Theilhaftigkeit 
des Geistes, daB mit ihr Freiheit empfangen wird und Liebe; des Guten und Schòn- 
en Gefiihl und aus ihm des wahren Erkenntnis. Ohne Freiheit keine Selbstàndigkeit 
und liberali kein Geist; denn selbst zu seyn, und aus sich unmittelbar zu wirken, ist 
des Geistes Anfang. Freiheit aber ohne Liebe wàre nur blindes Ungefàhr, wie Ver- 
nunft ohne Freiheit nur blinder Notwendigkeit Echo...». 



232 


7. Teoria della ragione 


La co-implicazione di questi atti restituisce un’immagine unitaria 
dello spirito. A partire da questa immagine, ne divengono prevedibili 
le possibili distorsioni, come altrettante sottrazioni di un elemento da 
quel plesso. La libertà astratta dal dinamismo appetitivo del bene è 
colta nel suo aspetto formale o oggettivo di indeterminazione (altro- 
ve egli anche nota, di pura spontaneità o riflessività), che nulla anco- 
ra dice del suo impiego reale e del suo valore. La ragione, per quanto 
relativamente indipendente nella sua funzione apprensiva, ma svin- 
colata dalla sua inerenza alla persona e dalla collaborazione degli al- 
tri atti dello spirito, è naturalizzata, come la stessa forma intelligibile 
della necessità (ed è così arbitrariamente ristretta la sua apertura). 

Nella comprensione della verità da parte di Jacobi agisce, come si 
vede nuovamente, una intuizione assiologica o qualitativa. La verità 
corrisponde al bene, poiché questo è scorto, platonicamente, come il 
principio radicale di tutte le cose, come la sorgente di ogni attività e 
come il supremo criterio normativo ( metron ) di ogni determinazio- 
ne 414 . Il sistema delle tendenze e degli affetti, e l’ordine morale che 
gli corrisponde, in quanto manifestativi del bene, sono, dunque, per 
Jacobi, degli indicatori essenziali della verità 41 ’. Il movimento ineren- 
te all’esistenza è infatti antecedente alla coscienza, ed è già portatore 
nel suo intrinseco, virtuale finalismo di un sapere “preveggente” cir- 

414 «L’indicazione del vero coincide con l’indicazione del bene» ( Lettera a Fichte , 
W 2/1, 208 in nota; cfr. Fliegende Blàtter, W 5/1, 403). L’importanza dell’amore e 
della rispettiva connotazione normativa di verità nell’opera di Jacobi sono ben sotto- 
lineati da V. Verrà: cfr. Id., F.H. Jacobi. Dall’illuminismo all’idealismo, cit., vd. spe- 
cialmente il capitolo VII. 

415 Sotto questo profilo, è importante l’ottimismo antropologico per cui Jacobi af- 
ferma, richiamandosi alla dottrina aristotelica, la naturale disposizione dell’uomo 
verso la virtù. Cfr. Woldemar, W 7/1, 248, 440. Il filosofo riconduce inoltre la nor- 
matività morale delle tendenze ad un presupposto creazionista: cfr. La dottrina di 
Spinoza, W 1/1, 167-168. Nel Woldemar, Jacobi appoggia la propria concezione ge- 
nerale della ragione ad un’originale interpretazione della intenzionalità pratica se- 
condo l'Etica Nicomachea (con speciale riferimento all’epistemologia morale elabo- 
rata nel libro VI): la prima attivazione dell’intelletto è conseguente al moto origina- 
rio, predeliberativo della volontà: l’intuizione del bene e della verità perciò coinci- 
dono. La ragione discorsiva, che corrisponderebbe alla prudenza, non è dunque che 
l’articolazione conseguente di quella prima intuizione. Cfr. ivi, W 7/1, 443; Fliegen- 
de Blàtter, W 5/1, 397: «La facoltà di giudizio presuppone una facoltà comparativa, 
ma c’è un primo giudizio (se così si vuol chiamarlo) senza comparazione, che l’istin- 
to emette in quanto esso si attacca al bene e immediatamente lo afferra e lo mantie- 
ne». 



7. Teoria della ragione 


233 


ca il proprio contenuto, che la ragione riflessiva non può che ripro- 
durre o confermare 416 . La ricerca così della verità come della virtù 
non dev’essere, perciò, interpretata come un confermarsi del sogget- 
to nella propria autonomia, quanto come un tentativo di adeguazio- 
ne libera ed amorosa all’ordine ideale eterno che regna nel creato. 
Più oltre, l’origine e la proiezione infinita della libertà umana richie- 
dono infine una vita divina di natura personale, in riferimento al 
quale soltanto può essere salvato il contenuto e la reale consistenza 
della moralità. 

La pretesa del filosofo tedesco è così d’installarsi nel centro dello 
spirito umano per scorgere la corrispondenza tra quanto in esso si 
trova di più vivo ed elevato con un principio oggettivo assoluto, di 
cui quello rappresenti già una certa espressione; più esattamente, 
“un’immagine” (ein Bild) 41 ' . La ricerca dell’assolutezza nell’agire mo- 
rale rischia altrimenti, senza quella tensione trascendente, di com- 
promettere lo stesso significato della moralità. Le categorie finalisti- 
che e personalistiche che reggono la struttura dell’agire umano sono, 
infatti, contraddette appena l’immanenza della libertà è eretta a con- 
dizione ed unico scopo della prassi. La soggettività agente diviene, in 
tal modo, un principio impersonale e l’ultimo scopo dell’agire divie- 


416 Su questo punto, Jacobi cita regolarmente un passo del Filebo (31.b-36.c), dove 
l’intuizione del bene è avvicinata ad una sorta di “memoria pratica”: «Platone osser- 
va, l’affamato, come tale, trovandosi spinto a saziarsi, percepisce l’opposto dello sta- 
to in cui egli si trova effettivamente. L’affamato a morte, da sé, può solo sentire do- 
lore per la presente rovina del corpo, ma non ciò che può ristorarlo, non la tendenza 
al cibo; a meno che non preceda l’esperienza che quel dolore è lenito dal cibo. Ma il 
desiderio fiuta, cerca e trova il proprio oggetto all’inizio, prima di ogni esperienza 
(zuerst vor aller Erfahrung)-, esso si accorge di ciò che, nel soggetto di quella perce- 
zione, al momento, non si trova affatto. Insomma, il desiderio vede oltre il raggio 
della sensazione, coglie quanto provoca la sensazione opposta e che può salvare l’es- 
sere minacciato di rovina» ( Corrispondenza di Allwill, W 6/1, 234-235, in nota). 

417 Questo aspetto platonico è specialmente apprezzato da Fichte nell’ Introduzione 
alla vita beata-, cfr. GA 1/9, 109-110. Ne Sulle cose divine , Jacobi illustra rispetto a 
Platone, a Spinoza e a Schelling il contenuto di ciò che anch’egli vuole chiama “in- 
tuizione intellettuale dell’assoluto”: «Noi abbiamo ben bisogno di un’espressione 
particolare per definire il tipo di coscienza nella quale ci si fanno presenti il vero, il 
buono e il bello in sé, manifestandoci qualcosa di sovrabbondante, di primo e su- 
premo che non si può presentare in nessun fenomeno» {ivi, W 3, 122; trad. it., p. 
145). Per Spinoza, particolarmente sull’oggettività delle idee, il filosofo rinvia al 
Tractatus de Intellectus Emendatone e alla dottrina sui tre livelli della conoscenza 
esposta nell ’Ethica. 



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7. Teoria della ragione 


ne ciò che accomuna tutti gli esseri, la pura auto-affermazione nell’e- 
sistenza 418 . In quest’ultimo punto torniamo ad un problema davvero 
decisivo nella concezione jacobiana: come è possibile interpretare in- 
tellettivamente la vita umana, senza ridurla ad altro? 

3. Ragione, esistenza e spirito 

Riprendiamo un punto nucleare della dottrina di Jacobi: la pienezza 
di contenuto dell’autocoscienza sopravanza le restrizioni imposte 
dall’intelletto. Ciò avviene a più livelli, secondo, appunto, l’intera 
estensione intenzionale dell’autocoscienza: un primo livello fonda- 
mentale: l’esistenza, la vita; un secondo livello: l’articolazione catego- 
riale dell’esistenza: la relazione attivo-passiva dell’io con il mondo, 
con gli altri; un terzo livello: l’articolazione etica dell’esistenza e la 
relazione con Dio. Questa è, secondo Jacobi, la forma normale entro 
la quale si svolge la vita umana, quell’insieme di presupposti ine- 
spressi che costituiscono la condizione logica di ogni indagine meta- 
fisica e per cui divengono universalmente comprensibili i concetti 
etico-religiosi. 

Dal punto di vista riflessivo, filosofico di Jacobi, si potrebbe nota- 
re, la coscienza implica una sintesi tra elementi opposti io e mondo, 
libertà e necessità, finito e infinito, autonomia e dipendenza, la cui 
regola di composizione non è definita e che, agli occhi dell’intelletto, 
appare, anzi, come una contraddizione. Di qui, quel complesso di so- 
luzioni speculative e morali presentatasi nell’epoca moderna che 
hanno preteso di risolvere, e così di confermare o respingere, quella 
sintesi. L’esito di tali tentativi, secondo Jacobi, è invariabilmente il 


418 Come abbiamo già accennato, Jacobi individua in tal modo l’esito della conce- 
zione morale di Kant e di Fichte, in quanto il formalismo del principio di autonomia 
comporta la reinterpretazione della personalità e delle categorie morali nei termini 
univoci di un’ontologia generale. In particolare, egli contesta l’interpretazione della 
dimensione operativa d’immanenza, propria dell’agire morale, nei termini del prin- 
cipio di identità (con speciale riferimento a La missione del dotto, 1794 e alla nozio- 
ne kantiana di imperativo categorico), poiché tale interpretazione finisce per estin- 
guere la trascendenza intenzionale della volontà. Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 212- 
214. Ci siamo occupati di questo problema in uno studio a cui ci permettiamo di 
rinviare: cfr. A. Acerbi, La dottrina della volontà di ]. G. Fichte in “Sittenlehre” 
(1798), «Annuario Filosofico» 23 (2007), pp. 233-290 



7. Teoria della ragione 


235 


monismo. La pretesa di ricostruire la sintesi intrinseca alla vita, per 
confermarla estrinsecamente, giunge in realtà alla sua negazione. 

Tale delimitazione dell’intelletto ottiene una prima verifica in re- 
lazione alla nozione di esistenza. L’intuizione radicale dell’esistenza 
— “questo è”, “io sono” — non può essere coperta dall’intelletto, 
poiché il valore veritativo di ogni sua formazione oggettiva, concetto 
o giudizio, dipende da essa. Ogni oggettivazione per il suo carattere 
astratto tralascia e quindi presuppone le caratteristiche che fanno la 
realtà del suo riferimento: l’individualità, l’attualità. Così, in relazio- 
ne al soggetto, ogni rappresentazione presuppone la stessa fonte ope- 
rativa da cui essa promana. L’esistenza, la vita e la coscienza non 
sono dunque oggettivabili, poiché sono essi il presupposto di ogni 
rappresentazione. Del resto, la stessa struttura dell’ oggettivazione ne 
falsificherebbe il contenuto 419 . 

Il postulato di generalità che governa l’intelletto costringe ad una 
sintesi dell’esistente che si vuole assoluta, ma che comporta, invece, a 
ben vedere, una riduzione della realtà al suo grado più basso: quello 
fisico e biologico. Qui vigono in effetti in maniera esaustiva le leggi 
di una mathesis universalis-, specialmente qui vige il principio di iden- 
tità, in forza del quale è necessario ricomporre ogni contrarietà e re- 
lazione — ogni dualismo — in seno ad una medesima sostanza. La 
personalità non è dunque, in tale prospettiva, che una forma più po- 
tente della vita: il suo agire si contraddistingue per la complessità dei 
suoi mezzi ma non per la sua essenza ed il suo scopo, che è la pura 
conservazione nell’essere. Ma in questa rappresentazione semplice- 
mente la persona reale non può riflettersi: come l’esistenza in genera- 
le non ha senso sul piano metafisico, poiché manca di struttura e di 
un concreto referente, così essa non ha senso sul piano pratico. 

La concreta realtà dell’io e la sua richiesta assoluta di senso rap- 
presentano, dunque, per Jacobi, delle istanze speculative. La loro ne- 
cessaria presupposizione costringe, quindi, a risalire ad una funzione 
cognitiva distinta, capace di assumere l’esistenza senza ridurla. Il che 

‘ 11<> Questi punti ci sembrano costituire la trama speculativa del David Hume. Si 
confronti il brano seguente: «Nella natura, nella realtà e verità in generale, tutto è 
positivo. Nell’intelletto e nella sua possibilità tutto è negativo, poiché nell’intelletto 
tutto soggiace ai concetti, e i concetti più ampi sono anche i più vuoti. Il chiarore 
[ das Weiflel a cui l’intelletto mira è il nulla, ossia il tutto meno diversità, individuali- 
tà, personalità» (Fliegende Blàtter , W 5/1, 4 11). 



236 


7. Teoria della ragione 


— notiamo per inciso — evidenzia e conferma la linea interpretativa 
sin qui implicitamente avanzata: la moralità, in quanto integra e ma- 
nifesta la vita della persona, e in quanto quest’ultima è riconosciuta 
nella sua pregnanza ontologica, costituisce, per Jacobi, non già l’al- 
ternativa ad ogni ontologia, ma la base fenomenologica per un’onto- 
logia non naturalista. 

Così la percezione come la libertà sono, per Jacobi, le forme fon- 
damentali entro cui scorre la vita umana. Già in queste si rinviene un 
insanabile dualismo. L’apertura e la sintesi immediata che esse de- 
scrivono non è ricostruibile da uno dei suoi termini né da un’istanza 
epistemicamente più alta, ma sono esse, per Jacobi, con la posizione 
originaria dell’io nel mondo, le condizioni in cui consiste ogni sape- 
re. Su questa base, il filosofo approfondisce l’intera estensione delle 
sintesi che la coscienza naturalmente stabilisce, ascrivendole sempre, 
per un progressivo approfondimento semantico, alla base della per- 
cezione. 

La percezione si distingue dalla funzione astrattiva in quanto essa 
comporta un contatto immediato con l’oggetto, nella sua concreta at- 
tualità. E per una sorta di percezione che l’attività e la stessa esisten- 
za dell’io sono originariamente manifeste. La certezza intorno al 
bene e all’esistenza di Dio non è tanto, ovvero non è solo ed anzitut- 
to, oggetto di “sapere” (s’intende, di un sapere rappresentativo o di- 
mostrativo), quanto di un moto originario della volontà (s’intende, di 
un sapere ad essa immediatamente aderente). Ora, la struttura inten- 
zionale della volontà implica, da un lato, che il soggetto è diretta- 
mente coinvolto nella relazione con l’oggetto, d’altro lato, che l’og- 
getto si fa presente, non già attraverso una rappresentazione, ma 
come il principio e il termine di una tendenza. La trascendenza e 
l’effettiva realtà del bene è così percepita nello stesso movimento in- 
finito ch’esso determina nel soggetto. Del resto, per il nostro autore, 
la conoscenza di Dio è più precisamente qualificata dall’intera costi- 
tuzione morale che dà forma al sistema delle tendenze, in quanto il 
confermarsi della libertà nelle virtù è colto come l’assimilazione delle 
dimensioni che sono proprie dell’assoluto 420 . 

420 A tale proposito, Jacobi applica un principio di connaturalità, per cui il divino è 
percepibile solo attraverso quanto di più alto si rinviene nell’uomo, e questo è iden- 
tificato nella dimensione della moralità. Sulla portata cognitiva della volontà, egli 



7. Teoria della ragione 


237 


Ma bisogna ancora rischiarare Tinterna complessità della perce- 
zione, poiché la sua prossimità con l’intuizione rischia di farne frain- 
tendere o di farne smarrire quelle caratteristiche peculiari per cui, se- 
condo Jacobi, è proprio essa l’organo della conoscenza del vero 421 . 
Un aspetto di speciale interesse a tale riguardo è la sua funzione in- 
terpretativa. Il filosofo descrive la percezione come un atto intima- 
mente dinamico e sintetico, quasi come il rappresentante dell’intera 
intenzionalità intelligente dell’io, il quale ha da scorgere il reale attra- 
verso le sue manifestazioni. Tale riconoscimento non coincide, però, 
con un’inferenza, nemmeno con un’inferenza ormai implicita, poiché 
nell’interpretazione dei segni è fatta direttamente presente la stessa 
realtà ch’essi esprimono. 

Come si è detto, il filosofo determina il modo di conoscenza della 
realtà dello spirito in relazione all’esperienza che l’io fa di se stesso e 
dell’altro; ciò che implica il riconoscimento della realtà e delle di- 
mensioni caratteristiche della persona, come la libertà, l’interpreta- 
zione naturale (ed in tal senso “immediato”) dei gesti, dei segni; il 
naturale apprezzamento dell’agire virtuoso, del bello. Si tratta di una 
modalità di esperienza che attinge in diverso modo il piano sopra- 
presenta un’argomentazione tipicamente platonica o agostiniana: la tendenza e l’ob- 
bligazione verso il bene implica una certa intuizione del bene. «Avevo bisogno di 
una verità che non fosse mia creatura, ma di cui fossi io creatura (...) Io procedetti 
da queste promesse, e non fui mai indifferente riguardo a ciò che potesse venire a 
mia conoscenza, purché fosse sempre conoscenza» (La dottrina di Spinoza, W 1/1, 
338; trad. it. p., 15). Cfr. ibidem , 340, 342. Secondo il filosofo, la moralità costituisce 
la condizione per la costituzione della religione, anche se la religione rappresenta, a 
sua volta, la base e il contenuto della stessa moralità. «Solo attraverso una elevazione 
morale c’innalziamo ad un concetto degno dell’essere supremo (...) Sapienza, giusti- 
zia, benevolenza, amore disinteressato, non sono immagini ma forze che si ottengo- 
no solo con l'esercizio personale. Perciò, l’uomo deve aver già compiuto le azioni 
corrispondenti, deve avere già le virtù e i rispettivi concetti prima di giungere alla 
nozione del vero Dio» ( Lettera a Fichte, W 2/1, 219-220). «Si potrebbe ancora do- 
mandare se sia piuttosto la virtù che produce la fede, o piuttosto la fede che produ- 
ce la virtù. Io penso che la fede abbia la precedenza incondizionata; il sentimento re- 
ligioso è la base dell’umanità» (La dottrina di Spinoza, W 1/1, 350; trad. it., p. 27). 

421 In tal senso, l’estesa critica di Hegel alla nozione immediatezza che attraversa 
tutta la sua opera, e in cui è spesso presente o chiaramente sottinteso un riferimento 
a Jacobi (si veda la prima sezione delle Lezioni sulla filosofia della religione), non ci 
sembra tener conto dei motivi ontologici che supportano la funzione epistemica che 
Jacobi assegna alla percezione o al sentimento. Del resto, l’assoluta indeterminazio- 
ne oggettiva che egli attribuisce alla prima cognizione di Dio nel sentimento si atta- 
glia forse alla dottrina della religione di Schleiermacher, ma non al teismo di Jacobi. 



238 


7. Teoria della ragione 


sensibile, l’attestazione della cui realtà non è disgiunta dalla conside- 
razione della sua effettiva presenza o causalità nello stesso soggetto 
conoscente, tramite il sentimento, o del suo necessario presupposto 
nell’agire. La libertà, ad esempio, è primariamente rivelata dai senti- 
menti di amore o ammirazione, o piuttosto di indignazione e disgu- 
sto che l’agire umano suscita; e solo per essa, o non senza di essa, il 
complesso delle opere e dell’agire umano risulta davvero comprensi- 
bile e degno di ammirazione 422 . 

Il riconoscimento della apertura soprasensibile dell’esperienza 
umana ordinaria consente di riconoscere anche ciò che, per Jacobi, 
rappresenta la determinazione più profonda della coscienza, la rela- 
zione immediata e necessaria con Dio. Ad esempio, il filosofo stabili- 
sce un’interessante analogia tra la conoscenza dell’anima nelle sue 
manifestazioni corporee ed il riconoscimento di Dio nella natura. 
L’attenzione rivolta all’interlocutore non si dirige anzitutto alle sue 
espressioni sensibili per inferirne quindi la presenza nascosta di uno 
spirito, quanto piuttosto l’anima è vista in tali espressioni, come il 
soggetto nelle sue azioni o come il pensiero nel linguaggio. Una si- 
tuazione analoga si dovrebbe riscontrare anche nella conoscenza di 
Dio 42 ’. Infatti, la persuasione circa l’esistenza di Dio, s’intende di un 


422 Cfr. Lettera a Fichte , W 2/1, 208-209, 235-237. Si legga al proposito il passo se- 
guente, che estende il disincanto dinanzi alla perfezione e alla bellezza della natura, 
provocato dal meccanicismo, alla stessa realtà dell’uomo, appena, come in quella, ne 
sia rimosso il fondamento soprasensibile: «Eppure anche questa meraviglia che an- 
cor rimane di fronte alle facoltà conoscitive dell’uomo [ciò che rimaneva ancora nel- 
la prospettiva dell’uomo di fronte al meccanicismo della natura] , sarebbe destinata a 
scomparire qualora ad un Hardey, a un Darwin, a un Condillac o a un Bonnet del 
futuro riuscisse realmente di porci dianzi agli occhi una meccanica dello spirito 
umano, che fosse così comprensiva e intelligibile e illuminante come la meccanica 
celeste di Newton. Non potremmo allora più onorare veramente e a ragion veduta 
né l’arte né la più alta scienza né la virtù; non potremmo più trovarle così eminenti, 
né considerarle con tanta ammirazione» (Introduzione generale, W 2/1, 398-399; 
trad. it., pp. 30-31). Nel seguito, Jacobi ammette che potrebbe rimanere ancora un 
apprezzamento estetico o emotivo, ma privo affatto di consistenza veritativa. 

423 Cfr. Su di una profezia di Lichtenberg, W 3, 11; ; Fliegende Flutter, W 5/1, 406. 
Su questo punto si può notare una certa convergenza con la dottrina esposta da san 
Tommaso in Summa contra Gentiles, 1. Ili, cap. 38, dove l’Aquinate descrive la co- 
gnizione naturale di Dio come una sorta di percezione ( perceptio ) e l’awicina per 
analogia alla conoscenza naturale (prescientifica) dell’anima. Cfr. S. Brock, Can 
Atheism he Rational? A Reading of Thomas Aquinas, «Acta Philosophica» 11/2 
(2002), pp. 215-238. Sulla immediata percepibilità dell’anima sono anche suggestive 



7. Teoria della ragione 


239 


Dio personale e creatore, è ciò dal quale dipende la stessa basilare in- 
terpretazione del mondo e dell’io, secondo le categorie ontologiche e 
morali che danno forma all’esistenza umana. In tal modo, il filosofo 
vuole distinguere la peculiare presenza di Dio nel campo intenziona- 
le dalla modalità di presenza così di un concetto come di una realtà 
qualsiasi, riconoscendone il carattere esistenziale, l’inoggettivabilità e 
la dimensione trascendentale o costitutiva. Queste note portano Ja- 
cobi a prospettare la conoscenza di Dio soprattutto per riferimento 
alla dimensione pratica, come presupposto implicito della coscienza 
morale. 


4. Jacobi e la metafisica 

La soluzione metafisica di Jacobi è ampiamente dipendente dai risul- 
tati della Critica della ragion pura. Egli infatti accetta l’insuperabilità 
delle aporie rilevate da Kant, particolarmente sulle dimostrazioni 
dell’esistenza di Dio. Con il filosofo di Kònigsberg egli ha concluso 
che con l’intelletto, perciò con ogni sorta di pretesa dimostrativa, 
non è possibile avanzare nella realtà soprasensibile 424 . Jacobi ha però 
voluto allargare quel varco che in Kant rimaneva ancora aperto, sep- 
pur in modo precario e senza un adeguato riconoscimento speculati- 
vo: il presupposto di una cosa in sé, della libertà e dell’esistenza di 
Dio. La funzione strutturante di questi principi per la coscienza è in- 
compatibile, secondo Jacobi, con l’artificiale ricostruzione con la 
quale Kant ha inteso giustificarli 421 . 

La sua soluzione procede anzitutto ad approfondire la consisten- 
za ontologica e la stratificazione intenzionale della nozione di vita, 


alcune osservazioni di Wittgenstein: cfr. Fhilosophical investigations/Fhilosophische 
Untersuchungen , Blackwell, Oxford 1953, II, sect. 4. Friedrich Schlegel nota la diffi- 
coltà dell’analogia per il concetto meccanicistico di natura che Jacobi tuttora sostie- 
ne, che rende la relazione tra Dio e la natura affatto estrinseca. Né la risposta del- 
l’autore de Sulle cose divine su questo punto risulta definitivamente convincente, 
poiché non sembra abbandonare in modo sostanziale tale presupposto: cfr. F. 
Schlegel, Uber F. H. Jacobi: von den góttlichen Dingen und ihrer Offenbarung, cit; 
per la relativa risposta di Jacobi: cfr. Vorrede zu Band III der Werke, W 3, 140 e ss. 

424 Cfr. Introduzione generale , W 2/1, 389 e ss. Non senza una certa ironia, Jacobi 
qui osserva che il più gran merito della critica di Kant è quello di aver lasciato spa- 
zio per l’elaborazione di un autentico razionalismo. 

425 Cfr. Lettera a Fichte, W 2/1, 193; Introduzione generale, W 2/1, 391 e ss. 



240 


7. Teoria della ragione 


nei quali quei principi sarebbero radicati, quindi a discernere la loro 
peculiare modalità di manifestazione. L’inerenza alla vita, di cui 
quelli rappresentano la basilare articolazione, comporta ch’essi goda- 
no della medesima sua immediatezza. Se ciò basta a riprodurre il 
profilo della “fede naturale”, la sua riflessione filosofica cerca inoltre 
di esplicitare il vincolo necessario tra i suoi argomenti: il vincolo tra 
l’esistenza del mondo, così come esso si presenta, e l’esistenza di un 
Dio trascendente e creatore; il vincolo tra l’esistenza di Dio e la strut- 
tura morale della persona 426 . Come si è visto, l’immediatezza nella 
cognizione del soprasensibile, la tesi per cui Jacobi è specialmente ri- 
cordato, si comprende esattamente solo se si precisa che essa si rea- 
lizza per lui nelle modalità proprie di un atto interpretativo, qual è la 
percezione, e ad una correlativa struttura o “configurazione gestalti- 
ca”. Diversamente si dovrebbe avvicinare il suo pensiero a Male- 
branche, più di quanto egli stesso non abbia ammesso, né si riusci- 
rebbe ad apprezzarne abbastanza il suo radicato aspetto dialettico. 

La tesi che vogliamo ora sostenere, è che nella giustificazione e 
nell’analisi riflessiva del Glaube , da parte di Jacobi, agiscono princi- 
palmente argomenti di ordine metafisico: precisamente quelli che 
sono continuamente rinvenibili nei suoi scritti e con cui egli ha volu- 
to caratterizzare la propria filosofia rispetto alle posizioni speculative 
con le quali si è confrontato. Solo a tale condizione, a nostro avviso, 
è possibile distinguere in maniera sufficientemente perspicua l’impo- 
stazione che regge ciò che ora potremmo chiamare l’“ermeneutica 
esistenziale” di Jacobi dall’esigenzialismo di Kant. Ma se ciò è vero, 
bisogna allora riconoscere che la fede secondo Jacobi, così come la 
percezione, è assai più “mediata” di quanto egli stesso non abbia 
espressamente riconosciuto. Del resto, il suo rifiuto della mediazione 
si comprende meglio se si esplicita il significato che questa poteva 


426 Sulla rilevanza ontologica della connessione di idee presenti alla “fede 
naturale”: cfr. la lettera di Jacobi a Kant del 1789 ( Jacobi’s Werke, Bd. Ili, p. 529 e 
ss.). Particolarmente, secondo Jacobi l’esistenza di Dio, cioè di un Dio personale, 
rappresenta la “verità più alta” dalla quale dipende la consistenza di ogni altra veri- 
tà, ossia la possibilità di una verità inerente all’essere. Cfr. Su di una profezia di Lich- 
tenberg, W 3, 9 e ss. Si potrebbe trovare un’interessante conferma a contrario di tale 
vincolo necessario tra le “idee della ragione” nel panteismo metafisico di Nietzsche: 
cfr. D. Sacchi, L’ateismo impossibile. Kitratto di Nietzsche in trasparenza, Guida, Na- 
poli 2000. 



7. Teoria della ragione 


241 


avere ai suoi occhi. Da questo punto di vista, sarà possibile valutare 
le istanze, le virtualità e i limiti della posizione di Jacobi nei confronti 
della metafisica. I punti successivi servono, inoltre, a sintesi e confer- 
ma della linea interpretativa che abbiamo sin qui condotta. 

a. Il discernimento del limite della rappresentazione. Su questo 
punto ci siamo già diverse volte soffermati. Basti ora sottolineare che 
il limite che Jacobi riconosce non afferisce tanto al contenuto quanto 
alla modalità ontologica della rappresentazione. In tal senso, l’ap- 
prezzamento di Hegel circa il riconoscimento jacobiano della finitez- 
za di ogni categoria dell’intelletto 427 , non avanza tanto da riconoscere 
la trascendenza qualitativa dell’esistenza rispetto ad ogni concetto; 
anche rispetto al concetto dell’essere. Ciò importa specialmente per 
le categorie che per Jacobi articolano la stessa struttura dell’esisten- 
za: la causalità, la temporalità. Come il filosofo dimostra, l’oggettiva- 
zione dell’essere (e con esso delle altre categorie) comporta un’astra- 
zione da cui non è possibile ridiscendere al concreto esistente, senza 
appunto presupporlo. L’astrazione tralascia infatti l’interno divenire, 
l’attualità che connotano l’esistente in quanto tale. La necessaria an- 
tecedenza dell’esistenza nei confronti all’intelletto è, quindi, estesa in 
relazione al soggetto. Ecco la presupposizione dell’io, nel suo aspetto 
personale e nella sua immanente operatività 428 . La teoria della ragio- 
ne di Jacobi cerca appunto di giustificare riflessivamente l’inconfuta- 
bile apprensione dell’inoggettivabile che è presupposto ad ogni og- 
gettivazione. In tale senso, si comprende il motivo del suo vario ri- 
corso a funzioni tipicamente non oggettivanti, come l’intuizione e il 
sentimento, per identificare il vertice di intelligibilità raggiunto dalla 
ragione 421 . Si è, tuttavia, notato come la modalità dialettica che con- 
traddistingue la critica di Jacobi all’idealismo lo porti ad insistere 


427 Cfr. G. W.F. Hegel, “Wissenschaft der Logik”, in Sàmtliche Werke, cit., Bd. V 
(Teil II), 317 e ss. 

428 Sulla pensabilità dell’esistenza, del tempo e del singolo si potrebbe confrontare 
la critica di Kierkegaard a Hegel e Spinoza nella Postilla conclusiva non scientifica. 

429 Come abbiamo osservato all’inizio di questo lavoro, un antecedente significativo 
si potrebbe trovare nella dottrina di Pascal, che assegna appunto al sentimento, al 
cuore, la cognizione dei primi principi. Lucien Lévy-Bruhl interpreta invece la con- 
cezione jacobiana del sentimento (e dello stesso Pascal) in un senso irrazionalistico: 
cfr. Id., La philosophie de Jacobi, Alcan, Paris 1894. 



242 


7. Teoria della ragione 


sulla negatività dell’ “intelletto” e in generale della conoscenza ogget- 
tiva o astrattiva, così da renderne insuperabilmente problematica la 
portata ontologica (intenzionale) e l’integrazione con la “ragione”, 
ch’è anche l’istanza più avanzata che il filosofo riconobbe nell’ultima 
fase del suo pensiero. 

b. Analisi e superamento della finitezza. Anche su questo punto 
dobbiamo ribadire un aspetto sul quale ci siamo già soffermati, cioè 
l’intrinseca positività che Jacobi assegna all’ente finito. Il tipo esem- 
plare di unità e sussistenza è per lui l’essere vivente. Questi sussiste 
fintantoché è in grado di mantenersi e di distinguersi dal mondo cir- 
costante. Il concetto e la più ricca comprensione del finito, richiede 
la mediazione dell’alterità; ultimamente dell’infinito. Ma la sua realtà 
è data altresì in se stessa, in virtù dell’atto per il quale esso autono- 
mamente sussiste ed agisce. Per tale relativa assolutezza, la posizione 
dell’individua sostanzialità e della libertà dell’io sono veicolate da 
una facoltà percettiva qual è il sentimento. Nondimeno l’esistenza e 
l’operatività immanente dell’io è tale da non potersi compiere che 
nello scambio con l’alterità. Infatti, la sua attività spontanea, nel co- 
noscere e nell’agire, richiede sempre una passività per potersi solo 
definire nella sua intenzionalità. L’io gode sì di una vita immanente, 
nella conoscenza della verità e nella fruizione del bene; ma questa 
vita si definisce appunto in quanto per essa l’io è capace di sollevarsi 
ad un principio trascendente, ad un vero e un bene infinito, da cui 
poter comprendere il mondo e se stesso. L’io finito aspira ad inserirsi 
in quella vita infinita dove tale realtà e fruizione del vero e del bene 
attualmente sussiste. Ma non potrebbe partecipare davvero di quella 
vita identificandosi semplicemente con essa, sia costituendosi nella 
propria assoluta autonomia sia dissolvendosi intenzionalmente nel- 
l’infinito. 

c. ha dialettica del nulla e il primato dell’ atto. Una delle opposizio- 
ni più di sovente riprese nell’illustrazione del pensiero di Jacobi è la 
secca alternativa tra Dio e il nulla: solo l’affermazione di Dio salve- 
rebbe dalla caduta nel nichilismo. Di qui è facile avvicinare il “salto 
mortale” al “pari” di Pascal. La posizione filosofica di Jacobi sarebbe 
così determinata da una reazione emotiva o volontaristica dinanzi 



7. Teoria della ragione 


243 


alla disperazione 4 ’ 0 . Ad una tale interpretazione viene in soccorso la 
profonda interrelazione che si riscontra nel pensiero del Nostro tra 
la dimensione veritativa e la dimensione assiologica, quindi tra la di- 
mensione cognitiva e la dimensione appetitiva, e che è peraltro uno 
degli aspetti che rendono tale pensiero quanto mai fine e interessan- 
te. Si deve tuttavia osservare che l’assurdo dinanzi al quale Jacobi si 
ritrae ha per lui anzitutto una qualificazione teoretica. L’alternativa 
variamente presentata nei suoi scritti, e dapprima rilevata in Spinoza, 
consiste a ben vedere nell’assunzione deH’intelligenza, dell’amore e 
della libertà a forme supreme e supreme cause dell’essere oppure ad 
accidenti o fenomeni di una sostanza cieca. Se vale quest 'ultima al- 
ternativa, allora il fondo dell’essere è l’indeterminato, il nulla, e l’uni- 
verso di senso sul quale la coscienza umana riposa è illusorio. La pri- 
ma alternativa dipende, certo, da un apprezzamento in cui ha larga 
parte la costituzione morale del soggetto; s’intende di una morale di- 
retta verso la reale oggettività del bene (l’utilitarismo potrebbe inve- 
ce condividere coerentemente la seconda alternativa). Nondimeno, 
tale medesimo apprezzamento, come si vede, incorpora una intelle- 
zione della eminente qualità ontologica degli atti dello spirito e della 
trascendenza del loro rispettivo contenuto, con la concomitante av- 
vertenza della finitezza dello spirito in cui essi si manifestano. Del re- 
sto, è proprio degli stessi dialoghi platonici, cui Jacobi sempre più 
nella sua opera attinge, il sollevarsi al piano metafisico e alla com- 
prensione dello spirituale attraverso l’analisi delle dimensioni e delle 
ultime motivazioni dell’agire morale. In sintesi, la densità ontologica 
e l’apertura infinita rilevata negli atti che costituiscono la vita umana 
comporta la loro estensione trascendentale. La loro realtà esige, da 
un lato, di qualificare l’essere dall’interno, costituendo essi il fondo 
della natura; d’altro lato, la finitezza con cui essi si manifestano nella 
vita umana esige una risoluzione causale in un principio antecedente. 
E questa come una sorta di prova dell’esistenza di Dio condotta se- 
condo il principio aristotelico del primato assoluto dell’atto; ed infat- 


4,0 II filosofo stesso ha prevenuto tale interpretazione tra i lettori che gli erano più 
favorevoli: cfr. Sulle cose divine , W 3, 124 e ss., dove si riferisce a Friedrich Bouter- 
wek. 



244 7. Teoria della ragione 

ti Jacobi nella critica di Schelling, che sostiene invece il primato della 
potenza, si riporta espressamente ad Aristotele 4 ’ 1 . 

Ma se i punti ora esaminati confermano la tesi dianzi espressa cir- 
ca il nerbo speculativo delle posizioni più rilevanti di Jacobi, come 
giustificare allora la sua accettazione del diniego kantiano della meta- 
fisica come scienza, nonché della validità delle prove dell’esistenza di 
Dio? Una risposta forse scontata, ma non meno vera, è che, come 
per lo stesso Kant, la sua critica della metafisica tocca soltanto quella 
che egli aveva soprattutto dinanzi, ossia la metafisica del razionali- 
smo. D’altra parte, la critica di Jacobi alla metafisica di Spinoza è 
condotta precisamente in funzione di un’ontologia alternativa, che 
tuttavia assume, pur negativamente, alcune premesse della posizione 
contrapposta. 

Un esempio particolarmente significativo a tale riguardo è la stes- 
sa nozione di dimostrazione a cui Jacobi fa riferimento, ch’è sempre 
invariabilmente la dimostrazione a priori ( propter quid): dimostrare 
l’esistenza di qualcosa significa determinarne la necessità. L’assolu- 
tezza (o analiticità) è così intesa come condizione qualificante dei 
principi da cui è possibile comprendere la realtà e giustificarne la re- 
lativa apprensione. Di contro all’ontologia razionalista, egli intende, 
invece, il primato assoluto, reale e logico, dell’esistenza sulla possibi- 
lità. Ora, l’esistenza del mondo non ammette una necessitazione, se 
non a costo di distruggerne la stessa struttura tipica con cui essa si 
presenta nell’esperienza: la sostanzialità, la temporalità, l’ordine cau- 
sale e finalistico, etc. Il carattere sintetico dell’esistenza finita richie- 
de, perciò, un principio sintetico, sia nell’ordine reale sia nell’ordine 
logico. Del resto, egli riconosce il carattere sintetico della causalità, 
da cui consegue la sua irriducibilità al principio di ragion sufficiente. 
Particolarmente, egli individua la trascendenza della causalità nell’at- 
to che ne costituisce la prima fonte fenomenologica ed il modello 
esemplare, l’esperienza della libertà. L’affermazione dell’esistenza 
del mondo e dell’esistenza di Dio non implica, perciò, di compren- 
derne la necessità, né richiede di risolverne dapprima i problemi ine- 

431 Cfr. Sulle cose divine , W 3, 93 e ss. Per una valutazione dell’importanza della 
dottrina aristotelica del primato dell’atto in relazione al problema del nichilismo: 
cfr. L. Romera, L'uomo e il mistero di Dio, Edusc, Roma 2008. 



7. Teoria della ragione 


245 


renti alla loro relazione 432 . Ma tutto ciò sarebbe, invece, inflessibil- 
mente richiesto dalla struttura logica della dimostrazione. 

Tuttavia, la dimostrazione “fisica” non solo è impossibilitata a 
giungere al principio, Dio (se non appunto a costo di distruggere il 
principiato, il mondo); ciò che più importa per Jacobi è che un tale 
procedimento è impossibilitato a render conto dell’io, nella più con- 
creta determinazione del suo essere, come spirito. Solo l’identità del 
Principio come persona e solo la realtà della creazione, come opera 
di sapienza, di libertà e di amore, può “giustificare” l’esistenza, così 
dell’io come del mondo. Tale giustificazione poggia, tuttavia, su di 
un più alto ordine di necessità, rispetto all’ordine fisico, ed è la stessa 
che regge la realtà vivente dell’io: la comprensione della consistenza 
trascendentale degli atti dello spirito, la ragione, la libertà e l’amore, 
e l’inestirpabile sua obbligazione nei confronti di una determinazio- 
ne assoluta del vero, del bene e del bello. La “necessità morale”, si 
direbbe, è così intesa come un principio di comprensione dell’esi- 
stenza; ma a patto che la sua materia, la persona e la libertà, e l’ordi- 
ne dei suoi argomenti, il bene e il bello, siano colti sin dall’inizio in 
tutta la loro consistenza ontologica o veritativa 4 ”. 

Un’ipotesi interpretativa che si potrebbe infine avanzare, in ac- 
cordo ai punti sopra esaminati, è che l’originarietà della presenza di 
Dio nella coscienza umana, così come Jacobi l’ammette, implica una 
mediazione, cioè una interpretazione metafisica dell’uomo e del 
mondo, in cui hanno larga parte presupposti non già solo di ordine 

432 Cfr. Sulle cose divine , W 3, 106-110. 

433 In tal senso, si comprende la protesta di Jacobi nei confronti dell’idealismo tra- 
scendentale di Kant, poiché il suo fenomenismo mortifica le virtualità speculative 
della sua dottrina della libertà e della morale. Si potrebbe notare che Fichte avanza 
precisamente in tale direzione, ad esempio laddove egli riconosce la libertà come un 
principio teoretico (cfr. Sittenlehre, 1798). Ma la sua dottrina dell’io, che consegue 
dalle stesse premesse ontologiche dell’idealismo trascendentale, appare inadeguata a 
mantenere la base personalistica della stessa morale kantiana. Di qui, forse, il motivo 
della sua durevole antipatia-simpatia nei confronti di Jacobi. Su questi punti, ci per- 
mettiamo di rinviare ad una nostra recensione di un libro di Reinhard Lauth (Id., 
Con Fichte, oltre Fichte , a cura di M. Ivaldo, Trauben, Torino 2004): cfr. «Acta Phi- 
losophica» 14/2 (2005), pp. 364-366. Per l’estensione della dottrina classica dei pri- 
mi principi al piano antropologico: cfr. J.J. Sanguineti, Introduzione alla gnoseologia , 
Le Monnier, Firenze 2003; El conocimento personal de los primeros principios, “prò 
manuscripto”, di prossima pubblicazione in un volume di studi in onore di Juan 
Cruz Cruz, Eunsa, Pamplona. 



246 


7. Teoria della ragione 


morale ma altresì ontologici o concettuali; precisamente, quelli di cui 
il filosofo si è servito per formulare e per difendere la propria conce- 
zione. Questa si stabilizza certo in una sorta di cosmovisione abitual- 
mente presente e che appare del resto piuttosto naturale. Né è perciò 
richiesta alla coscienza naturale una mediazione esplicita. 

Si può chiedere, inoltre, se la costituzione e l’apprezzamento di 
quella medesima interpretazione metafisica — il teismo, il creazioni- 
smo e il personalismo — non dipendano in realtà, in modo affatto 
intrinseco, da quel medesimo presupposto storico, il cristianesimo, 
che Jacobi ha cercato di concepire filosoficamente. Ci si può doman- 
dare, infatti, se è possibile riconoscere alla realtà umana quella di- 
gnità trascendentale e alla realtà del tempo quel valore esistenziale 
che il filosofo riconosce - invero, distanziandosi alquanto da ogni 
sorta di “platonismo” -, appena si neghi o s’intenda in maniera pu- 
ramente “idealistica” l’effettiva realtà di quell’“antropomorfismo” 
ovvero di quella “divina accondiscendenza” in cui consiste il mistero 
dell’Incarnazione, che è di fatto all’origine della moderna concezione 
della persona e della storia. 

Tali questioni emergono pungentemente appena si voglia affron- 
tare con serietà il problema jacobiano dell’ateismo e del nichilismo 
come esso si presenta nella cultura contemporanea, cercando di met- 
tere a frutto l’“ inestimabile tesoro” che è presente nella filosofia del- 
lo stesso Jacobi. 



Conclusione 


Il pensiero di Jacobi tocca una tra le problematiche filosofiche tra le 
più profonde e ricorrenti: la cognizione dei primi principi della ra- 
gione. A tale riguardo, esso si colloca in una linea già accennata in 
Aristotele, successivamente approfondita nella filosofia medievale ed 
ancora variamente presente nel pensiero moderno, ad esempio in Pa- 
scal e in Leibniz, che individua il carattere primario dei principi nel 
loro aspetto semplice e virtuale, per il loro riferirsi alle dimensioni 
fondamentali della realtà. Vale a dire, i primi principi della ragione 
rappresentano quelle “tesi” ontologiche dalla cui presupposizione 
dipende la formulazione di qualunque tesi o problema critico. Tutta- 
via, conforme al loro senso, così come non possono essere dimostra- 
ti, nemmeno possono essere ridotti, in modo primario ed esclusivo, 
ad una serie di assiomi, ovvero ad un insieme di proposizioni eviden- 
ti. Piuttosto, essi possono essere rilevati per analisi, ed esser quindi 
comprovati dialetticamente, come i presupposti materiali e pragmati- 
ci di ogni asserzione (della stessa asserzione che li esprime). Infatti, 
in essi è manifesta la situazione originaria del soggetto nel conoscere: 
l’io si trova nel mondo in relazione con altri. A questo dato di base, 
successivamente formulato proposizionalmente (“io sono”, “ci sono 
cose fuori di me”, etc.) ed ulteriormente esplicitato nella sua struttu- 
ra empirica o categoriale, corrisponde ciò che potremmo chiamare il 
primo livello del realismo di Jacobi, quello esemplarmente formulato 
nel David Hume. Un secondo livello, che si erge al di sopra e sulla 
base del precedente, si può invece reperire nel riferimento della ra- 
gione ai primi principi costitutivi del reale. Su questo piano si trova 
la concezione di Dio e delle “idee trascendentali”, il bene, il bello, 
sviluppata nell’opera più tarda, specialmente ne Sulle cose divine e 
nell ’ Introduzione generale. La nozione ancora relativamente indeter- 
minata del reale, ossia del “vero”, nel primo, ottiene nel secondo il 
suo intero significato e fondamento. Ed è interessante notare come 



248 


Conclusione 


nella costituzione di questo non basti più il testimonio immediato 
della coscienza del suo essere nel mondo o del potere causale della li- 
bertà, ma si debba risalire alla determinazione più completa della 
stessa coscienza, come coscienza morale, ossia alla proiezione finali- 
stica della libertà. L’istanza epistemica di riferimento non è più così, 
soltanto, la ricezione dell’evidenza primaria con cui è data la situa- 
zione dell’io nel mondo, ma l’interpretazione del suo stesso senso. 
L’auto-comprensione dell’uomo come persona acquista in tal modo 
una valenza speculativa. Tuttavia, come si è cercato di mostrare, non 
potrebbe esser così, né si potrebbe ancora parlare coerentemente di 
un realismo, seppure superiore, se la stessa concezione della persona 
e dei valori che sostanziano la moralità non avessero sin dall’inizio 
una tale valenza, ossia se fossero sprovvisti di una rilevanza propria- 
mente ontologica o veritativa. In effetti, il bene e il bello costituisco- 
no, per il filosofo di Dusseldorf, una più completa determinazione 
del vero, ovverosia una più alta istanza per la comprensione dell’es- 
sere; così, la persona rappresenta la più alta forma di unità sostanzia- 
le. 

In tale prospettiva, il realismo di Jacobi sembra aggiungere alla 
posizione tradizionale, ancora rintracciabile in Reid, una maggiore 
avvertenza dell’implicazione esistenziale dell’io nel conoscere. Que- 
st’ultima sviluppata nell’intenzionalità profonda che la sottende, con- 
duce ad un’ontologia in cui la realtà della persona, nella sua apertura 
ed aspirazione, svolge una funzione costitutiva (il che richiama forte- 
mente la dottrina classica, originariamente platonica, dei trascenden- 
tali). In entrambi i casi, emerge la rilevanza non già meramente empi- 
rica o esigenziale, ma propriamente speculativa, accordata al piano 
antropologico, che è il tratto più tipicamente moderno che caratte- 
rizza l’opera di Jacobi. 

In sintesi, la libertà e la persona, particolarmente come esse si ma- 
nifestano nell’esercizio dell’amore personale, non sono colte dal no- 
stro autore, al modo di Spinoza, come delle determinazioni acciden- 
tali o particolari dell’essere, ma come delle determinazioni propria- 
mente trascendentali, poiché solo in relazione ad esse è possibile 
pensare la realtà del mondo e la natura del primo principio, Dio, in 
accordo alla possibilità dell’esistente. 



Conclusione 


249 


In margine alle conclusioni appena raggiunte, vorremmo indicare 
soltanto due altri aspetti, per così dire formali, per i quali, a nostro 
avviso, l’opera di Jacobi risulta ancora interessante. Da un lato, essa 
testimonia di un’epoca di forte integrazione della filosofia europea: 
l’ampiezza e la varietà delle fonti utilizzate dal filosofo tedesco costi- 
tuiscono, da questo punto di vista, un esempio privilegiato. D’altro 
lato, l’origine epistolare della gran parte dei suoi scritti porta la trac- 
cia di un costume, ancor prima che di uno stile, in cui si può ricono- 
scere, e magari nuovamente apprendere, l’ideale perenne del filoso- 
fare: il radicamento del pensiero nella viva conversazione. 



250 



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266 



Indice dei luoghi citati 


Nota. L’indice riporta i luoghi citati di Jacobi e dei principali autori 
contemporanei. A sinistra, è indicata la relativa pagina nell’edizione di 
riferimento (vd. Bibliografia). Il rinvio ad una pagina in nota è segnato con 
l’abbreviatura “n”. A destra è indicato il numero della nostra nota in cui 
occorre la citazione. I numeri in corsivo segnalano i luoghi citati per esteso. 

F. H. JACOBI 


Introduzione generale, W 2/1 


289-290: 217. 

386: 324. 

398-399: 422. 

375: 108. 

387: 248. 

403: 397. 

377: 109, 270. 

389: 424. 

405: 388. 

377-378: 324, 392. 

390: 10. 

408-409: 245. 

378: 110, 112. 

391:425; 391n: 352. 

411-412:291,365. 

379:393. 

392: 10. 

412:398. 

382: 11. 

393:357. 

422: 388. 

383: 232. 

395: 386. 

424: 381. 

La dottrina di Spinoza, W 1/1 


13: 35. 

167-168: 415. 

262-263:405. 

16-17: 38. 

216: 19, 35. 

264: 89. 

20: 268. 

234: 230. 

335:5, 17 

28-29: 55. 

247: 79, 88. 

338: 17,420. 

105n: 372. 

248: 94. 

339: 20, 409. 

116:387. 

249: 369. 

340: 420. 

123: 229. 

250: 94. 

342:386, 407, 420. 

125: 49. 

253: 83, 215. 

346: 398. 

130:47,48, 61-, 130n: 371. 

255-256: 83. 

347:386. 

157: 44, 387. 

258: 91, 92. 

350: 407, 420. 

159: 397. 

258-259: 397. 

352: 20. 

163: 74, 126. 

260-263: 398. 


163-164:373,375. 

262: 86. 




268 


Indice dei luoghi citati 


David Huine, W 2/1 


9: 226. 

50:215. 

77: 240. 

9-10: 90. 

50-51: 73. 

79: 233. 

27:50. 

54: 76, 405. 

80: 227. 

31-32:51. 

56: 77, 93. 

82: 201. 

32:52,302. 

57: 94, 95, 210, 325. 

82-83:235,360. 

32-33:347. 

58: 96, 200, 285. 

82-84: 199. 

37:54,347. 

59: 97. 

83-84:364. 

37-38: 387. 

60: 125. 

84: 202, 203, 236. 

38:374. 

60-61: 209. 

84-85: 126. 

38-39: 58 . 

61: 99, 234. 

85: 238 . 

39: 59, 61. 

63 n: 226. 

85-86: 371. 

41: 64. 

64n: 228 . 

86: 205. 

42: 65, 66. 

65: 366. 

90: 403. 

43:34, 67. 

65-66: 124, 206. 

91:362. 

44-45: 292. 

66: 243. 

93:40. 

46n: 70 . 

69: 100, 101,302. 

90: 403. 

47: 69. 

69-70: 204, 364. 

103n: 231. 

49: 72,242. 

71:244. 



Sull’ idealismo trascendentale , W 2/1 

103n: 57. 

109: 7, 206. 


Corrispondenza di Allw ili, W 6/1 

88 - 89 : 18 . 231:398. 

89:21. 233:398. 

132: 326. 234n-235n: 416. 

168:351. 237:267. 

211-212:326. 239:398. 

223-224: 127, 353,363. 

224: 250. 

227n: 40. 

228- 229: 360. 

229- 230: 369. 



Indice dei luoghi citati 269 


Woldemar, W 7/1 


234: 377. 

440:415. 

248: 415. 

441:326. 

269: 386. 

443:27,408,415 

270: 344. 

447:377,408. 


Lettera a Fichte, W 2/1 


192:314. 

193: 425. 

194: 46, 266, 299, 
342, 359. 

194- 195:264, 357. 

195- 196:341. 
198-199: 322. 
199:315. 

200: 267. 

201: 104, 105, 214. 
201-202: 262,323, 
333. 

202: 357. 

203- 206: 265. 

204: 342, 357. 

204- 205: 404. 
205:333,335. 
207:315. 

208: 106, 107, 232. 


208n: 414. 

314,399. 

208: 407; 208n: 414. 

208-209: 422. 

208- 215:402. 

209: 232, 300. 

209- 210:318, 407. 
210: 232,267,282, 
287, 320, 335, 408. 

210- 214:386. 
212:309,317,339, 
358, 397. 

213: 310. 

214: 190, 267,282, 
397. 

212-214:418. 

216: 68, 289. 
217-218: 409. 
219-220: 420. 


220: 280, 318, 377. 
221: 282. 

224: 68, 335. 

229: 264. 

232: 111. 

232n-233n: 359, 362. 
234: 257. 

234- 235: 36. 

235- 237: 422. 

236: 309, 338. 

238: 408. 

252:216, 333,336. 
253: 339. 

254- 255: 338. 

255- 257: 386. 

256: 309. 


Sull’itnpresa del criticismo 


274: 207. 
216-211:341. 
278n: 354. 
286n-287n: 197. 
289: 237. 
289-290: 291. 
316-319:36,385. 
321:202, 333. 


321-322:359. 
322: 386. 
328:391. 

329: 207. 



270 


Indice dei luoghi citati 


Su di una profezia di Lichtenberg W 3 


9: 426. 

10: 377. 
11:411,423. 
13: 403. 

14: 254, 380. 
16:411. 


26: 251,346. 

27 -.379; 27 n: 376. 
27-28: 362. 
28n-29n: 270 
30: 407. 


Sulle cose divine, W 3 

41: 378. 

49:377,387. 

78: 94, 263. 

79: 8. 

91n: 399. 

92: 362. 

93:431. 

106-110: 432. 

121: 94, 232. 


121- 122: 357. 
122: 417. 

122- 123: 232. 
123:396. 

124: 430. 
125-126: 362. 
130: 386. 

131: 84. 

140: 423. 


Einige Betrachtungen iiber den frommen Betrug und iiber 
eine Vernunft, welche nicht die Vernunft ist, W 5/1 (103-132): 395. 

An Schlosser ùber dessen Eortsetzung des platonischen Gastmahles, 
W 5/1,242-243: 413. 

Fliegende Bldtter, W 5/1, 397; 415; 403: 414; 406: 423; 411: 419. 

Lettera di Jacobi a Kant, 16-XI-1789, Jacobi’s Werke, Bd. Ili, (525-533): 
426. 

Lettera di Jacobi a Jean Paul, 16-III-1800. In Aus F. H. Jacobi Nachlass, 
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Appunto personale riportato in E. Fuchs (a cura di), Fichte in Gespràch, Bd. 
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Indice dei luoghi citati 


271 


SPINOZA 


(, Spinoza Opera) 

Tractatus de Intellectus Emendatione : 417. 

Ethica Ordine Geometrico demonstrata, 120: 94, 417. 

G. W. LEIBNIZ 


(. Philosophische Schriften ) 

De modo distinguendi phaenomena realia ab imaginariis, R. VI, Bd. IV (b), 
pp. 1500-1504: 244. 

Discours de Metaphysique, in ibidetn, p. 1572: 123. 

Nouveaux Essais sur l’Entendement humain , in ibidem, R. VI, Bd. VI, pp. 
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I. KANT 

(Kant’s gesammelte Schriften, Ak.) 


Kritik der reinen Vernunft, Ak, (Bd.) Ili e IV. 


B 67-69: 137. 

B 71: 152 . 

B 129: 151. 

B 129-130: 121 . 
B 129-133: 150. 
B 133: 141. 

B 134: 139 . 

B 154: 142 , 150. 
B 157: 136 . 


B 157-158: 120 . 

B 157-159: 135 . 

B 266: 154. 

B 324: 231. 

B 327: 247. 

A 354-355: 161. 

B 422: 118 . 

B 404-405: 138, 149. 
B 409: 153 . 


B 422: 159 , 160. 
B 422-423: 138. 
B 423n: 144. 

B 428-429: 147 . 
B 430: 143. 

B 620-631: 148. 


Prolegomena zu einer jeden kiinftigen Metaphysik etc, Ak. IV, 334, 334n: 
145. 

Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Ak. IV, 452, 457-458: 142. 



272 


Indice dei luoghi citati 


Anthtropologie im pragmatischer Hinsicht, Ak VII, § 1 (127-128): 157; 128- 
130: 184. 

Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie, Ak 

Vili: 2. 

Der einzig mògliche Beiveisgnind zu einer Demonstration des Daseins Gottes, 
Ak. II, 70-77: 70. 

Preifischrift iiber die Fortschritte der Metaphysik, Ak XX, 270: 156. 

J. G. FICHTE 


(■ Gesamtausgabe ; GA) 


“Ueber die Bestimmung des Gelehrten”, GA 1/3, 29: 191; 29-30: 186; 31: 
190. 

“Naturrecht”, GA 1/3, 315: 374; 329: 185. 

“Versuch einer neuen Darstellung der Wissenschaftslehre”, GA 1/4 


{Prima introduzione ) 
192 - 196 : 350 . 

194 - 195 : 173. 

199 - 200 : 174. 

(, Seconda introduzione ) 
210 - 211 : 188. 

213 : 168. 

216 - 218 : 167. 


228: 172, 348 . 
241 - 244 : 340 . 

257 - 258 : 189, 288. 
260 : 348 . 

265 - 266 : 181. 

267 : 182. 

(Versuch. Erstes Kap.) 
276 - 277 : 212 . 


“Sittenlehre”, GA 1/5 22-23: 169; 50-51: 177; 133: 177; par. 10: 285. 

“Die Bestimmung des Menschen”, GA 1/6, 247-248: 305. 

“Die Anweisung zum seligen Leben, oder auch die Religionslehre”, GA 1/9, 
109-110:417; 149-150: 279. 

“Wissenschaftslehre ‘nova methodo’” (ed. Halle), GA IV/2, 23: 170; 39: 
176; 221: 98. 

Lettera di Fichte a Jacobi, 30-VIII-1795, GA 111/2, 392: 296; 393: 328. 
Lettera di Fichte a Jacobi, 26-IV-1796, GA III/3, 18: 4. 



Indice dei luoghi citati 


273 


“Frammento” allegato alla lettera di Fichte a Jacobi, 22-IV-1799, GA III/3, 
331-332 -.296; 333: 171. 

Lettera di Fichte a K. R. Reinhold, 8-1-1800, GA III/4, 180-183: 331. 

Lettera di Fichte a Jacobi, 8-V-1806, GA III/5, 354-356: 312. 

Lettera di Fichte a Jacobi, 3-V-1810, GA III/6, 327-331: 273; 329: 275. 

“Fichte zu ‘Jacobi an Fichte’” (Abbozzo di risposta sulla Lettera a Fichte), 
1805/1806, GA 11/11,43 :281. 

“Rùkerinnerungen, Antworten, Fragen”, GA II/5, 154: 175. 

F. W.J. SCHELLING 

(Schellings Werke) 

“Abhandlungen zur Erlàuterung des Idealismus der Wissensschaftslehre”, 
1796/1797, Bd. I, 325: 178. 

“Ideen zu einer Philosophie der Natur”, Bd. I: 259. 

“Zur Geschichte der neuren Philosophie. Mùnchener Vorlesungen", Bd. V, 
235-262: 16; 249-250: 276. 

“Zur Geschichte der neuren Philosophie. Mùnchener Vorlesungen", Bd. V, 
235-262: 16; 249-250: 276. 


G. W. F. HEGEL 


( Hegel Sàmtliche Werke ) 

“Glauben und Wissen”, Bd. I, 410: 284. 

“Wissenschaft der Logik”, Bd. IV (Teil I), 105: 291; Bd. V (Teil II), 317 e 
ss: 427. 

“Encyclopadie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse” (“Sys- 
tem der Philosophie”/, Bd. Vili, 164-198: 15. 

“Vorlesungen uber die Geschichte der Philosophie”, Bd. X, 535-551: 15. 

“Ueber Friedrich Heinrich Jacobi’s Werke. Dritter Band”, Bd. XX, 3 13 - 
347: 15. 



274 


Indice dei luoghi citati 


F. SCHLEGEL 

(Friedrich Schlegel kritische Ausgahe seiner Werke) 

“Uber F. H. Jacobi: von den gòttlichen Dingen und ihrer Offenbarung”, , 
Bd. 1/8,441-458: 15,31,423. 

“Ueber Jacobi“, Bd. 1/8, 585-596: 15. 

J. FRIES 

Wissen, Glaube und Ahndung: 399. 

Von Deutscher Art und Kunst. Fin Voturn fiir Friedrich Heinrich Jacobi ge- 
gen F.W.J. Schelling, 672: 399. 



Indice dei nomi 


Nota. Sono indicati solo i nomi di persona direttamente considerati nella 
nostra trattazione. Il numero si riferisce alla pagina; le note sono segnalate 
con l’abbreviazione “n”, di seguito al numero della relativa pagina. Il nome 
sottintende anche le sue derivazioni (ad. es., Leibniz: leibniziano). 


Aristotele, 26n, 31n, 47, 138n, 151, 
156, 181n, 187n, 206, 215, 225, 
232n, 243-244, 244n, 247. 

Baum, G., 149n. 

Bollnow, O., 156n, 174n. 

Bonnet, C„ 79, 151;238n. 
Bouterwek, F., 243n. 

Buber, M., 37. 

Carrano, A., 225n. 

Cartesio, 24, 36-37, 49, 52, 99, 143, 
154, 162n, 179n, 189, 204, 219n, 
222, 226. 

Cassirer, 76. 

Condillac, E. B., 151; 238n. 

Cottier, M.M., 214n. 

Cristo (cristianesimo), 18-19, 26-27, 
27n, 33, 231n, 246. 

Croce, B., 14n. 

Cruz Cruz, J., 30n. 

Darwin, E., 23 8n. 

Diderot, D., 28. 

Dilthey, W„ 37. 

Diising, E., 164n. 

Di Giovanni, G., 168n. 


Fenelon (F. de Salignac de la Mo- 
the), 229n. 

Fetzer, D., 223n. 

Fichte, J.G., passim. 

Frege, G, 3 In. 

FriesJ., 73, 224n, 225. 

Gabriel, G., 225n. 

Gentile, G., 227 n. 

Goethe, J.W., 14. 

Hamann, J. G., 14, 19n, 23, 213. 

Hammacher, K., 199n. 

Hartley, D., 238n. 

Hegel, G. W. F., 18, 20, 20n, 26n- 
27n, 34, 56n, 72, 74, 77-78, 84, 
97n, 138n, 170n, 172n-174n, 
207n, 215n, 220, 227n, 237n, 
241, 24 In. 

Heidegger, M., 17n, 41n, 103, 222n. 

Helvetius, C. A., 28. 

Henrich, D., 106n, 223n. 

Hòlderlin, J. C. F., 223n. 

Hume, D., 39, 44-46, 47n, 54, 64n, 
79, 89, 226. 

Husserl, E., 41n, 204n. 



276 


Indice dei nomi 


Iacovacci, A., 184n. 

Ivaldo, M., 137n. 

Jacobi, F. H., passim. 

Kant, I, passitn. 

Kierkegaard, S., 35, 215n, 241n. 
Klemme, H., 108n. 

Lauth, R., 245n. 

La Mettrie, J.O. de, 28. 

Le Sage, G.L., 48. 

Lessing, G.E., 18, 27, 32-33, 42, 55, 
56,59. 

Lévy-Bruhl, L., 24 In. 

Lichtenberg, G.C., 108. 

Locke, J., 151. 

Leibniz, G. W„ 7, 31, 52, 60, 60n, 
83-84, 97, 126, 131, 133, 141- 
157, 198n, 200n, 208n, 215, 247. 
McDowell, J., 92n. 

Mendelssohn, M., 18, 32, 34, 49. 
Michelini, F., 207n. 

Nietzsche, F., 30n, 71, 240n. 
Newton, I., 238n. 

Oetinger, F.C., 19n. 

Olivetti, M. M., 164n, 184n.. 
Pareyson, L., 137n. 

Pascal, B., 23-25, 38, 184n, 241n, 
242,247. 

Jean Paul (Richter), 178, 194, 196, 
198, 196n, 198n, 203,205. 
Platone, 19-19, 21, 26n, 31n, 151, 
155, 163, 163n, 215, 225n, 228, 
230, 233n, 237n, 246, 248. 


Polo, L. 172n. 

Reinhold, K.L., 177-178, 194. 

Rousseau, J.J., 200n. 

Reid, T„ 24, 37n, 248. 

Rosefeldt, T., 108n. 

Sandkaulen, B., 225n. 

Sanguineti, J.J., 245n. 

Schelling, F. W. J., 18, 18n, 20, 30, 
32,34,50, 70, 77n, 79, 117, 120, 
157, 163-164, 166-168, 172-173, 
223n, 230, 233n, 244. 

Severino, E., 172n. 

Spaemann, R., 207n. 

Spinoza, B., 18, 18n, 19, 22, 28, 30, 
32-34, 42, 49-50, 52, 55-57, 64n, 
95, 97n, 142-143, 145, 149, 154, 
157, 162n, 163, 164n, 169, 172- 
173, 173n, 184n, 196, 204, 207, 
207n, 219, 225, 229, 229n, 233n, 
24 In, 243-244,248. 

Sulzer, J.G., 150-151. 

Tommaso d’Aquino, 26n, 238n. 

Trendelenburg, A., 215n. 

Verrà, V., 138n, 156n, 232n, 174- 
175n. 

Vico, G.B. , 16n, 24. 

Wittgenstein, L., 211n, 225n.. 

Wolff, C., 33, 119, 150-151, 151n. 

Zingiebl, E., 27. 

Zòller, G., 153n. 



Indice analitico 

Sommario 5 

Presentazione 7 

Nota editoriale 9 

INTRODUZIONE 

1. Introduzione. Il realismo esistenziale di 

Friedrich Heinrich Jacobi 13 

A. Profilo ed elementi 14 

1. Lineamenti essenziali 14 

2. Nuclei concettuali: ragione ed esistenza 23 

a) Ragione 23 

b) Esistenza 28 

3. L’esistenza come principio fondamentale 30 

a) Esistenza e persona 31 

b) Esistenza, ragione e panteismo 32 

4. Il realismo 35 

a) Definizione del realismo 36 

b) Fede e realismo 38 

B. Lettura di alcuni testi esemplari 43 

1. Esistenza e causalità: “David Hume” (la parte) 44 

2. L’impossibilità dell’esistenza: Appendice VII a 

“La dottrina di Spinoza”, 2a ed. (1789) 55 

3. Ragione e vita: “David Hume” (2a parte) 63 

4. Una prova per assurdo: La “Lettera a Fichte” (1799) 70 

5. La ricerca di una sintesi di intelletto e ragione: 

“Introduzione generale” (1815) 73 

a) L’ultitno confronto con Kant 73 

b) Il rapporto di intelletto e ragione 74 

Conclusione 77 



278 


Indice analitico 


I. CONFRONTI 

2. La Deduzione trascendentale delle categorie. 

Kant e Jacobi a confronto 83 

1. Assunzioni preliminari 84 

2. L’io e le categorie 86 

3. La realtà dell’io 88 

4. Aporetica 91 

5. Ipotesi di soluzione: la struttura dell’io vivente 92 

Conclusione 98 

3. Fichte e Jacobi interpreti dell’“io penso” di Kant 99 

I. Kant sull’esistenza dell’io pensante 99 

a) Commento 101 

b) Analisi. 105 

IL Fichte e la concezione sistematica dell’io 109 

1. L’intuizione intellettuale 109 

a) Commento Ili 

b) Analisi. 115 

2. La nozione dell’io 118 

a) Commento 119 

b) Analisi. 123 

III. L’io esistente in Jacobi 125 

a) Commento 127 

b) Analisi 131 

Conclusione 134 

4. Jacobi e Leibniz. Sul progetto incompiuto del “David Hume” 141 

1. Oscillazioni nell’interpretazione jacobiana di Leibniz 142 

2. Le tesi leibniziane nel “David Hume” 145 

a) La monade 146 

b) L’ innatismo della conoscenza 148 

c) La continuità di senso e ragione 149 

3. La tesi leibniziane nell’opera di Jacobi 152 

a) La monade 152 

b) L’ innatismo della conoscenza 153 

c) La continuità di senso e ragione 155 

4. Ipotesi di soluzione: un diverso concetto di vita 156 



Indice analitico 


279 


5. Jacobi e l’interpretazione fichtiana della “Lettera a Fichte” 159 

I. Realismo e idealismo: l’istanza di una mediazione 159 

1. Le nozioni ontologiche fondamentali: essere ed esistenza 159 

2. Profilo della critica di Jacobi: pensiero ed esistenza 161 

3. Profilo della risposta di Fichte: il superamento 

immanente del pensiero 163 

4. Jacobi e l’ontologia di Fichte: il rapporto di essere 

ed esistenza 166 

5. Il realismo di Jacobi: intuizione o dialettica? 173 

6. Prima conclusione. Realismo e idealismo: una differente 

concezione dell’essere 175 

IL Approfondimento: articolazione del rapporto tra Fichte 

e Jacobi 176 

1. Fichte, “Frammento” (1799): la spiegazione trascendentale 

della coscienza 177 

2. Fichte, “La destinazione deU’uomo” (1800): il realismo della 

volontà 179 

3. Fichte, una lettera a Jacobi, 1806: la questione sul 

trascendimento del concetto 182 

Conclusione 187 

IL TEMI 

6. Teoria della persona 193 

a) Commento 194 

b) Analisi: l’ontologia della persona 204 

7. Teoria della ragione 217 

1. Ragione, filosofia e “fede” 221 

2. 1 principi della ragione 228 

3. Ragione, esistenza e spirito 234 

4. Jacobi e la metafisica 239 

Conclusione 247 

Bibliografia 251 

Indice dei luoghi citati 267 

Indice dei nomi 275 

Indice analitico 277